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1.7.11 - I cazi calati
Biagio Cirillo

2.7.11 - Roberto Raschellà premiato a Bedford Park


2.7.11 - Significato e valore della filosofia

Raffaele Mobilia

19.7.11 - Intervento di Angelo Cannatà nel dibattito sul libro di Giorgio Bocca


24.7.11 - Scienza e fede

Pasquale Cannatà

28.7.11 - Nuovi premi per il poeta Rocco Tassone


6.8.11 - Il culto della Madonna del Carmine nel nuovo libro di Umberto Di Stilo

Michele Scozzarra

8.8.11 - OnScreen Communication e Mercedes-Benz


11.8.11 - Le foto degli scontri di Londra

Roberto Raschellà

19.8.11 - "Arteincentro" a Messina


21.8.11 - 'A caccia 'o tesoru

Biagio Cirillo

22.8.11 - Il libro di Rocco Cosentino presentato a Taurianova

24.8.11 - I versi dell'abate Martino nel libro di Giorgio Bocca


7.9.11 - Impegni concertistici calabresi per il pianista Nicola Sergio

10.9.11 - Mostra personale su Madonna per Roberto Raschellà

11.9.11 - La fede, la ragione e... il nulla: un libro di Pasquale Cannatà

Domenico Distilo

21.9.11 - La carica dei Tarankaradros

Massimo Distilo

24.9.11 - Le contrade di Galatro (IV)


13.10.11 - Resoconto della presentazione del libro "Niente di cui pentirsi"

17.10.11 - Celebrity: mostra a Seregno per Roberto Raschellà


19.10.11 - Telesio, Campanella e la chiesa calabrese

Angelo Cannatà

30.10.11 - Diario toccante di una prigionia dura e dolorosa

Umberto Di Stilo

13.11.11 - Premio "Passione teatro" per Rocco Giuseppe Tassone


19.11.11 - Un altro premio per Peppe Macrì

Michele Scozzarra

30.11.11 - Peppe Forte: dentro la bellezza dell'arte... la salvezza

Michele Scozzarra

7.12.11 - Una mostra collettiva per Roberto Raschellà


11.12.11 - Al prof. Salvatore Rizzo il premio nazionale Caponnetto

Michele Scozzarra

20.12.11 - Che cos'è l'uomo?

Pasquale Cannatà

23.12.11 - Premio Calogero 2011 a Umberto Di Stilo

Michele Scozzarra

24.12.11 - Il presepe del sacrista nella chiesa di San Nicola

Nicola Pettinato

27.12.11 - Nicola Sergio sulla rivista "Musica Jazz"


27.12.11 - La Settimana Enigmistica dedica un cruciverba a Galatro





(1.7.11) I CAZI CALATI (Biagio Cirillo) - Non è un ritorno alla grande, ma sicuramente lo faccio con piacere. C’è stata la moda dei pantaloni alla zuava, a tubo, a “menzu gambedhu" e adesso c’è questa moda “di' cazi calati”. A causa di questa moda a me antipatica, soprattutto sugli uomini, mi sono inventato una poesia. Come al solito spero sia gradita ai visitatori del sito.
Saluto tutti con grande affetto.

I cazi calati

Guarda chi moda brutta chi mbentàru,
i cazi a l’omanèdhi nci calàru,
mutanti ghianchi, niri e culurati
spuntanu fora di “sti cazi calati”.

Hannu nu modu stranu i caminari,
sembra ca incodu s’epparu i cacàri,
non s’usa mancu u méntinu a curria,
o postu soi mi virgognarìa.

Di tutti i modi chista eni la péju,
non pozzu veramenti pemmu a vìju,
n'a sugìcu, anzi a detestu,
speramu armenu ca finisci prestu.

Na vota, du corpu l’omu avìa cchiù rispettu,
facìa vidìri sulu i pili o pettu,
u deretanu era tantu sacru,
non si vidìa mancu s’era abbasciàtu.

Mo fannu a gara a cu l’avi cchiù di fora,
non nci poi diri mancu na parola,
ti dinnu ca i tempi mo su chisti
e tu a n’atra epoca nescisti.

E chi àju a fari?
sicuru m’àju abituari
mu vighiu chi giranu nte strati
cu' culu i fora e i cazi calati.

Bolzano 25.06.2011
Biagio Cirillo


Nella foto: "cazi calati" da uomo.


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(2.7.11) ROBERTO RASCHELLA' PREMIATO A BEDFORD PARK - Si è conclusa a Bedford Park la mostra fotografica denominata Bedford Park Photographic Exhibition and Competition.
Il fotografo di origini galatresi Roberto Raschellà, che da tempo vive a Londra, ha ricevuto ben tre menzioni nella categoria vincente "Best in town" da una giuria di fotografi professionisti.
Una sua foto inoltre ha ottenuto il secondo premio nella stessa categoria. Davvero una gran bella soddisfazione per il giovane fotografo le cui ottime qualità avevamo già avuto modo
in passato di evidenziare.
Vi proponiamo in basso i link dove sono visibili le sue foto che sono state premiate e facciamo naturalmente a Roberto i migliori complimenti da parte di tutta la nostra Redazione.

Prima foto con menzione

Seconda foto con menzione

Terza foto con menzione che è anche arrivata seconda nella categoria "Best in town".

www.ilvicolopaoletto.com/blog


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(2.7.11) SIGNIFICATO E VALORE DELLA FILOSOFIA (Raffaele Mobilia)
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza”
(Dante, Inferno XXVI)

“La filosofia è quella materia per la quale
con la quale e senza la quale
il mondo resta tale e quale”
(Anonimo imbecille)


Significato e valore della filosofia, ovvero l’amore per la conoscenza.

Non ho mai nutrito particolare stima o simpatia per coloro che disprezzano la filosofia, i quali, con la pretesa di giudicarla una sterile quanto inutile speculazione teorica ne liquidano la validità ritenendola futile passatempo per oziosi inconcludenti; né, tantomeno, per coloro i quali hanno un atteggiamento di sufficienza o poco rispetto verso la cultura tout-court, considerandola un optional o addirittura sbeffeggiandola, ritenendola scarsa fonte di opportunistici proventi o di potenziali quanto facili introiti pecuniari. Sarei proprio curioso di comprendere, visto che sono affetto da un congenito “horror vacui” verso superficialità e ignoranza volutamente e colpevolmente alimentate e pubblicizzate (da qualche decennio addirittura apologizzate più o meno esplicitamente da triviali modelli imposti dai mass-media), quali siano i principi - cardine di riferimento e guida di chi non si pone mai le domande fondamentali della vita di essere umano, cioè del significato della propria esistenza nel contesto della creazione e dell’evoluzione cosmica.
In fondo, solo a soffermarci un pochino sul pensiero che siamo - sic et simpliciter - minuscoli esseri vaganti su un microscopico granellino planetario (“atomo opaco del male”) sperduto dentro spazi siderali di dimensioni smisurate e incommensurabili – e inimmaginabili – dove la luce, che viaggia alla velocità più alta conosciuta in natura, impiega anche milioni di anni solo a portarcene le informazioni visive (e, in generale, elettromagnetiche) ogni presunzione o hybris, arroganza e tracotanza di narcisistica onnipotenza, svanirebbe come neve al sole. Se, piuttosto, dessimo più ascolto a quella voce interiore che ci spinge, sin dagli albori di ogni civiltà, a ricercare e scoprire, conoscere, o almeno, tentare di sapere e capire, sia indagando e studiando ciò che ci circonda, che interrogando le misteriose profondità della nostra anima, saremmo probabilmente più inclini e pronti ad accettare le inevitabili sofferenze e i dolori che la vita ci impone e con i quali fatalmente ci unisce nella comune sorte di esseri mortali e vulnerabili. E ad agire, di conseguenza, con maggiore umiltà e impegno, consapevolezza, solidarietà e senso di responsabilità; e, oserei aggiungere, anche con migliore intelligenza e sense of humour. In altri termini, saremmo, meramente, perfino più umani.
Qual è il nostro posto nell’universo? Possiamo capire la realtà? E che cos’è la realtà? Perché siamo qui? Possiamo conoscere e capire il mondo? Possiamo migliorarlo? Possiamo conoscere e capire noi stessi? Possiamo migliorare noi e la nostra esistenza individuale e sociale? La risposta all’ultima domanda è, comunque, categoricamente imperativa: dobbiamo, nel senso che è nostro compito e dovere etico almeno tentare di farlo. In caso contrario, la pena sarebbero l’abbrutimento, il degrado, l’involuzione morale, la dis-umanizzazione.

“Una vita senza ricerca
non val la pena di essere vissuta”
(Socrate)

La ricerca della conoscenza: “fatica di Sisifo” o “scelta forzata”?

Il mio credo pedagogico
Forse siamo davvero condannati a non poter disporre delle informazioni che cerchiamo entro il breve arco di tempo concessoci, vittime della fuggevolezza degli istanti che tessono la trama temporale, e quindi storica, delle nostre vite terrene. Vittime delle barriere imposte dalle stesse leggi della physis (natura), madre e, ahimè, spietatamente e leopardianamente matrigna quali, ad esempio:

a) la limitatezza del nostro apparato conoscitivo (intelletto, memoria, coscienza) che si serve imprescindibilmente dei nostri sensi (limitati) per cui possiamo venire a contatto sempre e soltanto con una piccola fetta della realtà (a volte distorta proprio dai sensi), trascurandone tutti gli altri aspetti e dimensioni. E’ proprio qui che la sfida della nostra mente che usa se stessa (e anche qui, quasi sempre solo in parte) per scoprirsi e capirsi e comprendere il mondo in cui vive si fa davvero nobile e stoica, se non addirittura atlantica;

b) Il limite degli stessi fattori ed elementi fisici, come la velocità di “propagazione comunicativa” dei fotoni (la luce, o, in generale le onde elettromagnetiche) che ci giungono ben oltre il tempo presente (quello che ci è concesso di vivere ora, su questo mondo): noi possiamo osservare, studiare e descrivere l’universo come era nel passato e non com’è realmente adesso. Magari, al di là del nostro sistema solare, tutto il resto potrebbe benissimo non esistere più…

c) Il principio di entropia, per effetto del quale anche il sapere e la conoscenza - come ogni altra cosa appartenente all’universo di cui facciamo parte - sono soggetti a deterioramento continuo, a causa di una “difettosa” (e dispettosa) perdita costante di informazione insita in una naturale tendenza verso la disgregazione, il disordine e l’oblio.

Ciò significa che dobbiamo rinunciare alla ricerca? Niente affatto, anzi, l’esatto contrario. Visto e considerato che, volenti o nolenti, siamo prigionieri di questo effimero angolino del continuum spazio-temporale, incolpevoli (?) passeggeri di un pianeta e di un universo che potrebbero precipitare verso l’abisso dell’autodistruzione e della morte termica (!), l’unico e veramente eroico e profondo modo di affrancarci e recuperare la libertà (e la dignità) è proprio quello di coltivare con cura e pazienza le nostre pur infime intelligenze hic et nunc per lasciare una traccia del nostro breve passaggio ai posteri, un piccolo ma significativo messaggio. Cosicché i nostri eredi possano essere invogliati a fare altrettanto coi propri discendenti. E con tale messaggio sarebbe veicolato il senso, lo scopo, il significato ultimo della nostra fugace apparizione. Che è connesso al divenire ciò che possiamo divenire, partendo da ciò che siamo stati ieri e ciò che siamo oggi. E in tale messaggio sarebbe altresì racchiusa la quintessenza dell’ultima delle divinità, quella che non deve assolutamente mai morire, a dispetto di ogni situazione, anche la più tragica: la Speranza.

“Un lungo viaggio
incomincia con il primo passo”
(Antico proverbio orientale)

“Fiat lux”…
e la luce fu”
(Libro della Genesi)

Genesi del pensiero filosofico: dall’autocoscienza alla ricerca di senso.
Tutto ha origine qualche centinaio di migliaia di anni fa: l’Uomo, trovatosi “scaraventato”in un mondo selvaggio ed ostile, costretto a lottare quotidianamente per la propria sopravvivenza lavorando per procacciarsi cibo e vesti e a cercare riparo e difesa da belve feroci e intemperie, comincia a prendere coscienza di sé e della propria esistenza. Giunge, nella notte oscura dei millenni, il momento in cui arriva a chiedersi: “Chi sono?”. Qualche istante prima (istante inteso nel contesto dei tempi cosmici) gli era pervenuta, non sappiamo se in forma di leggero barbaglio o di fulgore abbacinante, la numinosa luce interiore dell’auto-consapevolezza, della coscienza di esistere, dell’ “ Io sono”. Poco dopo, si chiederà anche il perché. Ovviamente, una domanda così strutturata e densa di significato richiede un linguaggio già costruito e ben articolato, con lessico, grammatica e sintassi; richiede cioè consapevolezza linguistica. Ciò non implica che a un livello meno evoluto, fatto di sensazioni e percezioni, tale domanda non sia possibile. Solo che sarebbe posta in maniera meno precisa, molto più vaga. C’è voluta l’invenzione di una lingua, orale prima e anche scritta dopo, a dotare l’ “uomo ricercatore” dei mezzi efficaci con cui focalizzare le proprie idee e organizzare la propria capacità di raziocinio, svolgendo le operazioni mentali di logica sequenziale e coerente dando “corpo” al proprio intuito e alle proprie ineffabili e recondite sensazioni ed emozioni, definendole verbalmente, col verbum, la parola, il logos. Voilà il salto qualitativo: ora è possibile una maggiore e migliore comunicazione col proprio simile e con se stesso. Comunicare nella più pura accezione etimologica di “mettere in comune”, “cum-dividere”, scambiarsi reciprocamente contenuti di pensiero, condividere emozioni ed esperienze, gioie e dolori, e trasmetterle non solo simultaneamente, sincronicamente, ma anche diacronicamente. Così, lentamente, giorno dopo giorno nel corso dei millenni che segnano il cammino dell’evoluzione umana, ha inizio e si sviluppa la cultura.

Coltivare e nutrire lo spirito
Oggi si dice che “tutto fa cultura”. In verità, sono pochi gli altri termini che racchiudano in sé un insieme di significati così vasto. La parola “cultura” viene dal latino, per derivazione di “cultus”, participio passato di “colere”= coltivare. Proprio nel senso di coltivare e far crescere, aiutare a rendere produttiva e creativa la meraviglia della creazione cosmica che è la nostra mente. Ecco che, a fortiori, l’essere umano, ancor prima di imparare a esser capace di coltivare un qualunque terreno o campo, esterno a sé, si trova a coltivare il suo “campo interiore”, la sua psychè.

Cultura come bisogno intrinseco e naturale dell’essere umano.
Per darne una prima quanto immediata e sintetica definizione attuale, diremmo che è cultura tutto ciò che l’uomo è riuscito a costruire, creare e inventare trasformando i mezzi messigli a disposizione dalla natura, modificando pertanto (e, purtroppo, non sempre in meglio) lo stato originario della stessa: l’ambiente terrestre, all’inizio avverso e sconosciuto, diviene la dimora, la casa della società umana, che aggregandosi, costituisce una comunità. Ogni membro contribuisce col suo lavoro al mantenimento, al progresso e allo sviluppo di tale comunità, dove nel frattempo si sono già stabilite regole e leggi per la pacifica convivenza, permessi e divieti, convenzioni e credenze condivise. Ogni conoscenza è cultura; ogni forma di sapere, tutto ciò che appartiene al mondo dei significati e dei simboli; ogni stato mentale codificato in senso linguistico, semantico o simbolico, sia col verbum o logos sia con la rappresentazione grafica o pittorica (vedi stele di Rosetta, codice di Hammurabi, o grotte di Altamira e di Lescaux) sia con il canto, la musica e la poesia (Odissea, epopea di Gilgamesh): tutto ciò che concerne lo scibile e l’erudizione è cultura. Ogni forma di arte, grafica, plastica, letteraria, musicale. Insomma, a mio avviso, la cultura nasce con l’uomo, dal momento che è l’effetto necessario di una causa necessaria e originaria, cioè il bisogno, il desiderio, la pulsione a conoscere e creare che è insita nel nostro patrimonio genetico.

