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< 2001 Cultura 2002 2003 >

21.1.02 - La vita del giudice Siciliani

26.2.02 - La Pietra della Fate

10.3.02 - La Divina Commedia in vernacolo

4.9.02 - La cerimonia del "Singo"
da un articolo di Fedele Lamari

14.9.02 - Letteratura calabrese e letteratura universale
di Domenico Distilo

16.9.02 - Un romanzo calabrese di Enzo Siciliano





(21.1.02) LA VITA DEL GIUDICE SICILIANI - Abbiamo raccolto delle note biografiche sul giudice Michele Siciliani, stimato magistrato, autore anche di pubblicazioni giuridiche, attivo nel secolo scorso. Molti lo ricordano quando, ormai canuto, prima di trasferirsi a Messina, abitava ancora la sua casa di via Regina Margherita, nei paraggi di piazza Matteotti.
Il magistrato Michele Siciliani nacque a Galatro il 25 febbraio 1892 da Giuseppe; la madre era una Cordiani. La sua famiglia di origine a quel tempo era ritenuta molto agiata. Dopo aver frequentato le scuole elementari, il padre lo avviò agli studi della scuola normale (corrispondente all'attuale Istituto Magistrale) da dove, ancor giovanissimo, ne uscì col diploma di maestro elementare. Per alcuni anni svolse infatti l'attività di insegnante elementare.
Innamoratosi della giovane Stellina Pagani, appartenente ad una nobile e facoltosa famiglia di Galatro, ebbe, da parte del padre della ragazza, un rifiuto della sua richiesta di fidanzamento. Costui disse: "Non si dica che mia figlia debba sposare un semplice maestro elementare".
Risentito per questo rifiuto, il Siciliani, dopo qualche tempo, sostenne gli esami di licenza liceale e s'iscrisse quindi alla facoltà di legge da dove, in capo a qualche anno, uscì laureato con il massimo dei voti e la lode. Vinto il concorso in magistratura ottenne finalmente la mano della giovane Pagani. La coppia ebbe due figli: Antonio e Francesca.
Il giudice Siciliani è stato pretore a Cinquefrondi, Taurianova e, progredendo poi nella sua carriera di magistrato, raggiunse il grado di giudice di Corte d'Appello.
Morta la prima moglie, egli sposò in seconde nozze, una signorina originaria della vicina Paravati (frazione di Mileto). Da quest'ultima ebbe un figlio: Rocco. Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Messina dove morì il 18 gennaio 1977.


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(26.2.02) LA PIETRA DELLE FATE - Un'antica leggenda ci tramanda che a Galatro, in tempi antichissimi, nella contrada "Petra", vivevano le fate ed una chioccia dai pulcini d'oro. Perciò tale contrada venne denominata "A petra di' fati". Prendeva il nome di "Petra" dall'esistenza di una alta e grossa roccia nella cui caverna, si dice, abitavano le fate, le quali avevano il potere di trasformare ogni cosa secondo i loro capricci.
Si racconta che ai contadini cattivi esse trasformavano il grano o il granone in carbone; mentre ai buoni facevano sì che avessero ottimi ed abbondanti raccolti. Ai pastori turbolenti trasformavano gli animali in pietra, o il latte per la ricotta in acqua sporca chiamata "lissìa". Alle massaie poco rispettose, miscredenti della loro presenza e della loro potenza, se allevavano dei pulcini, facevano sì che quelli diventassero di pietra; mentre a quelle rispettose e credenti della loro potenza taumaturgica, facevano trovare nelle loro casse oro e argento.
A una massaia che aveva una chioccia con ventuno pulcini, fecero sì che diventassero tutti d'oro e la capanna di legno, dove questa abitava, un grande palazzo arredato di tutto punto e con una servitù eccellente. Questo quanto si raccontava e si racconta intorno alle fate e alla "hjocca ch'i purhìa d'oru". Quest'antica leggenda viene citata anche in una poesia di don Rocco Distilo:
[...] Or sei mutata che' cosi' ti volle
l'ira del fiume, ma divisa sempre
da Montebello e da Magenta sei,
Galatro mia. E se la fiaba parla
di chioccia d'oro e delle Fate ai boschi,
e di tesori che di sangue han sete,
tacito impera alla tua gloria oblìo.


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(10.3.02) LA DIVINA COMMEDIA IN VERNACOLO - Per i tipi dell'editore Pellegrini di Cosenza ha visto finalmente la luce un'opera davvero monumentale, la traduzione nel dialetto calabrese di Laureana di Borrello della Divina Commedia del sacerdote don Giuseppe Blasi, parroco di Bellantone, realizzata tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso.
Dell'esistenza di questa traduzione si sapeva. Gli eredi dell'autore non avevano mai però inteso metterla a disposizione degli studiosi. E' merito di Umberto Di Stilo averli convinti a consegnargli il manoscritto che esce ora in un'edizione davvero pregevole a cura dello stesso Umberto Di Stilo, con una presentazione del Sindaco di Laureana Giovanni Carè, la cui Amministrazione ha sponsorizzato l'operazione, con una nota critica di Ugo Vignuzzi e con un ampio lessico curato dal linguista dell'Università di Roma "LUMSA" Paolo Martino.


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(4.9.02) LA CERIMONIA DEL "SINGO" (da un articolo di Fedele Lamari) - I matrimoni tra i giovani pastori di alcune zone del nostro Appennino, i quali restano legati per tradizione alle secolari usanze paesane, avvengono di solito, tra famiglie di già in parentela tra di loro, o che lavorano e vivono nella stessa contrada.[...]
Il giovane [...] indica la ragazza da lui prescelta ed il casato cui appartiente; la giovane mamma, rotta dalla fatica ed imbiancata anzi tempo d'una precoce e frequente maternità, lo rasserena, lo tranquillizza perché quella sua decisione trova eco festante nel cuore suo e dell'ansioso padre e quel segreto amore, cullato per anni e anni, diviene espressione operante di un'anima, che ama la vita e la continuità di essa.
Un'intima e minuziosa analisi del quadro generale della situazione fra padre e madre li spinge a rendere partecipe della decisione del figlio tutto il parentato ed esaminati dai più anziani salute, moralità della ragazza e del casato, consistenza economica e non sorgendo obiezioni di rilievo, si dà concordemente incarico al più vecchio e più assennato, chiamato il "saputo", perché vada in casa della famiglia indicata ad avanzare richiesta di matrimonio in nome del giovane pretendente. La domanda viene accettata, forse perché anco attesa e prevista, con tutti i contorni della cortesia montanara, ma con riserva sempre, perché così vuole la consuetudine, della risposta definitiva; si interpellano i più vecchi, si sente il loro parere, le loro proposte e, dopo aver discusso sulla capacità del giovane e sulla serietà del casato, il padre delega la zia o la cugina più intima, perché dia al richiedente ampia risposta di accettazione e di onore che essi sentono ad imparentare con la sua famiglia, salvo controversie che potrebbero sorgere dal giorno del "singo", e cioè durante la cerimonia del fidanzamento ufficiale.
I genitori di ambo le parti, messisi d'accordo, stabiliscono il giorno della cerimonia austera e solenne (io la considero più di quella delle nozze) perché senza notaio, senza "orbaranu" (elenco scritto del corredo) ma al cospetto di tutti, le loro parole hanno irrevocabile valore di atto pubblico, definendo limiti, stabilendo dati spese, arredi e corredi che le parti interessate si vincolano di dare e di sostenere. Per la celebrazione di questo primo rito si sceglie sempre o una giornata di domenica o quella di una festività religiosa e il rito si svolge sempre nella casa della futura sposa, sia per deferenza al casato cui si viene ad imparentare, che per il rispetto alla ragazza, caso mai il matrimonio, e per cause imprecisate, non dovesse aver luogo.
Per l'occasione si portano fuori "spinsari" (giacchette da contadine) e camicette di seta, fazzoletti e scialli con ricche frangie, monili di varie forme e fattura e le popolane nostre, una volta tanto mettono in mostra quanto di più ricco hanno per rendersi belle ed attraenti.
Gli uomini, lasciato il costume campagnolo di "orbaso" (panno grossolano e pesante di color nero), il cappello a cono e le scarpe ferrate, vestono il tradizionale abito di "tarpa nera" e la candida camicia di cotone. Primo di tutti il maestro di cerimonie, cioè il più stimato di tutti i parenti sia per senso che per età, riceve gli invitati, assegna loro i posti, ha cura della mensa, dei dolci e si occupa di tutto ciò che ha attinenza con la festa e tra l'una e l'altra pipata, constatato che tutti sono presenti, invita i genitori dei due giovani a dire al cospetto dei congiunti ed amici la rituale formula, che li vincola ad assumersi, su quello che riguarda le singole famiglie, gli obblighi sulla costituzione della dote. "Perché tutti lo sappiano e possano domani testimoniarlo ed avendo la mia parola valore di pubblico atto - dice il padre del promesso sposo - mio figlio porta in dote: due giovenchi, una vitella, un carro, una quota di terra per la 'posata' e provvede a sue spese per mobili ed abiti". I presenti si limitano a dare la loro approvazione con un cenno del capo. Lo segue il padre della fidanzata che ai convitati dichiara: "mia figlia porta in dote, una casa, un corredo, un appezzamento di terreno e si assume l'obbligo di pagare le spese della cerimonia del matrimonio". La futura suocera, avuto licenza di tutti i presenti, adorna la giovane di un anello, di un paio di orecchini e di un ricco fermaglio che, per antica tradizione, ella deve portare ogni giorno sino al dì delle nozze, ed ha così luogo il famoso "singo" da "signum" e cioè la ragazza già fidanzata, viene attraverso quel segno aureo, che porta alla mano, alle orecchie e al petto, a farsi distinguere fra le altre, e si è sicuri di non errare incontrando una campagnola così ornata, che essa è già fidanzata o prossima a sposare.
Al bacio tra tutti i parenti, che è un suggello di un patto d'amore, seguono il banchetto e la tarantella e così termina la bella e commovente cerimonia, che conserva la poesia di tempi lontani.