Filosofia: amore della conoscenza.
Nella struttura a spirale del DNA vi è qualcosa che ha da sempre spinto l’essere umano a provare curiosità e meraviglia di fronte alle manifestazioni e ai misteri della natura e della vita stessa e le domande che l’uomo si è da sempre posto, sin dall’aurora dell’ autocoscienza, diventano il germe di ogni forma di sapere e gnosis, conoscenza, che sia questa semplice nozione o informazione, conoscenza propriamente detta, cioè riflessione e comprensione, o addirittura sapienza o saggezza (arte del vivere e senso di scopo, direzione e pienezza della propria esistenza). In quest’ultimo caso essa non può esser disgiunta, ma bensì deve coincidere con una disciplina mentis e una praxis vitae, Ecco perché, etimologicamente parlando, la filosofia è nata con il divenire uomo dell’essere umano, con la sua umanizzazione, o, almeno, con l’ homo sapiens (homo cogitans) che diviene ciò che in nuce è sempre stato, homo poeticus (da poeisis = creazione), cioè uomo creatore e artista, anche artista nel modo di porsi di fronte all’universo e di fronte a se stesso. Perciò, artista nel porsi certe domande. Che avrebbero portato a mutamenti, a volte drastici, di prospettiva. Dal verbo philèo = amore, interesse, per la sophìa = conoscenza, sapienza, saggezza; la passione ardente e incontenibile, amore, appunto, per conoscere e capire, ha creato la tensione verso la ricerca e l’espressione, perché è dall’amore che nasce ogni cosa, uomo compreso. E l’amore sente il bisogno di essere comunicato, manifestato, espresso poiché è amore per la vita, essendo tale incoercibile forza parte costitutiva e scaturigine della vita stessa.
Proprio perché l’amore per la conoscenza si trova ab origine nei tratti caratteriali dell’essere umano essa è alla radice di ogni scienza e cultura e di ogni sapere umano, “elaborativo” o “produttivo”. Non è un caso che per secoli i filosofi, nella nostra civiltà occidentale, siano stati anche grandi matematici e creatori, come Talete, Pitagora (fu proprio lui a coniare il termine “filosofia”, secondo la tradizione, definendosi filosofo a chi aveva chiesto quale fosse la sua professione), Cartesio, Leibniz; e scienziati (Pascal, Newton, Galileo), per non dire perfino geni totali, dall’arte alla scienza e alla tecnica applicate (Leonardo Da Vinci).
Solo nell’interpretazione posteriore della tradizione greca di Platone e soprattutto di Aristotele il termine assume una connotazione più ristretta, e il “desiderio di sapere” che spinge al filosofare diventa modo di procedere razionale, sistematico e strutturato proprio del ragionamento logicoastratto – che poi è anche parte del ragionamento scientifico in senso lato e matematico in senso più ristretto: si segue un metodo (cioè un percorso) argomentativo, dimostrando con una serie di passi o passaggi logicamente validi, leciti e coerenti la verità di una affermazione, che sia un teorema geometrico o la spiegazione di un fenomeno fisico o chimico o la descrizione di un determinato comportamento o di uno stato d’animo o emozione. L’excursus metodologico assume i tratti distintivi del pensiero filosofico (matematico, scientifico) nella sequenza:

1) Osservazione (attraverso l’esperienza sensibile), presa di coscienza e riflessione
2) Prima ipotesi di descrizione e spiegazione
3) Creazione di un modello (rappresentazione mentale che diventa esemplificativa e operativa)
4) Messa alla prova del modello
5) Conferma o rigetto dell’ipotesi esplicativa
6) Argomentazione descrittiva -esplicativa dell’evento oggetto di studio e nascita e formulazione di nuove domande.

Una tesi volutamente provocatoria.
In realtà la filosofia, come dicevo, è molto più di questo. E’ la mater generans di tutte le scienze, sia quelle “esatte” che quelle “umane”. Col suo anelito divino al sacro e all’ infinito, con la sua spinta entusiastica alla creazione è, allo stesso tempo, figlia e sorella di ogni arte, mito e poesia.
Comunemente gli esperti e i critici hanno invertito i termini, ritenendo arte, mito e poesia anteriori allo stesso amore per il sapere e considerando la parola filosofia non più nel significato originario, pitagorico , ma in quello restrittivo dato al modo di procedere rigoroso e razionale, deduttivo, logico; così facendo, purtroppo, si sono tralasciati gli aspetti emozionali e intuitivi dell’intelligenza e della creatività, qualità e strumenti di cui i filosofi si sono sempre serviti e che hanno reso le grandi menti della filosofia prima citati dei geni assolutamente originali e completi (sia pur con i loro difetti e le loro umane stranezze), da prendere come modelli educativi e maestri di vita. Solo nel Rinascimento vi sarà un ritorno all’ “uomo totale”, quello rappresentato dall’ “homo vitruviano” di Leonardo.
Mi vengono in mente due riflessioni fatte la prima dal grande psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung: “Non capiamo il mondo solo con l’intelligenza: lo conosciamo, nella stessa misura, col sentimento. Quindi il giudizio dell’intelligenza è, nel migliore dei casi, soltanto metà della verità”.
L’altra, dello scrittore italiano Gaetano Cappelli: “Il destino dell’uomo è nella sua personalità: come tutti i filosofi, da Omero a Walt Disney, hanno decretato”.
Non riconoscendone la vera natura, si ridurrebbero di molto l’immensa portata e il valore intrinseco della filosofia e la sua strabiliante importanza storica nella genesi e nell’evoluzione del pensiero e delle idee dell’umanità.

Tradizionalmente si tende a collocare la nascita della filosofia occidentale nelle colonie greche dell’Asia Minore intorno al VII secolo A.C. Le condizioni storico-geografiche di quelle terre avevano permesso il fiorire di civiltà aperte al mondo antico sia per via marittima, principalmente, che terrestre. All’apertura delle vie di comunicazione per i viaggi si associò presto una apertura mentale verso idee e saperi diversi dai propri, lontani ed esotici, che i viaggi avevano trasportato assieme alle mercanzie: il “commercio”e lo scambio di tale materiale culturale avevano notevolmente ampliato le prospettive di pensiero e la visione della vita, non più soggetta a schemi precostituiti o ai dogmi imposti dal regime oligarchico della madrepatria, ebbe modo di aprirsi in ogni direzione. Solo così si potè costruire, lentamente ed inesorabilmente nel tempo, una nuova forma mentis pronta ad accogliere antiche e remote conoscenze, amalgamarle e integrarle con le proprie e soprattutto, originarne di nuove e creative. Tali nuove idee e conoscenze avevano, inoltre, la peculiarità di essere fondate essenzialmente sul senso critico e sulla ragione, di cui la logica e i suoi processi divenivano lo strumento cardine. Non si davano più spiegazioni di tipo mitologico o religioso, da accettare e metabolizzare passivamente, mortificando così l’indagine conoscitiva. Si cominciarono piuttosto a ricercare le cause dei fenomeni naturali nella natura stessa (physis), pur riconoscendone la potenza creatrice e distruttrice . E’ così che a Mileto, Talete fonda la prima scuola di filosofia, scuola nella quale, mediante un processo di razionalizzazione e formalizzazione aritmo-geometrica del sapere, la matematica divenne il linguaggio e lo strumento fondamentale.
Ciò fece della scuola ionica di Talete una delle più importanti tra le scuole matematiche greche dell’antichità, essendo la prima di una serie di cui faranno parte quella di Pitagora a Crotone, punta di diamante di tutte le scuole matematiche dell’occidente antico, l’Accademia di Platone , in cui si studiò la geometria dei solidi, e la scuola aristotelica, nella quale fiorì la logica deduttiva.

Talete
Sulla figura del più grande tra i Sette Savi dell’antica Grecia sappiamo poco e non abbiamo documenti scritti del suo pensiero e delle sue opere. Talete nacque da genitori fenici nella città di Mileto, in Asia Minore, nel VII sec. A.C. A quel tempo Mileto era una città di cruciale importanza, ricca, viva e attiva sotto ogni aspetto: commerciale, culturale, sociale e politica. Il commercio marittimo era particolarmente sviluppato e i traffici continui erano sostenuti dalle quotidiane navigazioni verso i lidi più disparati e remoti. Il giovane Talete, dotato di intelligenza e intuito sicuramente fuori dal comune e spinto dalla voglia di conoscere il mondo e acquisire le nozioni e le conoscenze già possedute e applicate da Egizi, Babilonesi e Caldei, nel corso dei suoi numerosi viaggi venne a contatto con tali civiltà e ne assorbì prontamente e avidamente i saperi e la cultura.
Dall’ Egitto introdusse lo studio sistematico della geometria in Grecia, facendo poi egli stesso parecchie scoperte e insegnando ai suoi discepoli della scuola ionica di Mileto (Anassimandro e Anassimene) a ai successori matematici, i principi che stavano alla base di molte altre scoperte.
Studiò dettagliatamente i fondamenti e i capisaldi di geometria, aritmetica, architettura, astronomia, ingegneria disponibili già da secoli - o addirittura da millenni - tra i Babilonesi e gli altri popoli della Mesopotamia, traendone il meglio ed elaborandone gli sviluppi. Apprese gli algoritmi di calcolo applicati nella costruzione delle piramidi egizie, le tecniche di navigazione impiegate dai provetti navigatori medio-orientali e basata sulla posizione degli astri nella volta celeste, scoprì l’andamento regolarmente ciclico delle stagioni e i suoi effetti sulla coltivazione e sul raccolto.
Aveva già escogitato un sistema dimostrativo che poi Pitagora avrebbe perfezionato e di cui si sarebbe servito: partendo da una premessa generale vera si sarebbe giunti a una conclusione generale altrettanto vera, necessaria e dimostrabile. Arrivò in tal modo a enunciare i famosi cinque teoremi che gli vengono attribuiti:

1. Un angolo inscritto in un semicerchio è un angolo retto. Di conseguenza, ogni triangolo inscritto in un semicerchio è un triangolo rettangolo.
2. Un cerchio viene bisecato dal suo diametro.
3. Gli angoli alla base di un triangolo isoscele sono uguali.
4. Le coppie di angoli al vertice formati da due rette che si intersecano sono uguali.
5. Se due triangoli sono tali che due angoli e un lato di uno di essi siano uguali rispettivamente a due angoli e a un lato dell’altro, i triangoli sono congruenti.


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(19.7.11) INTERVENTO DI ANGELO CANNATA' NEL DIBATTITO SUL LIBRO DI GIORGIO BOCCA - L’articolo che segue appare anche su "Il Quotidiano della Calabria" del 18.07.2011. Contiene l’intervento di Angelo Cannatà, biografo di Eugenio Scalfari, nel dibattito in corso su quel giornale intorno al libro di Giorgio Bocca, Aspra Calabria, pubblicato dall’editore calabrese Rubbettino e prefato proprio da Scalfari. Cannatà dopo aver pubblicato Eugenio Scalfari e il suo tempo (Mimesis 2010) sta curando l’edizione del volume dedicato a Scalfari nei Meridiani Mondadori.

Niente vittimismi, è solo la realtà
di Angelo Cannatà

La casa editrice Rubbettino ha pubblicato Aspra Calabria, di Giorgio Bocca, con prefazione di Eugenio Scalfari. E’ un ottimo testo, intrigante dal punto di vista stilistico e letterario. Non esistono libri morali o immorali - diceva Oscar Wilde -. I libri sono scritti bene o sono scritti male. Lode alla Rubbettino, dunque, per la sua scelta editoriale. Quanto al dibattito suscitato dal libro devo ammetterlo è interessante e pieno di pathos (e propone molteplici punti di vista), ma sfugge, a mio avviso, il dato essenziale: si rimprovera Bocca di descrivere senza risalire alle cause del degrado della Calabria (la storia, il dato sociologico, l’unità d’Italia, la questione meridionale). Anche Scalfari sarebbe responsabile di una scarsa conoscenza della cause storiche e sociologiche che affliggono il Sud. Non è così. Mi dispiace dirlo, ma è troppo superficiale il giudizio di qualche testo che si presenta come profondo.
Si ignora, per fare un esempio, che il fondatore di Repubblica, già nel secondo dopoguerra, ha pubblicato sulla Nuova Antologia un saggio sulla Destra storica e poi, dire a chi ha dialogato più volte con Ralf Dahrendorf, di trascurare la sociologia mi sembra davvero troppo. La verità è un’altra: non si vuol comprendere che Scalfari ama Bocca proprio perchè sa descrivere: Poche parole, l’incipit, e da lettore sei catturato da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo e ti sembra di leggere un romanzo con uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, tutto fantasia, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece... Invece stai leggendo il reportage di un giornalista che si è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro dove questa guerra di mafia non finisce mai.
Scalfari paragona Bocca all’autore di Gomorra. Ieri leggevate Bocca - dice - oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndrangheta e camorra sono sempre lì da un secolo e mezzo. Solo che oggi, da Platì e dagli altri borghi-rifugio, gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kossovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. E’ lo stile di Bocca che cattura Scalfari.
Ecco il punto: sono intellettuali che danno per acquisito il dato storico e d-e-s-c-r-i-v-o-n-o quello che vedono. Forse per questo sono molto amati. Niente storicismi, meridionalismi, vittimismi. Descrivono. E raccontano dure verità: lupi feroci o iene o faine i capi clan? Nell'aspra Calabria raccontata da Bocca queste tipologie zoologiche ci sono tutte, ma qualcosa è cambiato: il commercio della droga e il riciclaggio dei profitti ha trasformato i lupi in iene o serpenti o volpi, frequentano i partiti di governo e le banche, hanno amici potenti a Zurigo, alle Isole Vergini e nel Liechtenstein; i figli li mandano all'Università. La zoologia è cambiata ma i cuori sono sempre di tenebra. E’ la mafia imprenditrice che si lega alla politica. Mafia e politica.
Dai mali della Calabria ai mali d’Italia. Sembrano problemi diversi, ma tutto si tiene: vent’anni fa stava per arrivare un’altra tempesta - ricorda il fondatore di Repubblica - un altro Tsunami sulla democrazia di questo paese. Arrivò appena due anni dopo quella inchiesta di Bocca sulla Calabria dei primi Novanta, sembrò un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell’Utri, Previti, il partito dell’amore, il contratto con gli italiani, le escort. Ma i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca. “Money money money”, un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria “meno male che Silvio c’è”. Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà, che le cose cambieranno. Che altro potremmo fare se non coltivare questa speranza?
Sono stato con Scalfari tre giorni a Lecce, per presentare il suo ultimo libro. Abbiamo parlato di tante cose (è un grande affabulatore), anche della prefazione al testo di Bocca. “Pensi davvero - gli chiedo - che non ci resti altro da fare che coltivare la speranza?”. Mi guarda, se la ride sotto la barba bianca, “Ho capito - dice - a cosa stai pensando. La speranza deve essere accompagnata dall’azione. I calabresi devono trovare l’orgoglio e la forza per un riscatto civile che passi attraverso l’impegno e un’acquisizione di responsabilità.
Ma adesso andiamo, tra poche ore abbiamo il volo per Fiumicino”. Impegno e responsabilità, dice Scalfari. E’ un richiamo per tutti - nessuno escluso - ad uscire dall’apatia che rende complici dell’immenso degrado del Sud. Rubbettino e Cappelli, pubblicando questo libro - amaro, inquietante, forte, ma vero - hanno dato il loro decisivo contributo. I calabresi non perdano l’occasione per riflettere e liberarsi dal vittimismo, per cominciare ad agire. Qualcosa si comincia ad intravedere: la società civile è in fermento. La protesta e l’insofferenza aumentano. Bisogna continuare. Con Sartre: “L’uomo è ciò che fa, a partire dalle condizioni date”. Bocca e Scalfari ci hanno descritto “le condizioni date”. Prendersela con i giornalisti che descrivono e denunciano è peggio di un delitto. E’ un errore.

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(24.7.11) SCIENZA E FEDE (Pasquale Cannatà) - Informiamo i lettori che riguardo il recente libro di Pasquale Cannatà, reperibile a Galatro presso il negozio di Stefania Distilo, sarà pubblicata a breve su questo giornale una recensione.

Circa due settimane fa ho presentato il mio libro nella sala riunioni della mia parrocchia di Cristo Re, e ne ho vendute parecchie copie.
L'altro ieri ho ricevuto una mail da un lettore che, accogliendo il mio invito di scrivermi all'indirizzo riportato in fondo all'indice degli argomenti, mi ha chiesto chiarimenti riguardo all'argomento delle onde e delle particelle trattato nel primo capitolo.
Gli ho risposto volentieri, e volendo chiarire meglio anche a me stesso il mio pensiero, l'ho sviluppato e l'ho spedito: non avendo però la mail degli altri acquirenti, vorrei che almeno i lettori che hanno comprato il libro presso Stefania, a Galatro, possano leggere tale spiegazione sul sito, e per questo allego il file che riporta tutto l'argomento a riguardo.
Chi vuole può scrivermi o parlarmene direttamente la prossima settimana, quando arriverò per quindici giorni di vacanze.

Visualizza la
spiegazione (PDF) 36,3 KB

Visualizza un articolo con argomento correlato apparso sul nostro giornale (F. Zoccali, 20.11.2001)

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(28.7.11) NUOVI PREMI PER IL POETA ROCCO TASSONE - Nuovi importanti riconoscimenti per l'ormai noto poeta gioiese Rocco Giuseppe Tassone che si è affermato di recente in diversi importanti concorsi letterari.
Lo scrittore, grazie alla poesia I vecchi si è affermato al concorso letterario "Codex Purpureus" svoltosi a Sarezzano, in provincia di Alessandria.
La silloge inedita dal titolo A mio padre ha invece fruttato al prof. Tassone un altro premio al concorso "I Dioscuri" indetto dall'Associazione Rotary Club di Barcellona Pozzo di Gotto.
Con la lirica Mai più il risveglio Tassone si è infine affermato nel concorso poetico "Versi in volo 2011".
I migliori complimenti al professore che continua a tenere alto il vessillo della letteratura nella Piana.

Nella foto: il prof. Rocco Tassone.


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(6.8.11) IL CULTO DELLA MADONNA DEL CARMINE NEL NUOVO LIBRO DI UMBERTO DI STILO (Michele Scozzarra) - “Dicevo che vi racconto la chiesa del Carmine. L’idea di farlo, è maturata circa un mese addietro, quando, dal nostro Parroco, ho saputo che quest’anno per iniziativa di un gruppo di devoti, sarebbe tornata la festa civile in onore di Maria Santissima del Monte Carmelo. E mi sono riproposto di scrivere un racconto che, pur nel rigoroso rispetto della storia, abbandonasse i classici canoni della storiografia per seguire la narrazione di fatti ed eventi con l’unico intento di portare a conoscenza dei fedeli locali, ma in forma semplice e chiara, le notizie più importanti riguardanti la nostra “chiesiola”.
Con queste parole il prof. Umberto Di Stilo presenta “ai suoi compaesani” la sua ultima opera “Il culto della Madonna del Carmine a Galatro”: un titolo che conduce direttamente al cuore del contenuto del volume, edito dallo stesso Autore, e che in poco più di cento pagine ricostruisce la storia della diffusione del culto per la Vergine del Carmelo “culto che a Galatro molto probabilmente, era stato portato dagli ultimi monaci bizantini e che, successivamente, si era materializzato mediante la costruzione della chiesa per una personale devozione del sacerdote don Antonio Galati… poi, così come tutte le altre chiese del paese, anche quella del Carmine è andata completamente distrutta dal terremoto del 05 febbraio 1783. E così come la parrocchiale e la “filiale” (poi divenuta seconda parrocchia) anche la chiesa dedicata alla Madonna dello scapolare, finito lo sciame sismico e pensando al futuro, rinacque a nuova vita; fu ricostruita. Ma in un altro sito e per desiderio di un sacerdote-devoto: Domenico Manduci”.
Quest’ultima fatica letteraria del prof. Umberto Di Stilo si presenta come un nuovo attestato del suo costante interesse alla storia, non solo religiosa, della nostra Galatro: con questo libro aggiunge un altro anello alla catena di studi e ricerche che, negli anni passati, lo ha visto impegnato alla ri-scoperta e valorizzazione di quel grande patrimonio artistico, religioso e culturale presente a Galatro; ci aiuta ulteriormente a conoscere meglio le radici della gloriosa tradizione legata alla devozione verso la Madonna del Carmine che, nei secoli, è stata capace di realizzare e tramandare opere di civiltà, fede religiosa, arte e bellezza. Addentrarsi nelle pagine del libro significa intraprendere un viaggio nel nostro passato per conoscere una ricca e profonda pagina di fede e di devozione mariana, una storia che vede la comunità di Galatro protagonista di eventi significativi; infatti, tra le righe, emerge non solo una forte devozione verso la Vergine del Carmelo, ma anche la grande passione di tante persone per costruire la chiesa, anzi combattere per ottenerla e portarla a termine, con il desiderio di tramandare ai posteri una devozione importante che non poteva andare perduta.
Sono rimasto particolarmente colpito in alcuni passaggi significativi del libro (di cui penso di non essere il solo a non avere mai saputo niente), dove vengono esposti con precisione e minuziosità l’origine della Chiesa e della Confraternita della Madonna del Carmine, i vari spostamenti della chiesa e le difficoltà a tenerla aperta al culto dei fedeli: “A Galatro una Chiesa dedicata alla Madonna del Carmine esisteva già nel XVI secolo… la chiesa più bella e più frequentata, sulla sponda sinistra del Fermano fu edificata la Chiesa della Madonna del Carmine. Volendo localizzare quella originaria chiesa bisogna dire che era poco distante dal vecchio mulino che, pur essendo passato nel corso dei secoli da un proprietario all’altro, proprio per la sua vicinanza alla chiesa omonima, ancora oggi è conosciuto come “il mulino del Carmine” … erano trascorsi 17 anni dal grande flagello. I galatresi facendo ricorso a tutte le loro più riposte energie e, soprattutto, alle loro scarse economie, faticosamente ma con l’orgoglio di chi fa tutto da sé, hanno fatto rinascere il paese… Il sacerdote don Domenico Manduci che negli anni difficili della ricostruzione aveva animato la chiesa-baracca del Carmine, che aveva vinto le ostilità del parroco Garuffi e che era stato anche apprezzato economo della chiesa filiale di San Nicola (nel 1794) decise di lasciare qualcosa di duraturo non solo ai fedeli del quartiere la Madonna ed ai compaesani del rione nel quale anche lui era andato ad abitare e che per la presenza della chiesa prese il suo nome, ma a tutti i galatresi. Decise di finanziare, come suo ex voto ma anche come sua ultima opera di carità, la costruzione di una chiesa che inizialmente volle fosse dedicata alla SS. Trinità e nome di Gesù e che in seguito, già nel corso dei lavori, è stato deciso di dedicarla alla Madonna del Carmine. Così, il 20 settembre del 1800, quando le sue condizioni di salute erano diventate già abbastanza precarie, don Domenico Manduci ha convocato nella sua casa del rione Madonna il notaio ed ha fatto la seguente disposizione testamentaria: … “il danaro applicarlo alla fabbrica di una chiesa sotto il titolo della SS. Trinità e nome di Gesù, e propriamente nel luogo dove si trovava la baracca nel luogo detto Sergio superiore…” … I lavori di costruzione si protassero per cinque anni e nel 1806 la chiesa fu consacrata ed aperta al culto. … Quando la nuova chiesa fu consacrata ed aperta al culto dei fedeli, pur nelle sue ridotte dimensioni, apparve a tutti come una piccola cattedrale. Tant’è vero che nel 1820, quando Giovanni Conia, nella sua veste di Vicario foraneo del Vicariato di Galatro e di parroco di Laureana, fu delegato dal Vescovo ad effettuare la visita pastorale, scrisse che “le chiese di Galatro sono spelonche… Questa è la sola rifinita di tutto punto: di pavimento, di soffitto, stucco, ed anche di pittura… E’ la più bella di tutte e la pietà dei fedeli la mantiene con tutto decoro”.
Il prof. Di Stilo, con la sua meticolosa ricostruzione della storia passata e recente della Chiesa del Carmine, permette ai galatresi di rileggere il vissuto della nostra comunità, di coglierne elementi di continuità così come elementi di “rottura”: dalla sua ricerca, insomma, emerge una bella testimonianza, anche di situazioni di particolare “conflittualità” tra fedeli e clero, ma legate da un unico filo conduttore che lega i fatti alle persone, facendo riaffiorare alla memoria tante piccole cronache e volti cari a tutto il nostro paese.
E se ci sono degli interrogativi sull’origine della Statua della Madonna, in quanto non si dispone di elementi per stabilire, con certezza, la bottega dalla quale nei primi anni del XIX secolo è uscita la statua e neppure chi ne sia stato il suo autore, non si può non costatare come “la statua, insomma, è tutta un messaggio di amore e di bontà e, per le sue peculiarità artistiche, è sicuramente una delle scultura sacre più espressive di tutta la dotazione statuaria galatrese perché, nel muto linguaggio dell’arte, riesce a comunicare una profonda interiore bellezza e a trasmettere dolci e teneri sentimenti materni”.
Dalla lettura del libro scopriamo che “la Chiesa del Carmine recentemente è stata dichiarata “bene di interesse storico e artistico” e, come tale, “sottoposto a tutte le disposizioni di tutela”. Così come mi ha fatto piacere leggere (e si può ben capire il perché!) che “nel 1937, l’arciprete Marazzita, che già da tempo aveva notato che le condizioni della chiesa lasciavano molto a desiderare, grazie al contributo dei fedeli ha potuto provvedere a rifare l’interno… e per tutti i lavori si affidò all’estro artistico di un giovane muratore locale: mastro Peppino Scozzarra, del quale in paese si diceva un gran bene. E il giovane artigiano non deluse le aspettative, anzi, confermò le voci di quanti assicuravano che più che artigiano Scozzarra era un artista e che come muratore aveva superato anche il padre… A testimoniare la raffinata creatività artistica di mastro Peppino Scozzarra, resta la balaustra. Una piccola opera d’arte. Soprattutto se si considera che è stata realizzata tutta, pezzo dopo pezzo, nella stessa chiesa e senza mai poter ricorrere all’aiuto di macchine”.
C’è anche da dire che una “curiosità”, messa in luce dal prof. Di Stilo, mi ha fatto riflettere parecchio, anzi “una curiosità che sottintende una domanda. Si, una domanda: dov’è andato a finire il lampadario a venti luci che era stato regalato alla chiesa e che si è subito volatilizzato? Ebbene, si. Verso la fine degli anni ottanta, Mastro Nino Riniti, con la collaborazione dei giovani che lavoravano nella sua “forgia”, ha realizzato in ferro battuto un artistico lampadario a venti luci su disegno ideato da Mastro Carmelo Macrì. Per la realizzazione del manufatto Riniti e i suoi ragazzi hanno lavorato diversi giorni, dopo di che l’artistico lampadario (‘a limpia, come veniva definito nella parlata popolare ogni lampadario destinato e usato nella chiesa) come ex voto è stato consegnato al parroco Don Agostino Giovinazzo che non provvide a sistemarlo perché stavano per avere inizio alcuni lavori di manutenzione ordinaria della chiesa. A lavori ultimati del lampadario in ferro battuto, non si è trovata neppure l’ombra. Scomparso. Con grande disappunto dei fedeli che lo avevano già visto e che avevano ammirato la sua artistica lavorazione, ma, soprattutto, col legittimo disappunto di quanti avevano collaborato alla sua realizzazione”.
Il libro finisce con il racconto (La pentola non bolliva) di un fatto prodigioso accaduto al compianto Gregorio Sorrentino, quando questi era prigioniero in Africa, in tempo di guerra: l’avvenimento di un prodigio, di una immaginetta della Madonna del Carmine che teneva nella tasca dei pantaloni e che, da quel momento, non se ne è più distaccato e l’ha tenuta come una reliquia miracolosa.
Nel libro, in segno di gratitudine e ricordo, non sono tralasciati i nomi dei promotori “storici” dei festeggiamenti civili in onore della Madonna del Carmine: Carmelo Marazzita, Rocco Congiustì, Vincenzo Martino, Fortunato Mandaglio, Ferdinando Ocello, Ferdinando Ocello junor, Bruno Distilo, Nicola Scoleri, Carmelo Biagio Distilo, Michele Lauro, Gregorio Riniti, Luigino Scozzarra, Gregorio Sorrentino; per, poi, descrivere i vari momenti della devozione alla Vergine del Carmine, che passano attraverso la festa, la processione, il catafalco, i mercoledì, la novena, la giornata di preghiera e digiuno in chiesa, lo scapolare… già lo scapolare o, come lo chiamiamo noi, l’abitino… quell’abitino che da inizio al libro del prof. Umberto, dove racconta che “una signora, devota della Madonna del Monte Carmelo, avendo saputo dal figlio, mio amico, che da tempo ho pronto per la stampa un volume sulla storia della chiesa e della parrocchia della Madonna della Montagna, mi ha chiesto: E da’ Madonna e da’ chesia nostra no’ scriviti nenti? “Madonna e chesia nostra”: non è stato necessario specificare a quale Madonna e a quale chiesa facesse riferimento. C’era il possessivo “nostra” che era più eloquente di ogni altra precisazione. Almeno per me che, come la mia gentile interlocutrice, sono nato e cresciuto in una abitazione assai vicina alla chiesa del Carmine. Praticamente all’ombra di quel piccolo ma caratteristico e, almeno per noi galatresi del quartiere “La Madonna”, sicuramente unico campanile. La stessa signora credo sia l’ultima devota che ogni anno, per amici e conoscenti che glielo chiedono, confeziona lo scapolare, l’abitinu, come ancora oggi preferiamo definirlo comunemente. Già. Abitinu quasi sicuramente perché chi lo indossa con fede, acquisisce un abitus speciale; una corazza protettiva che preserva dal fuoco dell’inferno. Anche per questo nell’iconografia più comune ai piedi della Madonna del Carmine, tra alte lingue di fuoco, si notano tante anime pronte a prendere lo scapolare che la Madonna e il suo Divin Figliuolo tengono in mano. E’ lo scapolare che salva dal fuoco eterno, e quelle anime sono desiderose di essere salvate. L’abitinu, la Signora di cui parlo, lo ha confezionato anche a me e, lo ha impreziosito con il ricamo in seta bianca del monogramma che da sempre ci richiama Maria”.
E, su questo argomento, penso sia, da parte mia, necessario soffermarmi un attimo sulla “Signora” dell’abitino, che conosco molto bene e per questo posso ben testimoniare che la “Signora” ha avuto sempre un legame particolare, una predilezione particolare verso la Madonna del Carmine e la sua chiesetta: ricordo che da bambini, io e mio fratello avevamo sempre attaccato alla spallina della canottiera l’abitino della Madonna del Carmine, preparato con cura e devozione da parte della “Signora” proprio come un affidamento dei suoi figli alla Vergine del Carmelo, per vivere sotto il suo sguardo e la sua protezione. Oggi, a distanza di anni, nel rivedere qualcuno di quegli abitini sgualciti dal tempo, che ancora gelosamente conservo tra le mie cose più care, si riempie il cuore di meraviglia e stupore, con la tenerezza di tutta una attenzione verso una storia che non mi ha mai allontanato dalla “nostra” Madonna.
E, per finire, nel ringraziare Umberto Di Stilo per averci fatto rivivere, con rinnovato spirito ecclesiale, la storia e le modalità espresse dai galatresi nella devozione alla Madonna del Carmine, nel far mio il suo augurio espresso nella prefazione del libro “Spero, infine, che questo mio scritto, soprattutto nei giovani, possa suscitare interesse per la secolare tradizione religiosa e laica del nostro paese e che ravvivi in tutti d la devozione per la Vergine del Carmine”, non posso tralasciare di mettere in evidenza due cose.
La dedica del libro, che non poteva una intenzione più vera e significativa, dei veri affetti che non si cancellano per tutta la vita: “Alla mia cara Carmela, familiarmente Memè, che da quasi mezzo secolo è il giardino fiorito della mia vita e alla memoria di mio fratello e di mio zio Mastro Carmelo Distilo che oltre al nome avevano in comune la nascita nel quartiere della Madonna e la devozione alla Vergine del Carmine”.
Il prof. Umberto inizia il libro con un pensiero per delle persone a lui care che, anche nel nome, ricordano la Vergine del Carmine, e termina con un battito del suo cuore verso la Madonna, ove è racchiuso il desiderio di presentare a Lei, alla Vergine che tutto può e alla quale nulla è negato, una invocazione “personale” alla Beata, che da millenni è acclamata come Regina e viene invocata come soccorso alle nostre necessità e miserie:

Benedetta e Immacolata Vergine Maria,
bellezza e gloria del Carmelo,
Tu che tratti con bontà del tutto speciale
Coloro che indossano il tuo amatissimo abitino,
volgi anche su di me uno sguardo propizio
e coprimi col manto della tua materna protezione.