Fedele Làmari (Rivista "Lares", Organo della Società di Etnografia italiana e dell'Istituto di Storia delle Tradizioni popolari dell'Università di Roma, Leo S. Olschki Editore, Firenze, Anno XXX, Fasc. III-IV, 1964)


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(14.9.02) LETTERATURA CALABRESE E LETTERATURA UNIVERSALE (di Domenico Distilo)
Considerazioni a margine dell'incontro di Galatro su Fortunato Seminara - Da anni, si sa, imperversa il cosiddetto revisionismo storico, un’ideologia storiografica (o una storiografia smaccatamente ideologica) che, paradossalmente, fa della lotta contro la storiografia che definisce ideologica la propria ragion d’essere.
Si tratta di un fenomeno non specificamente italiano ma che in Italia, sulla scorta di una ricezione ora deformante ora caricaturale della lezione di Renzo De Felice, il maggiore o perlomeno il più noto storico del fascismo, è approdata a negare ogni retroterra ideale e culturale all’antifascismo, alla Resistenza e al Risorgimento riducendone il significato a esiti fortunati e fortunosi di minoranze cospirative alla ricerca di vendette politiche.
La storia come cospirazione è il leit-motiv di questa storiografia, cospirazione che avrebbe riguardato sia la storia intesa come res gestae sia la historia rerum gestarum, il racconto fatto dai vincitori, dominata dall’omissione, dalla deformazione, dall’occultamento, dalla rimozione di eventi che essa, in quanto storiografia sedicente antiideologica e obbiettiva, si assume come missione (va da sé, politicamente disinteressata) di portare o riportare alla luce del giudizio storico e politico.
Il revisionismo non poteva non investire la storia letteraria aggredendo lo “schema risorgimentale” secondo il quale sono esistite una cultura e una letteratura unitarie, nazionali, a dispetto della divisione politica del Paese.
Poiché l’idea stessa di letteratura italiana non sarebbe stata che un’astrazione, un’invenzione della classe dominante, l’ovvio corollario è che soltanto la “cospirazione” di questa avrebbe fatto sì che scrittori del Sud come Fortunato Seminara venissero ostracizzati dalle grandi case editrici, tenuti ai margini dei circuiti culturali “urbanocentrici” e deliberatamente misconosciuti nel loro valore al fine di neutralizzare la carica contestataria o rivoluzionaria del loro messaggio.
Da qui è breve il passo che porta a chiudere tutta la letteratura del Sud in una dimensione di alterità irriducibile a qualsiasi lettura nazional-unitaria dei fenomeni letterari, ad affermare che tra letteratura del Sud e letteratura nazionale vi sarebbe un rapporto di totale incommensurabilità (come per il lato e la diagonale nel quadrato) e a convergere con la storiografia filoborbonica (il revisionismo sul Risorgimento) nella elaborazione delle premesse cultural-politiche di una sorta di equivalente sudista del leghismo.