Col tuo potere fortifica la mia debolezza;
con la tua saggezza
illumina le tenebre del mio spirito,
aumenta in me la fede, la speranza e la carità.
Orna la mia anima con le virtù
Che mi rendano gradito al Tuo Divino Figlio e a Te.

Assistimi durante la vita,
consolami nella morte
e conducimi con la Tua amabile presenza
alla Santissima Trinità,
come tuo figlio
tutto dedito a lodarTi
e benedirTi eternamente in Paradiso.

Caro Professore, grazie per quanto ci avete raccontato e testimoniato sulla “Madonna e ‘a chesia nostra”, il mio augurio per la vostra fatica e la vostra preghiera è che “‘a monaceja nostra” possa rendervene merito ed esaudire ciò che il vostro cuore tremante ha posto ai suoi piedi!

Nelle foto, dall'alto in basso: la copertina del libro di Umberto Di Stilo; l'interno della chiesa del Carmine a Galatro; l'apparato realizzato in occasione di una festa; la facciata eserna della chiesa; la statua della Madonna.


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(8.8.11) ON SCREEN COMMUNICATION E MERCEDES-BENZ - ROMA - Annalisa Masi, dell'ufficio stampa di OnScreen Communication srl, società che ha in prima fila il galatrese Saverio Ceravolo, suo Creative Technology Director, ci segnala, dopo la collaborazione col cantante Luciano Ligabue, un altro importante progetto, sviluppato stavolta fra OnScreen e Mercedes-Benz.
La casa automobilistica ripercorre i 125 anni del suo storico marchio con la nuova brochure Accessori Originali e Collection e la Realtà Aumentata. Alcune pagine del depliant Summer 2011, contrassegnate dal logo AR, sono state implementate con quest’innovativa tecnologia, aprendo all’utente scenari virtuali che si mescolano a quelli reali.
Con l’applicazione, destinata al web, la copertina lascia spazio all’automobile, contestualizzata in tre epoche diverse: come su una quinta teatrale si posizionano gli elementi simbolo dell’estate degli Anni Venti-Trenta, Sessanta e della contemporaneità. Sulla stessa scia, la pagina successiva mostra l’evoluzione degli oggetti che hanno portato al Media Navigation Center, al Box da tetto e ai Seggiolini firmati Mercedes-Benz. Un semplice tocco sull’area dedicata è sufficiente per scegliere quale storia vivere.
Lo sfondo è quello fresco ed estivo di una spiaggia, toccata dall’eleganza di Mercedes-Benz. Una combinazione di elementi grafici su una scenografia tridimensionale, supportati da una colonna sonora vivace, le sue caratteristiche essenziali. Per vivere l’esperienza: www.mercedes-benz.it/accessori-summer
Il progetto è stato curato da OnScreen Communication, main partner italiano del network mondiale Total Immersion, con tl’agenzia creativa The Unknown Creation. Si tratta della seconda iniziativa in Realtà Aumentata per il comparto After Sales di Mercedes-Benz, che conferma così una particolare propensione ai nuovi linguaggi del marketing e della comunicazione.
Visualizza in basso il video dell’applicazione:



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(11.8.11) LE FOTO DEGLI SCONTRI DI LONDRA (Roberto Raschellà) - LONDRA Roberto Raschellà, l'ormai noto fotografo di origini galatresi che vive a Londra, ci manda una serie di sorprendenti e quanto mai realistiche foto da lui realizzate che documentano, in tutta la loro crudezza, i recenti scontri, ancora in atto, che si stanno verificando per le strade della capitale del Regno Unito.
Per visualizzarle basta cliccare sul seguente link:

www.flickr.com/photos/ilvicolopaoletto/sets/72157627271969647

Più in basso vi proponiamo invece un articolo sull'argomento tratto dal blog di Roberto Raschellà, visualizzabile al seguente indirizzo: www.ilvicolopaoletto.com/blog

WE ARE OPEN

Written by Administrator
Wednesday, 10 August 2011 00:23

Mezzogiorno di un colorato martedi caldo e soleggiato, ancora testimone dello scempio compiuto solo poche ore prima, nella notte silenziosa.
Come zombie da un brutto film horror, giovani incappucciati si sono impossessati di quello che normalmente ci si guadagna lavorando. Non e' un discorso di razza, eta', politica o sesso, ci saranno stati un po' tutti li dentro. Giovani accomunati dalla voglia di una "nuova esperienza", probabilmente una bravata nella loro concezione di vita, che non tiene nemmeno conto delle semplici regole del famoso buon senso, ormai dimenticato. E nemmeno delle conseguenze: un altro equilibrio e' stato rotto, con una nuova minaccia alla tranquillita', gia' precaria.
Dopo quello che e' successo in Norvegia, dopo quello che abbiamo osservato in questi giorni, sembra tutto cosi ancora piu' volubile: una cosa, comunque, improvvisa, ma non diciamoci inaspettata. Sinceramente, avrei capito di piu' se avessero rubato cibo invece che computers, ma siamo nella societa' dell'immagine e del successo, veloce e non sudato.
Non so come il governo inglese trattera' questi crimini: io li manderei a zappare e nelle stalle del rigoglioso country side. Mi auguro solo che la Carlucci non commenti sulla falsa riga della morte di Amy Winehouse, che "con la sinistra, il caso non sarebbe isolato". O peggio ancora, la Santanche', probabilmente ancora impressionata all’idea che Paola Concia possa essersi unita davanti alla legge con la sua compagna: «Io mi impressiono, voglio impressionarmi, accidenti! Non voglio abituarmi a certe robe…». Leggo che dell'Italia c'e' sempre da preoccuparsi.
Mi piacciono gli inglesi: oggi erano per strada in molti, chi a fare spesa, chi a riparare i danni, chi a tenere aperta l'attivita'. Anche questo un modo, silenzioso forse, per testimoniare che la vita va avanti.
Non mi piacciono le persone che parlano troppo, soprattutto se di moralita' dubbia o non competenti. Vorrei chiedere, comunque, a queste persone come potrei spiegare a un mio ipotetico figlio quello che sta succedendo in questi giorni, sarebbe gia' una conquista. Forse dicendogli che e' colpa dei Comunisti?
Anche il vicolo Paoletto e' aperto e con le pulizie estive fatte, pronto per ospitare il prossimo evento.

Ringrazio Umberto per il contributo in inglese, tratto dal suo personale blog, che ho apprezzato molto.

In democratic countries the use of deadly force has to be necessary and proportionate and used as last resort by police forces. The difference between a riot like the ones we are seeing in London and a terrorist attack is that in the second instance the state of emergency would allow for a temporary suspension of Human Rights Law and the use of deadly force against a "war enemy".
After shops and buildings were burned down in some areas of London, many blamed the police for being helpless in stopping the violence and the looting. In my view, they wisely chose not to act instinctively as innocent people could have paid the price.
The only way to prevent the events to happen would have been to arrest people pre-emptively or clash on rioters instantly as first signs of rebellion became evident. Yet, it is not possible to arrest someone before he commits a crime as there is a need for mens rea. Largely these people are criminals, but there are also 11-12 years old kids involved. Deprivation and exclusion lead to such reactions. In this country politics is not setting a good example. We need a new political class and a different idea of society, which is inclusive rather than exclusive. It is disturbing that young people express their dissent by stealing an Ipod or an XboX.
Yet, deep social issues like this need to be addressed and not dismissed as mere criminality. Every time I see a police men searching someone in Tottenham, Woolwich or Brixton I can notice there is a clear discriminatory policy of stop&searching aimed at minority groups. As long as baby gangs stabbed one another, they were hardly an issue for wealthy Londoners. Today, after everyone’s security has been under attack, we are realizing there is an invisible part of the society we never cared about.
I was myself in Woolwich and witnessed shocking attacks to harmless and outnumbered police forces. Though it would have been easy to anticipate riots there, in the first hours there were no more than twenty police men. Thus, despite condemning violence and deeming arrests to be necessary, I would start working on marginalised young people so as to avoid the same tragedy in ten years time.
Posted by Umberto Tramontano.

Last Updated on Wednesday, 10 August 2011 01:16

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(19.8.11) "ARTEINCENTRO" A MESSINA - L’Associazione Culturale Messinaweb.eu, indice la quinta Edizione della Manifestazione “Arteincentro 2011” quale concorso Internazionale finalizzato alla promozione e valorizzazione dell’Arte Contemporanea.
La partecipazione è aperta a tutti gli artisti - senza limiti di età, sesso, nazionalità o altra qualificazione - nelle sezioni riservate, rispettivamente, alla Pittura e alla Poesia.
La quota di iscrizione è di 20 € e la scadenza è fissata per il 15 Settembre 2011.

Visualizza il Bando completo della manifestazione (PDF) 101 KB

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(21.8.11) 'A CACCIA 'O TESORU (Biagio Cirillo) - Finalmente a Galatro per poche settimane di ferie, tra mare e qualche lavoretto di ordinaria manutenzione nella mia casetta, ho ricevuto l’invito a partecipare alla caccia al tesoro organizzata dal Comune.
Non vi nego che appena arrivato in piazza e dopo aver visto che i concorrenti erano tutti giovani, mi era venuta la voglia di cedere il mio posto a qualche concorrente giovane, poi, sapendo che in squadra con noi c’era anche Mariuccia, mi sono incoraggiato e ho partecipato.
Non nego nemmeno che mi sono divertito come tutti quanti e forse di più.
Dopo questa manifestazione di giochi mi è venuta voglia di fare un po di strofe per una nuova poesia. Avrei voluto mandarla alla Redazione una volta arrivato a Bolzano, ma non sono riuscito a resistere e così ho deciso di inviarla adesso.
La dedico a tutti i concorrenti, agli spettatori, agli organizzatori e ai dirigenti che dal palco hanno fatto sì che tutto filasse nel migliore dei modi e ci sono riusciti alla grande.
Dimenticavo di dire che abbiamo vinto la gara dell’anguria anche se, così come ha fatto il resto dei concorrenti, abbiamo barato un po' anche noi, altrimenti saremmo schiattati dal mal di pancia.
Saluto la Redazione, tutti i miei paesani e tutti i visitatori del sito e vi lascio alla lettura della poesia.

'A caccia ‘o tesoru

Tutti supa 'a chiazza
'e tri du pomeriggiu
mi cunvinciru puru
'u vaghiu pemmu arrìgghiu.

Si fòrmanu li squatri
e no nci su' cchiù posti,
i spettaturi in tanti
e stézzaru cumposti.

Cumincia 'u primu jocu
cu na gurna d’acqua
e ndi ngurnammu tutti,
poi tutti supa a chiazza.

A lu secundu jocu
nu zipàngulu i mangiari,
'u vinci a squatra nostra
nd’éppimu a chi fari.

Poi girammu 'u paisi
e 'u votammu suttasùpa,
parìa ca mi pigghiaru
cu nnu manicu di scupa

Cu' ghìa a Montebellu,
cu' ghia a Pecuredhu,
cu scappava avanti
e cu tornava arredu.

L’indizi chi ndi dézzaru
fudaru propriu tanti
e grandi fu l’afflussu
di li partecipanti

'A fini 'u tesoru
'u trovaru i cchiù bravi
e ghiu mi scialai tantu
ammenzu a sti cotràri.

Bravu lu Cumuni
e l’organizzatori
mu si mbentanu a Galatru
'a caccia di tesori.

Biagio Cirillo


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(22.8.11) IL LIBRO DI ROCCO COSENTINO PRESENTATO A TAURIANOVA - E' stato presentato a Taurianova, nel suggestivo scenario di Piazza Italia, con l'organizzazione del quotidiano on line Approdonews.it, il noir del magistrato Rocco Cosentino, recensito qualche tempo fa sul nostro sito.
All'incontro, che ha visto la partecipazione dell'autore, sono intervenuti il direttore di Approdonews Salvatore Lazzaro, il vicepresidente dell'Osservatorio dei minori avv. Antonio Napoli, il sindaco di Taurianova Domenico Romeo, l'editore Luigi Pellegrini e il titolare del nostro giornale Domenico Distilo, del quale riportiamo l'intervento-relazione Fenomenologia del funzionario incorrotto.

* * *

FENOMENOLOGIA DEL FUNZIONARIO INCORROTTO
Domenico Distilo

Nella recensione su Galatro Terme News, alla quale rimando i gentili partecipanti, ho focalizzato gli aspetti filosofici del noir di Rocco Cosentino, che ho colto perché ci sono e non certo perché abbia soggiaciuto ad una deformazione professionale; ma c’è dell’altro, parecchio altro, meritevole di attenzione. In particolare m’ha intrigato la figura di Francescotti, il funzionario integerrimo alle prese con la corruzione del politico con cui non può non fare i conti, il sindaco di Tirrenia, comune di cui lui, Francescotti, è responsabile dell’ufficio tecnico.
Francescotti, la cui integrità è a tutta prova, non vive inconsapevolmente in un altro mondo, nel senso che non è la classica persona tutta d’un pezzo, che è ed appare fuori del tempo ed anche dello spazio, insomma, quel che si dice un pesce fuor d’acqua. Egli sa di vivere in un mondo in cui non ci sono semplicemente episodi di corruzione e di ingiustizia, ma in cui la corruzione e l’ingiustizia sono un fatto ontologico, strutturale, a cui egli si sa a priori inadattabile. Questo suo sapersi inadattabile non lo induce tuttavia a rivedere il proprio modo d’essere, a tentare il minimo sforzo di “realismo”, al punto che le sue obiezioni all’avvocato che si è scelto e che lo invita a non prendere troppo alla lettera gli orari del tribunale, perché gli orari reali non corrispondono mai a quelli formali, scritti sugli avvisi di convocazione, appaiono sofismi quasi degni del signor Veneranda, che per chi non lo ricordasse è una figura creata negli anni Cinquanta dall’umorista Carlo Manzoni. Francescotti corre il rischio di apparire sofista, appunto un signor Veneranda, perché in un mondo rovesciato è l’unico diritto – attenti: non dritto - che non vuole mettersi per rovescio, l’unico, o, se non vogliamo essere pessimisti, uno dei pochi, che pur sapendo “come vanno le cose del mondo” tuttavia non vuole andare come (e dove) esse vanno, rischiando seriamente di frantumarsi nell’impatto con la realtà. Infatti finisce in tribunale, essendo stato ingiustamente privato delle mansioni di capo dell’ufficio tecnico che svolgeva e che gli spettavano per avere, non si sa come visto il contesto, vinto un concorso.

Il funzionario integerrimo creato da Rocco Cosentino, dicevo, non è la classica persona tutta d’un pezzo. Non è neppure un moralista dall’indignazione facile. Non ci sono episodi nei quali appaia indignato. Schifato invece sì, di uno schifo silente, strozzato, mimetizzato, diplomatizzato ma mai cedevole, mai arrendevole, mai disposto a scendere a compromessi, semmai a piegarsi senza spezzarsi, come il giunco nella piena, giusta la nota espressione proverbiale calabrese.
Anche la vicenda di Francescotti, come tante altre nel romanzo, è lasciata in sospeso. Cosentino racconta la sua andata in tribunale, l’incontro col vecchio compagno di scuola, la meraviglia che gli suscita il giudice Bernardi – giovane e sportivo invece che anziano ed attempato -, le ipotesi faticose sulle tre donne avvenenti – tra i 35 e i 40 - che all’improvviso compaiono e scompaiono, definite senza perifrasi “puttane” dal suo interlocutore. Tutto questo modo di porsi e di essere di Francescotti è all’insegna di un sentimento che è forse l’esatto contrario della familiarità e della confidenza: la meraviglia, lo stupore che gli suscitano i particolari e che non dovrebbero suscitargli dal momento che egli mostra di conoscere bene il quadro –la corruzione e il malaffare endemici, pervasivi. Chiediamoci: cos’è questo stupore che si manifesta come finta ingenuità di fronte ai particolari, al quotidiano “mondo della vita” che il lettore non può non intuire, non vedere come “il mondo” di una vita intrinsecamente corrotta?
Ebbene, questo stupore è secondo me più che altro finzione, affettazione, un meccanismo di difesa, un rifugio esistenziale. Altrimenti il funzionario incorruttibile non sarebbe più tale, si omologherebbe divenendo uno dei tanti, uno tra tanti.
E’ attraverso la meraviglia e lo stupore, benché finti, benché affettati, o proprio perché finti ed affettati, che Francescotti resta se stesso, riaffermando la sua identità di uno in contrapposizione al tutto, ai tutti che si lasciano corrompere, che fanno “come fan tutti”. Lui invece non fa come fan tutti, non è uno dei tanti, è Francescotti, la cui personalità morale si staglia, unica, in un mondo di immoralità, di coazione all’immoralità, facendolo sembrare l’unico autentico in un mondo dominato dall’inautenticità, l’unico che fa il suo dovere in un mondo in cui nessuno lo fa.

Ci sono altri due personaggi nel romanzo che un po’, anzi molto, assomigliano a Francescotti. Sono i due coniugi che vanno in una caserma dei carabinieri a denunciare l’abuso edilizio commesso dall’avvocato Merlin – una delle due vittime eccellenti - il sindaco sodale della prima vittima, l’avvocato Cardamone.
Si trovano davanti un maresciallo che non presta loro attenzione, che va per le spicce, che non esamina la questione sottopostagli nella sua specificità ma la inquadra ben tosto – del resto deve sbrigarsi perché lo aspettano ad una manifestazione ufficiale - in uno schema generale, utilizzando il burocratese che in tanti anni ha imparato a parlare e a scrivere.
I due coniugi denuncianti, che si aspettavano altro, reagiscono con una meraviglia, uno stupore faticosamente trattenuti. Meraviglia e stupore che nascono dallo sconcerto per un modo di fare che non è assolutamente all’altezza della fiducia che essi avevano riposto nella Benemerita. Qui c’è un interrogativo che si potrebbe focalizzare e che è, diciamo così, riproposto da vari episodi del romanzo: le istituzioni, anche le più accreditate, le più blasonate, meritano o non meritano la fiducia che gli onesti cittadini si sforzano di riporre in esse?
Va da sé che, essendosi proposto di scrivere un noir, Rocco Cosentino le risposte non poteva darle, anzi, esulava dai suoi compiti perfino cercarle. L’essenza, la caratteristica peculiare del noir è il crudo realismo, la descrizione il più accentuatamente realistica dei fatti, delle situazioni, degli ambienti e dei personaggi. Non ci può essere in questo genere letterario una finalità edificatoria, non possono essere impiegate frasi parenetiche, di esortazione al buon vivere e alla bella morale, il compito dello scrittore essendo la rappresentazione della realtà soprattutto nella sua crudezza, il racconto della favola brutta.
Ora, questa favola brutta racconta di due cittadine di provincia, Tirrenia e Solaria, che a una lettura asettica o forse sprovveduta sembrano la forma universale della provincia L’autore ha però detto in un’altra occasione, quando ha presentato il libro ai ragazzi del Liceo Classico di Cittanova, che si tratta sì di nomi e luoghi fantastici ma non poi tanto, che Tirrenia e Solaria non sono l’idea platonica della cittadina di provincia ma due cittadine del Sud. Dunque, de te fabula narratur ci dice Cosentino sia pure in modo ellittico, siamo noi del Sud i protagonisti ed è il Sud lo sfondo, lo scenario del romanzo. Questo anche se non si trova nessun riferimento espresso alla mafia o ad altre organizzazioni criminali e ogni vicenda appare piuttosto imputabile a una corruzione e ad una immoralità endemiche, pervasive - sul cui carattere dialettico ho già detto nella citata recensione e non voglio ripetermi - che potrebbero essere sì di ogni dove ma le cui descrizioni lasciano intuire il riferimento alla “specificità culturale” meridionale. Ad esempio: il sindaco Merlin va al bar col suo complice – mentre Francescotti e la segretaria del sindaco rimangono, non poi tanto pazientemente, in ufficio ad aspettare - e l’avvocato Cardamone che si trova nel bar si offre di pagare le consumazioni con gran profusione, da ambo le parti, di attestazioni e assicurazioni di stima, rispetto, amicizia.
Già, l’amicizia, declinata nella versione, nella specificità meridionale dell’ammiccamento – che come si sa è un sottinteso - mediante dialoghi che uno scrittore del Nord non avrebbe potuto usare perché per usarli è necessario non tanto vivere, quanto essere cresciuti al Sud, averne respirato a lungo l’aria, nella quale, lo sappiamo, si addensano grande trasporto, grande generosità e un altrettanto grande ipocrisia, un altrettanto grande inautenticità esistenziale.

E vengo a un ultimo punto: ho scritto nella citata recensione che Cosentino ha adottato la tecnica del distanziamento ironico dai fatti che racconta, distanziamento che presuppone l’ esserci o l’esserci stato dentro, la partecipazione personale alla vicenda. Ma Cosentino non è autobiografico soltanto quando racconta fatti – casualmente e solo casualmente somiglianti a quelli reali, diciamo sennò magari si arrabbia - ai quali avrebbe potuto partecipare come magistrato requirente. In Niente da cui pentirsi c’è tutta la restante biografia dell’autore: dello studente del liceo scientifico, dell’appassionato di sport che frequenta eventi sportivi ecc, per cui chi già lo conosce finisce per riconoscerlo nelle pagine del romanzo, scritto con una tecnica che non è una “mera tecnica”, indipendente dalla materia trattata, ma il vissuto dell’autore che prende forma di scrittura, di racconto che non è solo noir ma penetrazione psicologica e, talvolta, analisi sociologica che si fa valere soprattutto nella costruzione dei dialoghi, come nel caso, che non è l’unico,dei due carabinieri che spaccano le vetrine della gioielleria per rubare i gioielli che vi si trovavano.
Ora però basta! Poiché il parlare del libro non potrà mai compensare il gusto di leggerlo, sarà soltanto leggendolo che tutto questo – e altro, parecchio altro – potrete scoprirlo.

Nella foto in alto: la locandina dell'evento.

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(22.8.11) I VERSI DELL'ABATE MARTINO NEL LIBRO DI GIORGIO BOCCA - Nel libro di Giorgio Bocca dal titolo Aspra Calabria (che ha suscitato ultimamente tante polemiche), apparso già nel 1992 da Mondadori e ripubblicato di recente dall'editore Rubettino, nel quale è dipinta la situazione calabrese dei primi anni Novanta, compaiono i ben noti versi del nostro abate Antonio Martino, tratti dal Pater Noster dei liberali calabresi. Il piemontese Bocca parla a pagina 21 del:

rancore antico, già esploso nel brigantaggio dopo l'Unità: «Li sudditi su tutti immiseriti - vui jiti a caccia, fumate e durmiti - ministri, senatori e deputati fanno communa e sono intisi uniti - e vui padre Vittorio non guardate - vui jiti a caccia, fumati e durmiti». E leggendo questa vecchia ballata in una libreria di Locri vedevo le case di caccia di Sua Maestà il re Vittorio in Val Grisanche o a S. Giacomo di Entracque, i guardacaccia che spingevano camosci e stambecchi al punto fatale dello «spari maestà», le veglie scaldate dalle botticelle di Barolo e dalle vivandiere.


Non è certo la prima volta che versi di Martino sono citati in volumi di vario genere. Poco tempo fa abbiamo rilevato la loro presenza anche nel fortunato libro di Pino Aprile intitolato Terroni.
Anche un'importante opera in tre volumi su La poesia in dialetto, a cura di Franco Brevini (Mondadori, 1999), pure questa da noi già segnalata, parla dell'opera di Antonio Martino e riporta alcune sue poesie.

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(7.9.11) IMPEGNI CONCERTISTICI CALABRESI PER IL PIANISTA NICOLA SERGIO - Serie di concerti con date in Calabria per Nicola Sergio, ormai affermato pianista nel campo della musica jazz. Come potrete vedere nel riepilogo in basso ci sono esibizioni programmate in Francia, in Germania ed in Olanda.
Nella nostra regione il pianista galatrese si esibirà, nell'ormai consolidato duo col sassofonista Michael Rosen, a Cerisano (Cosenza) Venerdì 9 settembre nell'ambito del Festival delle Serre, mentre a Crotone il concerto è previsto per Sabato 10 Settembre.
Ecco comunque il calendario aggiornato degli impegni:

9 Set 2011Nicola Sergio/Michael Rosen duo
Festival delle Serre
Cerisano (Cs), Italia
10 Set 2011Nicola Sergio/Michael Rosen duoCrotone, Italia
18 Ott 2011Adrien Néel group
Batofar Paris
Parigi, Ile de Fr, Francia
27 Nov 2011Nicola Sergio Trio
Berlin Jazz Festival - Kunsfabrik Schlott
Berlino, Germania
28 Dic 2011Nicola Sergio Trio
Capocolonna
Capocolonna, Crotone, Italia
27 Gen 2012Nicola Sergio Trio
Music Inn Jazz Club
Roma, Italia
11 Feb 2012Adrien Néel group
Espace Henry Miller
Clichy, Ile de Fr, Francia
26 Mar 2012Nicola Sergio Trio
Murphy's Law Jazz Club
Den Haag, Amsterdam, Olanda



Nicola Sergio al piano

www.myspace.com/nicolasergio


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(10.9.11) MOSTRA PERSONALE SU MADONNA PER ROBERTO RASCHELLA' - M. the Londoner è una raccolta di foto di Madonna, scattate da Roberto Raschellà tra il 2005 e il 2010, che mostrano la star in alcuni momenti privati e durante le sue spettacolari performances.
La mostra fotografica era parte dell'evento "A Madonna odyssey", una serata di beneficenza in favore di Stonewall, arrivata al quinto anniversario, e si è tenuta al Punk, Soho a Londra il 14 agosto, due giorni prima del compleanno della celebre star.
Questo cabaret extravaganza ha offerto una selezione di famosi DJ della scena londinese e in programma l'esclusiva prima Londinese della versione uncut di Queen Of Pop MEGAMIX dell'artista Robin Skouteris, che ha già avuto oltre 180.000 contatti su You Tube. Un comodo divano ha raccolto le impressioni di chi ha voluto far parte del documentario girato, in parte, durante la serata.
Un'asta silenziosa, sempre a beneficio di Stonewall, ha visto in offerta una delle foto di Raschellà, tra le molte memorabilia.
E' stato organizzato un ricco stand dove acquistare il catalogo e il merchandising della serata. Il 'M' pre-party si è tenuto due ore prima dell'evento, sempre nel quartiere di Soho.

Ecco il video che incorpora le foto:



Per visualizzare inoltre le foto scattate da Roberto Raschellà sul set londinese di "W.E.", il nuovo film diretto da Madonna e presentato al Festival del cinema di Venezia in settembre, cliccare sul seguente link:

www.facebook.com/video/video.php?v=10150329110449254&saved


www.ilvicolopaoletto.com

Nell'immagine in alto: Madonna in un momento privato (foto di Roberto Raschellà).

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(11.9.11) LA FEDE, LA RAGIONE E... IL NULLA: UN LIBRO DI PASQUALE CANNATA' (Domenico Distilo) - Pasquale Cannatà, uno dei tantissimi della diaspora galatrese, i nostri lettori lo conoscono perché ormai da anni scrive di teologia sul nostro giornale, con piglio e lessico da addetto ai lavori anche se conserva, molto opportunamente, uno stile da dilettante che ne rende la lettura agevole anche a chi non ne mastica granché.
Per intenderci, Pasquale dà (secondo me volutamente) l’impressione di essere teologo per caso mentre non lo è affatto, coltivando la riflessione e lo studio sulle questioni al centro dei suoi interventi e del suo recente Conquistadores… del nulla (Edizioni d’autore, pp. 186, € 10,00) si può dire da una vita. Non a caso intesse la trattazione con un racconto che per chi ne conosce, anche solo superficialmente, la storia personale e familiare non può che essere autobiografico, non può che essere la sua stessa vicenda esistenziale che si dipana avendo al centro quella che teologi e uomini di chiesa chiamano “la dimensione verticale”, l’interesse (preponderante) per le cose trascendenti.
La fede, si sa, è “certezza delle cose che non si vedono” che, proprio perché non si vedono, non possono non suscitare il dubbio, interrogando incessantemente il credente e costringendolo, giocoforza, a man mano abbandonare il terreno della fede per quello della ragione, anche se questa, come nel caso di Pasquale, assolve manifestamente alla funzione di ancilla fidei. Quando il corpo a corpo tra le due si sarà completamente consumato sarà stata la ragione, quali che ne siano gli esiti, ad avere avuto partita vinta, non potendo, la fede, opporre alla sua avversaria altro che argomenti… razionali.
E’ questa fede in toto razionalizzata il punto d’arrivo della ricerca di Pasquale Cannatà, la cui preoccupazione fondamentale è di dimostrare che tra la fede e la moderna ragione scientifica non c’è incompatibilità e neppure dissonanza ma pieno accordo, sì che non è possibile, se non si è… in malafede o dominati da un pregiudizio ateistico o antiteistico, addurre argomenti razionali contro la fede. La vecchia formula di Tertulliano, credo quia absurdum, risulta così, alla fine del percorso, completamente rovesciata: si crede perché, alla luce dei fatti e della interpretazione razionale di essi, è assurdo non tanto credere quanto non credere e sarà l’ateo a pronunciare, debitamente parafrasandola, la formula tertullianesca, non potendo altro dire che non credo quia absurdum (non credo, anche se questa mia non credenza è assurda).
Pasquale così abbandona, o dà mostra di abbandonare, l’esprit de finesse per l’esprit de geometrie, per la dimostrazione razionale, insofferente della raccomandazione dantesca di “star contento al quia”. Non si tratta però di uno sviluppo programmaticamente cercato e raggiunto, ma dell’implicazione della polemica nella quale l’autore si lascia trascinare, sostenendola peraltro con armi molto affilate che derivano proprio, paradossalmente, dalla certezza della fede, dal fatto di trovarsi, lui galatrese nato e cresciuto all’ombra del campanile (della Chiesa della Madonna della Montagna), da sempre nella fede.
La fiducia (ir)razionale nelle ragioni della fede lo porta, nel titolo e nei sottotitoli di copertina, a scherzare con i suoi avversari – i razionalisti atei, dei quali adotta il metodo - definendoli “Conquistatori… del nulla”, con i puntini sospensivi che sottendono non solo che il nulla, in quanto nulla, non si può conquistare, ma che tutta la filosofia laica, non solo quella dichiaratamente contro la fede, ma anche quella che esplicitamente o implicitamente ne prescinde, abbia e non possa non avere il nulla come proprio orizzonte.
Col nulla, invero, le cose si complicherebbero alquanto, anche se la concezione che ne ha Cannatà non è di difficile decifrazione. Per lui il nulla è il vuoto esistenziale, la mancanza di senso – intesa letteralmente come insensatezza - che deriva dal pensare l’uomo, heideggerianamente, come mero “essere per la morte” e non invece come “essere per l’eternità” come, a seguirlo, dimostrerebbero la ragione teologica e quella scientifica.
Concludo con una provocazione che essendo lui cattolico ortodosso – di un’ortodossia che ha malintese e infelici implicazioni politiche - non gli piacerà: ho colto molte assonanze con quanto si legge nei libri di Vito Mancuso, un teologo che col magistero ufficiale non ha certo un rapporto idilliaco.

L'autore comunica che due copie del libro sono a disposizione dei galatresi essendo state da lui donate alla biblioteca comunale, una terza copia è stata data invece alla biblioteca della scuola media.

In alto: la copertina del libro di Pasquale Cannatà.

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(21.9.11) LA CARICA DEI TARANKARADROS (Massimo Distilo) - Da circa un anno un gruppo di giovani musicisti galatresi si è messo a rielaborare, sotto la guida appassionata di Mario Correale, testi della tradizione musicale locale, imperniata sulla tarantella, per rivisitare strofe di accattivante, antica semplicità sfruttando appieno le opportunità delle moderne tecniche elettroniche di produzione del suono.
L’originalità dei risultati ottenuti è indiscutibile, atteso che i consensi riscossi dai nostri ragazzi sono di quantità e qualità tale da portarci ad escludere che a determinarli sia solo l’intramontabile affezione dei popoli calabri per la taranta.
Il mix che il gruppo Tarankaradros riesce ad ottenere funziona perfettamente sul piano musicale, coniugandosi ad una carica di simpatia umana ed artistica capace di catturare con l’intensità del ritmo anche i più compassati, coinvolgendoli nella tipica sfrenatezza dionisiaca del ballo.
L’estate che sta finendo è stata nutrita di impegni ma l’agenda del nostro gruppo è ancora ricca anche per il prossimo autunno. Ai nostri lettori consigliamo di ascoltarli almeno una volta. Si convinceranno che sono una novità davvero importante che riesce a divertire con la qualità musicale.
Ecco i componenti del gruppo:

Mario Correale – chitarra battente e voce
Salvatore Cirillo – organetto – fisarmonica – lira
Ferdinando Mandaglio – Basso elettrico
Marco Soriano – Chitarra classica
Michele Franzè – Percussioni e batteria
Claudia Rosano – Cori e ballo
Carlo Ardizzone – Fisarmonica e Lira

Bellissimo il loro sito:
www.karadros.it


Nelle foto: in alto Mario Correale, leader dei Tarankaradros; in basso il gruppo in un recente concerto a Sinopoli.