Si tratta di una lettura della storia e della storia della letteratura che discende, sia pure per vie assai contorte, niente poco di meno che da Antonio Gramsci, risalendo al fondatore del PCI l’interpretazione del Risorgimento come rivoluzione mancata (anche se pur sempre rivoluzione). Tra Gramsci e i suoi odierni epigoni c’è però una differenza non dappoco. Mentre infatti Gramsci inscriveva quel giudizio in una visione progressiva per la quale il passato e il presente sarebbero stati riscattati in un futuro più o meno prossimo in cui i contadini si sarebbero uniti agli operai, gli operai ai borghesi, gli scrittori al popolo e questo al “moderno principe” (il partito) in una nuova società, in un nuovo patto che avrebbe realizzato gli ideali emancipatori del socialismo, l’assenza di questa visione negli epigoni ne rende la prospettiva chiusa e asfittica, “reazionaria” come si diceva una volta, ripiegata sul presente e sulla specificità del genius loci dal cui punto di vista si condanna senz’appello – in quanto succube dell’imperialismo, dell’omologazione, della globalizzazione - ogni tentativo di ampliamento degli orizzonti e di inserimento del locale nel nazionale, del nazionale nell’europeo e dell’europeo nel mondiale. Si chiude la strada, per dirla in breve, all’aspirazione che è alla base di ogni impegno letterario autentico: la ricerca e il riconoscimento in un tempo e in luogo necessariamente particolari di ciò che ha un valore umano universale.
Per raggiungere l’obiettivo di promuovere e valorizzare questo o quello scrittore si fa leva – ottenendo effetti di segno opposto - non su ciò che di lui si proietta in una dimensione universale, ma su ciò che è locale e particolare, specifico e che la grandezza dello scrittore, quando è autentica, trascende senz’altro facendo sì che Mann, ad esempio, sia sì uno scrittore tedesco, ma uno scrittore tedesco universale per leggere il quale non è necessario essere tedeschi e aver respirato l’aria di Amburgo. Anzi, leggendo Mann da calabresi o da americani o da cinesi si diventa tutti un po’ tedeschi di Amburgo.
La stessa cosa deve poter avvenire per Seminara e per altri scrittori calabresi che meritano di essere adeguatamente illustrati. La “calabresità” non può essere il punto d’arrivo ma il punto di partenza, la materia che l’arte dello scrittore elabora per rendere universale la propria, peculiare chiave di lettura della realtà.
Trarre e diffondere ciò che di Seminara è universale e trascende lo scrittore nato e vissuto nel secolo XX in un piccolo paese della Calabria è il compito che deve assumersi la Fondazione che ne porta il nome, senza indulgere ulteriormente nel piagnisteo sul presunto mancato riconoscimento da parte della cultura del Nord.
Il mancato riconoscimento, beninteso, è innegabile. Ma non è dovuto alla cospirazione del Nord contro il Sud. Piuttosto a vicende della storia e della vita di Seminara sulle quali, certo, avrà influito, come causa generale e non particolare, il fatto che il Sud è da sempre in ritardo sul Nord. Tanto più che Seminara, come tanti altri grandi uomini del Sud solo da morto è riuscito ad essere profeta in patria.
Del resto, se fosse vera la teoria della cospirazione non avremmo avuto riconoscimenti per nessun sudista. Ma come metterla con Verga, Pirandello, Alvaro, Sciascia e chissà quanti altri?