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(24.9.11) LE CONTRADE DI GALATRO (IV) - Eccoci alla quarta puntata del nostro viaggio fra i fantasiosi nomi delle contrade di Galatro. Per chi vuole consultare le tre precedenti puntate che si occupavano delle prime 19 contrade cliccare sui link seguenti: Contrade I, Contrade II, Contrade III.
Ecco le contrade di cui ci occupiano oggi:

Salìci - Contrada montuosa nel territorio del Comune. E' un terreno pianeggiante dove si coltivano grano, granoturco, patate, ecc. La zona ha preso questo nome per l'abbondanza di salici che venivano fatti crescere per fare da frangivento, dal momento che la zona è molto esposta ai venti.

Càmmara - E' una zona tutta coltivata a vite. Il vino della Càmmara è un vino ricercato in quanto viene coltivata uva speciale.

Tri Vadhuna (Tre Valloni) - Zona di montagna del Comune di Galatro. Il terreno è pianeggiante e coltivato a grano, granone, patate con la presenza di pascoli. E' una zona molto abitata anche attualmente, in particolare da famiglie dedite all'agricoltura e all'allevamento. In tale contrada sono presenti scuole, ambulatorio, negozi di alimentari e bar. E' congiunta a Galatro e alla contrada Salìci da una strada che si inerpica fra le montagne.

Livaràtu - Il nome di questa contrada, Livaratu, deriva dalle molte piante di ulivo esistenti nella zona. Il terreno è in parte pianeggiante e in parte montuoso. E' collocata sulla sponda destra del fiume Métramo. Nella parte alta prevale la coltivazione dell'ulivo, nella parte bassa vi sono estensioni di agrumi.

La Monaca - Questa contrada nei pressi di Galatro, prese il nome dall'antica proprietaria che era detta 'a monaca. Si trattava infatti della suora De Felice Protopapa.

Cuvalùta - Il nome deriva da Cùvalu, che vuol dire incavo. Cuvalùta significa quindi incavata. E' costituita infatti da un terreno incavato fra due montagne. E' coltivata a bosco che è di proprietà del Comune di Galatro.

IV - Continua...

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(13.10.11) RESOCONTO DELLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "NIENTE DI CUI PENTIRSI" - Il libro di Rocco Cosentino, Niente di cui pentirsi, è stato presentato a Galatro in un incontro dibattito al quale è intervenuto, oltre all'autore, anche il presidente dell'Amministrazione Provinciale dottor Giuseppe Raffa.
Pubblichiamo la relazione con cui l'assessore comunale, avv. Pasquale Simari, ha presentato il volume al numeroso pubblico convenuto presso la sala convegni comunale di Piazza Matteotti.
L'incontro è iniziato con il saluto del sindaco Carmelo Panetta, subito dopo Domenico Distilo ha tratteggiato la personalità dell'autore, suo alunno nei primi anni Novanta al Liceo scientifico di Cittanova. Nel dibattito sono intervenuti anche l'avvocato Michele Scozzarra e il maresciallo Francesco Distilo.


Relazione dell'avv. Pasquale Simari

Quando mi è stato chiesto di intervenire alla presentazione di Niente di cui pentirsi, ho pensato che ci si attendesse da me non tanto un giudizio estetico, che non ho certo i titoli per poter esprimere, quanto un’opinione per così dire “qualificata” sulla parte “tecnico-giuridica” del romanzo.
Infatti dopo aver letto le note biografiche sul risvolto di copertina, in cui si dice senza mezzi termini che una delle ragioni, se non la principale, per cui il magistrato Rocco Cosentino ha sentito l’esigenza di cimentarsi con la narrativa è stata l’insofferenza per le numerose imprecisioni che, in ambito letterario, costellano la descrizione delle indagini penali, credo che in chiunque nasca spontanea la curiosità di verificare se, messo alla prova, l’Autore ha saputo evitare gli errori o le incongruenze che mal sopporta di ritrovare altrove.
Devo dire, in tutta sincerità, che il risultato è stato assolutamente all’altezza delle attese: non solo per la precisione, la coerenza e la pertinenza di tutti i riferimenti alle procedure, alle competenze ed ai ruoli degli investigatori (intendendo con questo termine sia la polizia giudiziaria che il PM che la coordina) ma anche, e soprattutto, per la capacità, anzi l’abilità, di Rocco Cosentino di raccontare il reale svolgersi di una indagine, in tutte le sue sfumature, senza mai indulgere nella leziosità o nella saccenza.
In altri termini, l’Autore è riuscito nel difficile compito di fotografare, nel modo più fedele alla realtà, i momenti topici di una indagine penale mantenendo inalterato il ritmo narrativo che, ovviamente, in un romanzo noir deve sempre rimanere sul filo della tensione.
Anzi, in alcuni tratti, ho colto delle vere e proprie finezze, cioè dei particolari che agli occhi meno esperti appariranno probabilmente insignificanti ma che, per un addetto ai lavori, denotano l’assoluta padronanza dell’argomento da parte dell’Autore.
Faccio un esempio per farmi capire: nella prima parte del romanzo viene descritta con grande profusione di particolari tutta l’attività investigativa che caratterizza la scoperta di un delitto di omicidio, con gli ovvi riferimenti alla delimitazione della scena del crimine, ai rilievi della polizia scientifica, alla ricerca dei primi indizi. Tutte cose che, bene o male, si ritrovano anche in un banale sceneggiato televisivo e che, ormai, conoscono a memoria anche i bambini.
In questo caso, però, ad un certo punto viene raccontato il momento in cui un congiunto della vittima è chiamato a riconoscere il cadavere: ebbene, nella realtà, a differenza di quanto siamo abituati a leggere e vedere in tv, questa procedura richiede anche la stesura di un apposito verbale di constatazione che deve essere poi sottoscritto da chi ha effettuato l’identificazione.
La finezza a cui mi riferisco si manifesta proprio al momento della verbalizzazione, quando l’Autore riesce a coniugare in maniera mirabile il crudo realismo della scena, necessario ai fini narrativi, con la concretezza ed il pragmatismo del PM che, dall’espressione di sconforto del congiunto acquisisce comunque la conferma implicita delle effettive generalità della vittima e riesce così a venire a capo di uno dei passaggi burocratici più fastidiosi di un’indagine di omicidio.
A mio avviso, solo chi ha davvero avuto a che fare con momenti come questi poteva dare il giusto rilievo ad una tale sfumatura. Allo stesso modo, non penso sia stata casuale, nella scena dell’irruzione nell’abitazione del ricercato, la precisazione sulla diversità del nostro ordinamento, che non vede di buon occhio l’uso delle armi, anche da parte della Polizia, e ne consente il ricorso solo nei casi in cui risulti assolutamente indispensabile, rispetto agli stereotipi americani, in cui non manca mai una porta abbattuta a revolverate o peggio.
E poi c’è la parte più stuzzicante, in cui l’Autore inserisce nel racconto delle vere e proprie chicche.
Così, qua e là vengono rivelati dei “segreti del mestiere”, come per esempio che esiste una regola non scritta per cui il primo corpo di polizia ad arrivare sul luogo del delitto trattiene per se le investigazioni o che spesso e volentieri le “casuali perquisizioni” che consentono il sequestro di droga o armi a bordo di autovetture poi tanto casuali non sono: si tratta infatti di operazioni frutto di intercettazioni e pedinamenti, che vengono eseguite con modalità tali da farle apparire del tutto fortuite solo per non compromettere il resto dell’indagine.
Ed ancora, credo sia davvero interessante per un profano sapere che un’ordinanza di custodia cautelare nella maggior parte dei casi è costituita all’80% dalla integrale trascrizione dell’informativa della Polizia Giudiziaria più un 10% di commento del PM richiedente ed un 10% (ad essere generosi) di valutazioni da parte del GIP.
E mi fermo qui per non togliere lo sfizio a chi ancora non l’ha letto: in definitiva, il romanzo è una miniera di informazioni per chi vuole scoprire come si svolge davvero un’indagine ma non ha la voglia o il tempo di mettersi a studiare un saggio specialistico: si può infatti capire come si conduce un interrogatorio, come sono strutturati i rapporti tra Polizia Giudiziaria e PM, come si formulano e si mettono in pratica le ipotesi investigative, quali sono le formalità che precedono l’esecuzione di una intercettazione telefonica, come si esegue un arresto, come opera un agente infiltrato, ecc.
Comunque, ribadisco, tutte queste descrizioni sono perfettamente coerenti con il contesto narrativo e lo arricchiscono senza appesantirne la struttura e la fluidità.
Perché, ed ora parlo da appassionato lettore di romanzi thriller e noir ormai da quasi 25 anni, Niente di cui pentirsi è un romanzo che si fa leggere con piacere e che coniuga sapientemente una molteplicità di registri: si trovano infatti momenti di ironia cui fanno seguito pagine di denuncia civile, parentesi di introspezione psicologica che poi lasciano spazio a picchi di adrenalina ed azione. Insomma un libro che non lascia indifferenti, anche per il finale per così dire a sorpresa.
Del resto, la scelta del genere noir, che per definizione può anche non avere un finale chiarificatore, non credo sia stata casuale, ma abbia rappresentato il modo attraverso cui l’autore ha voluto indurre il lettore a non abbandonare il libro anche dopo essere arrivato all’ultima pagina, perché costretto a riflettere sui tanti fili del romanzo che alla fine arrivano a congiungersi, ed a cercare lui stesso la soluzione che preferisce.
Però… c’è sempre un però…
Dopo aver speso tante belle parole, vorrei difatti muovere un rimprovero al Dott. Cosentino: nel romanzo, agli avvocati non è riservato un trattamento generoso e, addirittura, gli avvocati – amministratori locali sono i protagonisti negativi della storia, cattivi che più cattivi non si può.
Dato che, guarda caso, mi trovo in questo momento a rivestire entrambi i ruoli, mi sembra doveroso precisare che si tratta di opera di pura fantasia e che, in realtà, salvo qualche inevitabile eccezione, in un paese democratico la classe forense, con tutti i suoi difetti, ha un ruolo importantissimo, che io reputo di valore assolutamente pari a quello della magistratura.
A questo punto, come riparazione, chiedo che il prossimo romanzo di Rocco Cosentino veda come protagonista un giovane avvocato di grandi ideali che lotta contro un magistrato senza scrupoli per salvare dal carcere un innocente.
A parte gli scherzi, sono sempre stato convinto che il buon giorno si vede dal mattino e, in questo caso, l’esordio non poteva essere più promettente: Niente di cui pentirsi è un romanzo che si sta piano piano facendo strada con il solo passaparola dei lettori e sono sicuro che ancora farà molto parlare di sé.
Da parte mia auguro a Rocco Cosentino di eguagliare e superare i suoi colleghi magistrati Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo che ormai sono entrati nel gotha della narrativa italiana facendo incetta di premi, vendendo milioni di copie e vedendo le proprie opera sistematicamente trasposte al cinema o in TV.
Quindi, speriamo di poterci presto rivedere alla presentazione del primo film tratto dalle opere di Rocco Cosentino.

Nelle immagini: in alto da sinistra a destra Domenico Distilo, il presidente Raffa, Rocco Cosentino, Carmelo Panetta e Pasquale Simari (foto Umberto Di Stilo); in basso la copertina del libro.

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(17.10.11) CELEBRITY: MOSTRA A SEREGNO PER ROBERTO RASCHELLA' - Ecco i capisaldi di questa mostra. Si parte dal significato letterale dei termini:

Celebrità [ce-le-bri-tà] s.f. = Fama, notorietà: pochi arrivano alla celebrità. Può significare anche persona famosa in un determinato settore professionale o artistico: una celebrità della musica.
Persona [per-só-na] s.f. = Ogni individuo della specie umana.
Famosa [fa-mó-sa] agg. = Che ha fama, buona o cattiva.

Ognuno di noi è, quindi, celebre per quello che fa, nel bene e nel male. Non occorre essere sulle copertine di un giornale per essere celebri.
La mostra parte da questo concetto e si sviluppa in una serie di fotografie che alternano personaggi conosciuti,
come Madonna, Michael Jackson, le attrici di "Sex and the city" e la coppia reale, William e Kate, a persone di tutti i giorni.
Se la foto della persona celebre colpisce per il fatto di chi è e cosa rappresenta, a Roberto Raschellà piacerebbe che le altre colpissero per quello che esprimono.
La mostra scaturisce dall'iniziativa dei titolari della libreria "Un mondo di libri", che, anche dopo diciotto anni, credono ancora nella possibilità di lavorare per promuovere cultura e conoscenza. Di recente trasferita nel cuore di Seregno, hanno voluto coniugare antico e moderno in una connotazione avveniristica, creando angoli per la lettura e la conversazione anche multimediale, con la zona wi-fi, la zona bimbi con la grande lavagna di 4m, tutti da colorare, la sala per le mostre e gli incontri, dove sono già programmati eventi sino a dicembre.
Celebrity, si è aperta Sabato 15 ottobre alle ore 17.30, presso "Un mondo di libri", a Seregno (Mi). Le foto di Roberto Raschellà saranno in esposizione la settimana successiva, da Lunedi 17 Ottobre pomeriggio, fino a Sabato 22, in orari di negozio.
Per raggiungere Seregno: superstrada Milano/Meda, poi seguire indicazioni per Seregno centro e, successivamente, le poste, dove si può parcheggiare. La libreria si trova nella zona pedonale. E', inoltre, situata sulla linea Milano–Chiasso, è capolinea della Seregno–Bergamo e della Novara–Seregno.
Per info 328.9519803



www.ilvicolopaoletto.com


Nelle immagini: in alto una foto di Roberto Raschellà per "Celebrity", in basso la locandina della mostra.

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(19.10.11) TELESIO, CAMPANELLA E LA CHIESA CALABRESE* (Angelo Cannatà)- Nell’aldilà – dicono – le anime dei morti dialogano tra loro. Ho forti dubbi. Ma piace anche a me immaginare che sia così; che i grandi del passato si incontrino. E parlino di noi, naturalmente.

Tommaso Campanella: Hai letto? Il libro di Benedetto XVI su Gesù è molto bello. Grande dottrina. Acume interpretativo… ho cominciato a leggerlo dopo il suo recente viaggio in Calabria. Voglio capire l’uomo, la persona che c’è dietro il teologo.
Bernardino Telesio: Non mi interessa. Lo sai, preferisco altri testi. Comunque, se vuoi restare nell’universo religioso ti consiglio Giancarlo Bregantini.
Campanella: Dimmi.
Telesio: E’ uscito Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia, Piemme Edizioni. C’è una descrizione realistica di cosa significhi essere sacerdote, vescovo, uomo di chiesa in terra di ‘ndrangheta.
Campanella: Ci risiamo col tuo “realismo”. Io sono per le grandi visioni, mi intriga la dottrina di Papa Benedetto, si potrebbe immaginare…
Telesio: Ecco il punto. Tu immagini troppo - caro Tommaso - soprattutto quello che non c’è ed è irrealizzabile.
Campanella: Dicevo: si potrebbe immaginare che il discorso del Papa in Calabria contenga un “Manifesto meridionalista”. Leggo sui giornali che qualcuno ha utilizzato questa chiave ermeneutica…
Telesio: Ho letto anch’io. E’ un testo ben scritto. C’è intelligenza. Stile. Ma non mi convince. Sai, io amo restare con i piedi ben piantati per terra. Mi sembra uno di quei voli interpretativi - intrisi di speranza - che solo la tua grande (e ingenua) utopia può avallare…
Campanella: Forse mi sbaglio, ma credo si tratti di una “lettura della realtà secondo i suoi principi…”
Telesio: Ti ricordo che questa battuta è mia. Rientra nel tuo ruolo.
Campanella: D’accordo.
Telesio: Dicevamo?
Campanella: Paravamo di “Manifesto meridionalista”…
Telesio:… Ecco: se proprio vogliamo cercare un “Manifesto”, mi sembra sia rintracciabile nel libro di Bregantini, questo trentino che è stato prete-operaio, alla catena di montaggio e cappellano nelle carceri, prima di diventare Vescovo.
Campanella: Ti piace così tanto?
Telesio: E’ stato tredici anni in Calabria, e da vescovo di Locri ha combattuto come pochi altri la ‘ndrangheta. Volontà di rinascita, omelie coraggiose, dialogo con tutti e scomuniche ai boss (agli irriducibili), sono stati il segno – più riconoscibile – del suo lavoro pastorale.
Campanella: Ha rischiato.
Telesio: Certo. Rischi sempre quando Gesù non lo cerchi in un libro, ma nei volti – umiliati e sconfitti – dei fedeli. Rischi, quando entri nel dolore della gente e cerchi di scuotere e dare conforto.
Campanella: Ci vedo una critica al Gesù di Ratzinger - caro Bernardino - all’approccio libresco al cristianesimo. Alle teologiche certezze.
Telesio: Teologiche e fredde certezze, direi. Nel suo viaggio in Calabria, il Papa è risuscito a sorvolare – tranne un dovuto accenno – sulla piaga purulenta della mafia. Il minimo che si possa dire è che sul tema è stato tiepido e poco coraggioso.
Campanella: Il tuo Bregantini, invece?
Telesio: Ha rischiato. Si è esposto. Ha combattuto. Ha sostenuto i giovani di “Ammazzateci Tutti”, dopo l’uccisione di Fortugno. Ha scosso gli animi, sollevato il muro di omertà. La Calabria, durante il suo apostolato, ha vissuto le pagine più belle di una rinascita civile ancora da completare. Ha contribuito – notevolmente – al superamento del silenzio e dell’indifferenza. Papa Benedetto è risuscito a non dire una sola parola su tutto ciò.
Campanella: Una sola domanda: come andò a finire il lavoro della cooperativa di contadini organizzata da “Padre Giancarlo”?
Telesio: I mafiosi avvelenarono l’acqua che stava facendo crescere i frutti. Bregantini si arrabbiò molto. Urlò, grido la sua scomunica contro i boss. Te lo ripeto, un uomo di profonda fede deve sapersi indignare. E farsi sentire.
Campanella: Credo proprio che leggerò il suo libro. Mi affascina questa figura di prete-operaio e di vescovo antimafia. Concluderò la lettura di Ratzinger un’altra volta.
Telesio: Ecco bravo, ti darò la mia copia di Non possiamo tacere. Ma adesso andiamo, si è fatto tardi. Riprenderemo il nostro dialogo in un’altra occasione.

Il volto di Tommaso era sereno. Felice. Aveva un nuovo libro da leggere. Bernardino, invece, con espressione ironica e compiaciuta osservava il suo amico. Lo immaginava - di già - col libro di Bregantini in mano. Una sana lezione di realismo. Intanto, sul far della sera, rientravano lentamente in uno degli infiniti spazi che – così dice la fede – la Provvidenza assegna alle anime.

* Articolo apparso sul Quotidiano della Calabria del 17.10.2011


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(30.10.11) DIARIO TOCCANTE DI UNA PRIGIONIA DURA E DOLOROSA* (Umberto Di Stilo)- Galatro, paese natale impresso nel cuore, la Fede, adamantina e ben consolidata e gli affetti familiari, soprattutto quello per l’anziana madre, tornano continuamente alla memoria di Piero Ocello, giovane maestro appena ventenne che, contravvenendo ai consigli del padre, interrompe gli studi universitari e animato da profondi sentimenti di amor di patria, si arruola volontario nell’esercito.
Così, nel 1942 e in pieno conflitto mondiale, il giovane, col grado di sergente, è destinato sul fronte greco. E’ ancora li, precisamente a Velika, l’8 settembre del 1943 quando viene dichiarato l’armistizio. E’ proprio a partire da quel giorno che, in preda allo sconforto e sconvolto per il modo imprevisto con il quale si erano concluse le ostilità belliche, Ocello comincia a scrivere il suo “diario”. Quaderni scritti con grafia minuta e fitta, pagine vergate in fretta, quasi sempre di sera prima del riposo notturno, quando, ritornato nella baracca dopo una intera giornata passata a scaricare carbone, poteva raccogliere e ordinare i suoi pensieri e abbandonarsi al nostalgico ricordo della famiglia, degli amici o del paese lontano.
Pagine dense di umanità che, a distanza di oltre mezzo secolo da quando sono state scritte (e dopo quasi due lustri della scomparsa dell’Autore) sono state fedelmente trascritte dalla moglie, Mina Buonfiglio, e pubblicate, danno ora corpo al volume …Mamma, non piangere (Editore Parco della Memoria, Roma), invocazione che, pur richiamando alla memoria il verso di un celebre canto militare, da sola sta a testimoniare il profondo legame affettivo che legava Ocello alla sua anziana genitrice.
Dopo le prime riflessioni annotate sull’onda emotiva dell’armistizio continuerà a scrivere per i due anni successivi registrando pazientemente i fatti più salienti della dura giornata di internato, le privazioni conseguenti alla sua condizione di prigioniero di guerra sballottato dai tedeschi da un campo all’altro per essere impiegato in lavori estremamente estenuanti, i dubbi sulla sua destinazione, le speranze, le notizie che giungevano dall’Italia sulla situazione politica, le poche notizie che giungevano dalla famiglia. E, nella linearità di una prosa asciutta non mancano pagine di grande intensità emotiva quando rievoca episodi familiari o scrive in concomitanza di ricorrenze festive (Natale, Carnevale, Pasqua, Commemorazione dei defunti) e non mancano neppure pagine di autoanalisi nelle quali lo scavo psicologico arriva a toccare le più segrete corde dell’anima.
Proprio per questo “…Mamma, non piangere” oltre a rivelare la grande profondità d’animo del suo autore, è fonte di mille particolari per chi vuole conoscere le privazioni, la fame, le angherie che quotidianamente dovevano sopportare i prigionieri che, come Ocello (che nei vari campi aveva il privilegio di fare il caposquadra), non avevano voluto aderire alla repubblica di Salò. Il “diario” come già detto, prende avvio l’8 settembre, allorché in concomitanza con l’armistizio, i militari italiani che si trovavano in Grecia hanno ricevuto l’ordine di consegnare le armi ai tedeschi. Il sergente galatrese, insieme ai soldati che facevano parte della sua squadra, non le consegna. Da questo deciso e convinto rifiuto ha inizio il peregrinare su treni sgangherati (o a piedi) dei prigionieri italiani.
Ocello è metodico. Registra le varie tappe di trasferimento prima in territorio greco, poi in Polonia (a Pillau) e da qui, dopo una breve sosta a Stablak e alcuni mesi a Rosemberg (ove patiscono i rigori del freddo), al lager 16077 di Norimberga dove arrivano dopo una lunga marcia a piedi. Il calvario del sergente, colpito da febbri malariche e costretto a smorzare la fame con qualche patata rubata in cucina, continua ancora a Rottenbach, in un campo che prima aveva ospitato i prigionieri russi, e poi nuovamente a Norimberga. Infine, dopo una breve sosta a Dortmund arriva a Herne ove, grazie al provvidenziale arrivo degli americani, nell’aprile del 1945 insieme a tutti gli altri prigionieri riconquista la libertà e nei primi giorni di agosto può intraprendere il viaggio di ritorno in Italia. A Galatro, caldo ed accogliente “nido” che per tutta la prigionia è stato presente nel suo nostalgico ricordo, Pierino Ocello potrà abbracciare i suoi familiari il 20 di quello stesso mese.
Aldilà del realismo del racconto e dei suoi precisi riferimenti storici, dalle pagine di “…Mamma, non piangere” emerge chiaro e nitido l’orgoglio del soldato italiano unitamente alla indubbia personalità dell’Autore che, negli anni successivi, firmerà opere ed iniziative pedagogico-sociali che hanno lasciato traccia indelebile nella cultura calabrese.

Nelle foto: la copertina del libro "...Mamma, non piangere" e il prof. Piero Ocello.

* L'articolo appare così come inviatoci da Umberto Di Stilo in data 22.10.2011 e come comparso sulla Gazzetta del Sud del 23.10.2011

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(13.11.11) PREMIO "PASSIONE TEATRO" PER ROCCO GIUSEPPE TASSONE - Il poeta e scrittore gioiese Rocco Giuseppe Tassone continua ad ottenere prestigiosi riconoscimenti. Grazie alla farsa in vernacolo La morte di carnalevari l'autore calabrese stavolta si è imposto a Bordighera (Liguria) nel premio "Passione teatro".
Ecco la comunicazione ufficiale da parte della segreteria del premio:

Gent.mo Autore,
volevo informarLa che il suo elaborato risulta vincitore nella sezione VERNACOLO, e che lei è invitato alla serata di premiazione del premio PASSIONE DRAMMATURGIA, Domenica 11 Dicembre ore 18 nello storico Teatro Salvini di Pieve di Teco (IMPERIA), dove verranno premiati tutti i finalisti e saranno proclamati i primi vincitori assoluti.
La prego gentilmente di confermare la sua presenza all'evento, in modo da riservarLe i posti in sala sia per lei che per eventuali accompagnatori.
Nell’attesa di conoscerci di persona al Teatro Salvini, colgo l’occasione per porgerLe i miei più cordiali saluti.

Giovanna Amoroso
www.passioneteatro.com

Nella foto: il poeta e scrittore Rocco Giuseppe Tassone.

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(19.11.11) UN ALTRO PREMIO PER PEPPE MACRI' (Michele Scozzarra) - Peppe Macrì, che in tanti a Galatro chiamiamo, in maniera molto affettuosa, Peppe ‘u poeta, non smette mai di stupirci per i riconoscimenti che riceve per le sue opere, in diverse manifestazioni culturali che si svolgono non solo nella nostra Regione.
Qualche tempo addietro, a Troina, una bella cittadina siciliana in provincia di Enna, durante la Sagra della Vastedda cu sammucu (una tradizionale festa in onore di San Silvestro che si tiene presso l’Antico Monastero di Sant’Agostino) è stato premiato per l’originalità degli strumenti da lui realizzati proprio con il legno di sambuco.
Riconoscimenti ha avuto anche a Chiaromonte, in Basilicata, durante la Giornata del Sambuco di Chiaromonte, dove nell’ambito della presentazione e premiazione del terzo concorso scolastico Sambuco: famoso sconosciuto, abbiamo avuto modo di leggere che si è passati “all’illustrazione dell’uso di strumenti musicali fatti con legno di sambuco da parte di Giuseppe Macrì, viaggiatore errante della locride”.
Peppe Macrì è riuscito a suscitare stupore ed ammirazione, nelle persone presenti sia a Troina che a Chiaromonte, con il suo particolare modo di comunicare, con la genuina capacità di sorprendersi davanti alla natura: c’è in Peppe un modo di vedere le cose e vivere la propria vita che, prima di ogni altra cosa, è comunicazione di emozioni e messaggi nel modo più semplice e puro, cioè nella comunicazione del proprio rapporto con l’ambiente naturale che lo circonda.
Tutto questo per Peppe non vuol dire altro che trovare la possibilità di riscoprire dentro di sé una curiosità che si trasforma in apertura verso il mondo esterno e forse, per lui, rappresenta una via d’uscita, il ritrovare una sua personale situazione di equilibrio nei confronti di tutti i problemi che la vita gli ha posto davanti.
Perché negare che, forse, in Peppe emerge l’aspetto più irrazionale dell’uomo, simbolo di gioia e innocenza, creatura debole e sognante…
Peppe, talvolta, forse senza rendersene conto, esprime una parte del nostro vivere, quella parte piccola e impacciata che vorremmo tenere nascosta e che ci fa sentire a disagio in tante situazioni… mentre bisogna ammettere che lui si presenta sempre in maniera viva e vitale, anche quando la realtà che vive gli può provocare sofferenza, una sofferenza che esprime con il suo comportamento, talvolta strano e stravagante, ma che rispecchia la vita di tutti i giorni con i problemi, le gioie, i dolori, le illusioni e le delusioni con cui dobbiamo combattere la nostra quotidianità…
Forse è proprio perché ci comunica e testimonia tutto questo che gli vogliamo bene.






Nelle foto: Giuseppe Macrì con il premio conseguito e con alcuni degli strumenti costruiti.


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(30.11.11) PEPPE FORTE: DENTRO LA BELLEZZA DELL'ARTE... LA SALVEZZA (Michele Scozzarra) - Certamente non è facile definire cosa s’intende per “arte”: ma per chi l’abbia veramente afferrata, amata, bestemmiata, ferita, implorata affinché l’arte potesse essere un grido, un sostegno, una possibilità per portare la propria vita verso il centro della sua verità e della sua origine, per questi l’arte è il luogo del dono creativo e insieme della ribellione ad ogni imposizione.
Non si può non riconoscere che il “luogo” dell’arte è, innanzitutto, quello dove sta l’artista, dove egli vive, dove risiedono le sue speranze, i suoi sogni, le sue delusioni, le sue paure, è quello che gli consente la massima fedeltà alle esigenze del suo dono creativo: intesa così, l’arte diviene il mezzo più efficace per poter rappresentare, anche o soprattutto, una profonda realtà di sofferenza e incomprensione di cui l’artista si trova ad essere, suo malgrado, amaro testimone.
Sono queste le considerazioni che ho fatto, qualche tempo fa, dopo aver visto le sculture di Peppe Forte, anche se ancora sono tutte da scoprire, nei suoi diversi stati d’animo, nei suoi modi di rappresentare la realtà, in tutta la forza di sintesi di cui è capace di trasmettere alle sue opere.
Peppe Forte è nato e vive a Limbadi, ma ha frequentato a Meda (in provincia di Milano) la “Scuola professionale intagliatori del legno”, dove ha acquisito professionalità e competenza nel campo dei restauri e degli intagli.
L’ho conosciuto mentre lavorava al restauro della statua lignea della Madonna del Carmine di Limbadi, anche se sono rimasto incantato di fronte alla scultura realizzata per l’altare della stessa Chiesa: “L’altare è stato realizzato - mi dice Forte – con la radice di una pianta di olivo. Ho voluto esprimere e sviluppare l’immagine del Paradiso, del Purgatorio, dell’Inferno e della Crocifissione. Sono partito dall’idea di un grande piede sul quale si doveva reggere tutto l’altare… poi ho cambiato idea. Anche il Cristo non è rappresentato sulla Croce, ma si libera della Croce proprio in mezzo alle persone che lo hanno crocifisso. Al di sopra di tutto ho rappresentato l’Eucarestia che raccoglie e abbraccia in sé, tutto quello che ho voluto rappresentare nell’Altare”.
Poi, piano piano, siamo diventati amici, ho avuto modo di parlare con lui della sua arte, di vedere alcune delle sue sculture e di scoprirne il misterioso fascino che trasmettono.
“Quando scolpisco il legno – mi dice – mi sembra di giocare, e se non scolpisco mi sento male, anche perché è l’unica cosa che mi soddisfa. Agli inizi lavoravo il legno su un tipo di scultura lineare ed armoniosa, poi un giorno ho avuto modo di vedere i lavori di Dalì e sono rimasto impressionato: c’erano delle forme così perfette in pittura, che sembravano delle sculture. Da questo mi è venuta l’idea dell’immagine a due, anche se, prima ancora di conoscere le opere di Dalì, avevo già intuito la tecnica della doppia immagine. Confortato dal fatto che anche un maestro come Dalì si è cimentato, in pittura, in questo lavoro, io ho sviluppato questa intuizione in scultura, fino ad arrivare a riuscire a realizzare anche una terza immagine”.
Colgo nelle opere di Peppe Forte una ricerca esistenziale che viene accostata alla sua arte con estrema serietà, considerandola anche un lavoro da eseguire con il massimo impegno, espressa in forme artistiche sottratte alla logica dell’arte “colta” per cercare proprie strade e individuare orizzonti diversi e meno accademici, anche se di grande valore e di massimo effetto.
In tanti lunghi discorsi che abbiamo fatto, non potevo non chiedergli da cosa, e come, nasce la sua scultura?: “Schizzi e modelli non ne faccio – mi ha risposto – anche perché il legno ti da già una forma. Il lavoro è tirare fuori quella forma, che c’è già nel legno, in base alla tua interpretazione, che nasce da quello che tu vivi, da quello che tu desideri, da quello che tu immagini. L’immaginazione è il primo momento, talvolta dura per giorni e giorni: immagini una scena che non riesci a toglierti dalla testa, ma che vedi già impressa nel legno. Poi, per realizzare la scena che hai in testa, c’è solo da togliere il legno che non serve”.
Che dire…Così l’artista “vede” e nel momento stesso che vede, l’artista ricorda e crea. Il luogo che vede è già il luogo della sua memoria e della sua creazione: questo, per Peppe Forte, è il compito del vero artista, custodire le immagini che vede perché non muoiano... e accetta questa sfida, anzi, il suo occhio e la sua fantasia sono condannati ad accettare questa sfida, perché sono l’occhio e la fantasia di uno che “vede” per “creare” e per “ricordare”… perché nelle cose che vede, l’artista dona alla sua opera il suo cuore, la trasporta in una dimensione diversa, creativa, che esprime il linguaggio, le ansie, le vibrazioni del cuore che imprime nell’opera dell’artista il suo sigillo.
Attraverso l’immagine l’artista può esprimere sia le forze indecifrabili che scuotono il suo animo, sia l’ispirazione che può tormentarlo sino alla materializzazione del suo pensiero artistico… e nelle sculture di Peppe Forte il volto umano non solo spicca, ma vive e snoda sentimenti ed emozioni misteriosi: “La faccia umana rientra nella mia idea di bellezza e di fascino – mi sottolinea – nelle mie sculture anche i piedi, i muscoli, talvolta, hanno la forma di una faccia. La faccia certe volte si intravede chiaramente, altre volte no... forse perché, certe volte, sento il bisogno di nascondermi pure io. Anche quando lavoro, e sono solo, mi sembra di essere osservato da 100 persone...”.
Non mi voglio elevare a critico d’arte, anche perché non ne ho la competenza, e soprattutto perché alla singolarità dell’opera, preferisco dare più risalto alla singolarità dell’artista e quindi fuggire da ogni scuola, da ogni tentativo di catalogazione, di imprigionamento, anche perché ogni opera d’arte, e quelle di Peppe Forte in modo particolare, rimane, per ogni critico serio, sempre un grande mistero. E per entrare in questo mistero, bisogna togliersi i sandali, accedere ad un altro terreno, avvicinarsi all’artista e alla sua storia, di cui il critico non può fare chiacchiere, né letteratura, né sentimentalismi, né patetismi, come tante volte si sentono.
Ho provato ad andare più in profondità, nei discorsi che abbiamo fatto, fino a chiedere che senso ha per Peppe Forte dire “arte”?: “C’è un momento – mi risponde – in cui ogni persona si misura con se stessa e capisce di avere dentro una forza, una forza che contiene un messaggio che deve essere comunicato. Ciò che mi spinge a scolpire il legno è, in primo luogo, perché è la mia passione; e poi sento che è l’unico modo che ho di trasmettere tutti quei messaggi che mi porto dentro”.
Questo è il significato che Peppe Forte da alla sua “arte”: questa parola pronunciata da lui come se fosse il suo sangue, come se si trattasse della parola che forma la sua “salvezza”, dentro la fatica e l’artigianalità quotidiana d’organizzare e dare forma e significato a quest’unico e solo tentativo… di salvezza!