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(14.9.02) UN ROMANZO CALABRESE DI ENZO SICILIANO - Lo scrittore Enzo Siciliano, già presidente della Rai, ha ambientato nella Calabria degli anni '60 e '70 il suo ultimo romanzo dal titolo "Non entrare nel campo degli orfani" (Mondadori 2002).
L'io narrante è uno scrittore che vive a Roma, pubblica libri e collabora ai giornali. Riceve dal cugino Fausto rimasto invece a vivere in Calabria due successive telefonate che lo inducono ad un combattuto viaggio di ritorno. Fausto è un professore in pensione, cui l'io narrante è legato da ricordi primari d'infanzia e adolescenza. Il suo segreto è il dramma di una paternità colpevolmente elusa. In questo modo il viaggio in Calabria (tra Nicastro e Gioia Tauro, tra la piana di Santa Eufemia e il lontano orizzonte della rupe di Tropea, tra Capo Vaticano e gli slarghi di Nicotera) diventa una discesa al groviglio dei ricordi e degli incontri (con paesi, persone, odori, colori, sentimenti, emozioni, iniziazioni, parentele, cancrene, pronunce dialettali), che una terra come quella calabrese ha impresso non solo nella carne del cugino ma nella stessa carne - sia pur più protetta - dell'io chiamato a raccontarla. Coinvolgendo in poco più di una settimana una serie di soste, complicità, dilazioni, digressioni, divagazioni, il segreto di Fausto s'impasta nell'asprezza di un tragico passaggio alla modernità. Nella Calabria divisa tra sessantotto e moti di Reggio, tra 'ndrangheta e ricatti, traffici balordi e soldi sporchi, il romanzo di Siciliano dipana la storia di un figlio che si perde prima nei dolorosi furori di un sessantotto dissacratore e poi in una serie di complicità mortali.
E' sorprendente come, utilizzando sullo sfondo una terra viva, un paesaggio mobile, di carne e di ossa, mutevole e acceso come i personaggi che lo popolano, Enzo Siciliano abbia sovvertito un tenace luogo comune della nostra tradizione sociologica e narrativa. Troppo spesso quelle stesse terre, quel certo Sud, hanno simboleggiato l'immobilità, l'espulsione dal corso della storia, il trasognato incanto della vita arcaica e primitiva: quasi che gli eventi che cambiano la storia dovessero accadere sempre altrove, e che altrove la storia dovesse cercare i suoi eroi. Invece "Non entrare nel campo degli orfani" dimostra come anche quella bellezza remota possa essere marchiata e stravolta dall'unghia dei nostri tempi, come anche nel cuore della sua apparente staticità si possano consumare drammi silenziosi e privati, ma anche eclatanti e collettivi. Così, sembra dire questo romanzo, ricco di echi memoriali come di tensione civile, tornare in Calabria può significare non solo fare i conti col passato, con la memoria individuale, con un tormentoso e drammatico rapporto tra un padre e un figlio, ma frugare nelle ceneri ancora calde della storia di questo nostro paese, reincontrare i suoi fantasmi, scontrarsi, ancora una volta, con le sue implacate furie.
(Da una recensione di Giovanni Tesio)

Enzo Siciliano
Non entrare nel campo degli orfani | pp.358 | 1ª ed.
Prezzo di copertina: Euro 16,80
Mondadori - 2002

Enzo Siciliano Enzo Siciliano è nato a Roma nel 1934. Laureato in filosofia, la sua formazione è stata segnata da alcuni grandi protagonisti della cultura del Novecento: da Debenedetti a Moravia, da Pasolini a Bassani e Bertolucci. Prima dell'esordio letterario e dell'attività critica e pubblicistica, è stato insegnante e funzionario della Rai. Ha scritto saggi critici, romanzi, racconti e opere teatrali. Tra le sue opere più recenti: Mia madre amava il mare (1994), Teatro romano (1995), Breve viaggio in Italia (1996), Diario italiano 1991-1996 (1997) e I bei momenti (1997).


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