Nelle foto: lo scultore al lavoro ed alcune delle sue realizzazioni.


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(7.12.11) UNA MOSTRA COLLETTIVA PER ROBERTO RASCHELLA' - Alberto Frigo, Ada Tattini e Lara Treppiede organizzano una mostra collettiva al "Mureen da l’Olii" in via Molino dell'olio 3, a Baraggia di Viggiù, un antico mulino immerso nel verde dei boschi varesini, con inaugurazione Venerdi 9 Dicembre, alle ore 18.30, con un aperitivo natalizio.
Tra gli artisti partecipanti c'è anche Roberto Raschellà, che ripropone la sua
Celebrity, esposta in ottobre presso la libreria "Un mondo di libri" a Seregno.
Nelle foto di "Celebrity" ci sono personaggi famosi quali Madonna, Michael Jackson, l'attrice di "Sex and the city" Sarah Jessica Parker e la coppia reale William e Kate, nel giorno del loro matrimonio, tutti fotografati a Londra, contrapposti a persone "comuni" che si sono prestate all'occhio dell'obbiettivo del fotografo galatrese.
Il concetto sviluppato è che nella normalità di tutti i giorni si può essere famosi e celebri, in quanto una celebrità è una persona famosa in un determinato settore. La fama, buona o cattiva, la creano le persone che seguono o ammirano le "opere" realizzate, che siano foto, sculture, articoli o un piatto di cucina.
In fondo è l'accettazione di se stessi, e di quello che si fa.
Altri artisti presenti, oltre a Roberto Raschellà, sono Fabrizio Bellanca, Stefano Calderara, Matteo Galvano, Maria Teresa Gonzalez Ramirez, Veronica Mazzucchi, Simona Muzzeddu, Petra Weiss, che spaziando da sculture a dipinti, renderanno ancora più interessante la struttura del mulino.
La mostra, ad ingresso libero e su prenotazione al numero 347.5520341 (Patrizia), è aperta fino a Domenica 18 Dicembre.



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(11.12.11) AL PROF. SALVATORE RIZZO IL PREMIO NAZIONALE CAPONNETTO (Michele Scozzarra) - Il 6 dicembre scorso, a Pistoia, assieme all’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, è stato conferito al Prof. Salvatore Rizzo, docente di storia e filosofia del Liceo Classico “P. Galluppi” il premio nazionale per la cultura e per la legalità “Antonino Caponnetto”.
Il premio è alla sua prima edizione ed è stato organizzato dalla Fondazione “Un raggio di luce” insieme al Centro di documentazione e progetto Don Milani e alla Fondazione Caponnetto, e la cerimonia di premiazione si è svolta nel palazzo comunale di Pistoia alla presenza del Sindaco , del Vescovo, della Signora Elisabetta Baldi Caponnetto, vedova del giudice, di Luigi Marini, membro della Corte di Cassazione e di tante altre personalità.
Grande soddisfazione della dirigente Beatrice Lento che ha detto: “Il premio, meritatissimo da Salvatore, è anche per noi una gratificazione grande perché conferma la bontà del percorso intrapreso sulla scia dell’”I care” milaniano. La motivazione del riconoscimento ha sottolineato l’impegno profuso dal docente nella scuola, i tanti premi conquistati a Montecatini, oltre che i grandi ideali di rigore morale e di giustizia che, animando il docente, si diffondono tra gli allievi che, come il professore ha dichiarato nel suo intervento a Pistoia, resi protagonisti di una cittadinanza veramente attiva e responsabile risultano più motivati nello studio e riportano netti miglioramenti di profitto”.
Il prof. Rizzo ha dedicato il premio, che gli è stato consegnato proprio da parte della Signora Elisabetta Caponnetto, “Ai miei Alunni, alla mia Scuola, al mio Territorio, a Limbadi, ai miei Amici e a quanti mi vogliono bene e mi stimano”. E nelle motivazioni del conferimento, leggiamo:“Insegnante-educatore alla legalità. La scelta di conferire a Salvatore Rizzo il Premio alla legalità Antonino Caponnetto, rappresenta il miglior riconoscimento per la sua vita e il suo impegno nella formazione dei giovani, imperniata sui valori di giustizia, verità e legalità in coerenza con il senso più profondo dell'opera e del messaggio del Giudice. Nato a Limbadi il 18 luglio 1953, insegna Storia e Filosofia presso il Liceo classico "Pasquale Galluppi" di Tropea, dove da anni sviluppa con i suoi studenti progetti di impegno nella lotta contro l'illegalità diffusa, che opprime il territorio. Ha vinto più volte con le sue classi il concorso sulla legalità al Campus nazionale di "Albachiara" a Montecatini Terme, momento culminante del percorso di cittadinanza promosso dall'Assessorato alle Politiche giovanili della Provincia di Pistoia e dal Gruppo "Abele" di Torino.
La sua vita è sempre stata coerente all' educazione dei genitori, rigida e rigorosa, improntata al rispetto e all'attenzione per gli altri. Ha continuato a essere, con le azioni, il figlio di Don Peppino, il padre che ancora oggi gli anziani ricordano per la sua rettitudine che gli fece guadagnare la stima di tutti.. Ha imparato da lui anche il rispetto per il duro lavoro, per la semplicità e l’impegno delle famiglie povere, ma orgogliose e rette.
Nel suo lavoro a scuola si è dedicato con passione ai ragazzi e ha partecipato a diversi progetti anche come referente, evitando ogni protagonismo, perché spinto dall'unico obiettivo di formare criticamente i suoi ragazzi ai valori della legalità. Per questo suo impegno ha dovuto subire, talvolta, insieme alla coraggiosa compagna Giuseppina e ai suoi figli delusioni. Essere retti e nella legalità non è motivo di stima, ma di debolezza e, talvolta, perfino di irrisione. Nonostante le amarezze subite, il suo impegno culturale e sociale è rimasto immutato; perché proteso al riscatto della sua terra attraverso l'esempio. Spera che piano piano si cambi per il bene di tutti. E’ difficile, ma come dice ai suoi studenti: "chi osserva vede, capisce, si migliora, segue, si trasforma e vorrà anche lui un mondo migliore."
Di fronte a tante manifestazioni di stima e affetto ricevute dal prof. Salvatore Rizzo, anche io ho voluto indirizzargli un mio pensiero, nella consapevolezza che il corso delle cose può cambiare e ogni mattina la Terra appare più abitabile solo se si ha la certezza di avere, sulla via della giustizia e della bellezza, dei compagni di strada che non si tirano indietro al lavoro e alla fatica per la costruzione di ciò in cui si crede… nonostante tutto!
"Caro Salvatore, ho proprio adesso finito di leggere i commenti a questo tuo meritato riconoscimento… Sono poche le cose che ti posso dire, perché il legame che ci unisce è talmente forte che sono poche le cose che non ti ho detto, a riguardo della passione che tu metti nel tuo essere educatore, nella tua onestà, moralità, legalità…
Un premio del genere, dato alla tua persona, non poteva trovare destinatario migliore, proprio per la tua quotidiana fatica a far emergere il bello, il vero ed il giusto, in una realtà dove queste parole sembrano non trovare cittadinanza… e soprattutto per gente come noi che, nonostante tutto quello che abbiamo intorno, cerchiamo di restare quello che - con un'etichetta che tempo fa la televisione e Castellitto hanno fatto diventar celebre - si potrebbe definire "cane sciolto", cioè non aver alle spalle nessuno che ti sponsorizza, che t'impone come "gradito a... a nome di... ecc.". In parole povere una faticaccia che ti obbliga ad essere sempre e comunque il manager di te stesso... con la constatazione che questa, che dovrebbe essere una pratica comune fra gente libera, è invece una scelta da mosca bianca… e proprio per questa tua testimonianza da “mosca bianca”, questo premio a te, va molto al di là dello stesso riconoscimento che vuole rappresentare…Ho scritto, di getto, ma con molto affetto e gratitudine per il lavoro che fai sulla strada, talvolta solitaria, della consapevolezza della fiducia che, per quanto radici profonde possa avere il “male”… il bene ha radici più profonde… e noi lavoriamo per questo! Ti abbraccio!"


Nelle foto, dall'alto in basso: il prof. Rizzo parla al momento della premiazione; dopo la premiazione; a scuola coi suoi alunni.


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(20.12.11) CHE COS'E' L'UOMO? (Pasquale Cannatà) - Secondo la teoria evoluzionistica/atea, l’uomo non è altro che un animale come tutti gli altri che divisi in varie specie occupano il nostro pianeta in tutta la sua superficie ed anche sotto di essa, nei cieli e nelle acque: ciò che lo differenzierebbe da tutti gli altri animali sarebbe una serie infinita di mutazioni e di adattamenti all’ambiente (l’evoluzione, appunto) che hanno permesso nel corso di miliardi di anni di passare da forme di vita unicellulari ad organismi via via sempre più complessi e poi negli ultimi milioni di anni da un primo esemplare di mammifero (sembra sia stato qualcosa di simile ad un topo) all’attuale homo sapiens-sapiens. Di tutto questo sarebbe protagonista il “caso” che avrebbe dato origine a tutto l’universo esistente.
Noi uomini saremmo quindi del tutto uguali agli altri animali.
Una contraddizione che vorrei far notare è che i più convinti animalisti sono molto spesso, e proprio per rispetto agli altri animali, anche vegetariani, ed io mi domando perché, mentre accettano ed ammirano i leoni, le tigri ed altri carnivori del mondo animale, della natura da loro idolatrata, che cacciano le prede per nutrirsene, non accettano il fatto che l’uomo, essendo onnivoro, possa nutrirsi anche lui di carne. Un discorso diverso riguarda le condizioni di vita in cui sono tenuti gli animali di cui ci nutriamo e quelli da cui traiamo altre utilità: fino al momento in cui l’uomo non se ne serve, devono essere tenuti nelle migliori condizioni e dovrebbe essere loro garantita una fine la meno dolorosa possibile.
Non ho certamente nulla da obiettare sul fatto che gli uomini sono tutti uguali nel senso che hanno uguali diritti e doveri e che non si debba fare distinzione di sesso, razza o religione, ma come spesso accade, quando si estremizza un concetto si finisce per snaturarlo: l’ateo/marxista più ortodosso (ne conosco alcuni esemplari!) vorrebbe gli uomini tutti uguali anche nel senso di uguale retribuzione tra operaio e dottore, tra contadino e ingegnere, ecc.
Premesso che ad ognuno va riconosciuto il diritto alla ricompensa del proprio lavoro in misura tale da garantire un tenore di vita dignitoso, mi domando se non debba essere premiata anche economicamente una persona che invece di cominciare a lavorare a 18 anni portando a casa un reddito, continua a spendere soldi fino ai 26/30 anni e più per studiare ed intraprendere una professione che richiede maggiori conoscenze per essere svolta e che poi comporterà maggiori responsabilità: per non dire di chi oltre a questo investe dei capitali per mettere su una azienda di cui si occuperà oltre le otto ore durante le quali lavoreranno i suoi dipendenti (che una volta a casa non penseranno più al lavoro e godranno di fine settimana e ferie tranquille), mentre il titolare è sempre col pensiero rivolto a trovare compratori per i suoi prodotti ed aggiornare i macchinari della sua azienda.
Che cos’è dunque l’uomo? Soltanto materia animale, o qualcosa di più?
Leggo in un brano del Vangelo che:

Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì.

Ci viene detto da Gesù Cristo, che non credo possa essere tacciato da nessuno di essere uno che fa discriminazioni tra persone, che non siamo tutti uguali, che le capacità fisiche e mentali cambiano da una persona all’altra e non possono essere date a chi non ne ha i requisiti adatti, quelle incombenze di lavoro manuale o intellettuale che altrimenti lo farebbero soccombere. Continuiamo la lettura:

Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.

Il suo errore è stato di non lavorare, di non fare niente di buono nel tempo che gli era stato concesso per dare un senso alla sua vita, per fare in modo che l’essere vissuto abbia recato una differenza: io credo che sarebbe stato premiato anche se operando avesse perso tutto. Il brano si conclude così:

Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.

Al servo fannullone è stato tolto quello che non aveva, che non era suo e che gli era stato affidato: non importa che fosse un solo talento, anzi questa era una attenuante, perché se gliene fossero stati affidati dieci e non li avesse fatti fruttare, sarebbe stato ancora più colpevole. Non ha messo a frutto i suoi talenti, anche se erano pochi, non ha ricambiato la fiducia che il suo padrone aveva riposto su di lui affidandogli parte dei suoi averi, non ha messo in moto neanche quel poco di fede che gli era stata data, e quindi era impossibile dargliene ancora di più per essere nell’abbondanza.
Il corpo del servo incapace è stato buttato fuori, dopo che gli è stato tolto anche quello che aveva, cioè dopo essere stato privato di quel qualcosa che l’uomo ha in più degli altri animali e che lo rende unico e diverso da ogni altro essere vivente.
Secondo me, l’insegnamento di questa parabola è che l’uomo, oltre che corpo che gli appartiene per natura, in qualunque modo acquisito (caso o creazione), è anche spirito ed anima che gli sono stati dati, che non sono suoi e per questo deve adoperarsi per portare buoni frutti (non importa se non ci riesce, ma ciò che conta è provarci): a chi ha fede, speranza, voglia di fare su questa terra, sarà dato di accedere ad un’altra vita migliore e ricevere doni in abbondanza; a chi non ha tutto questo, a chi rifiuta il dono della fede che è offerto a tutti, sarà tolto anche quello che ha avuto in più rispetto alla materia naturale che è sua, ma che sarà buttata fuori dove sarà pianto e stridore di denti (per sua scelta diventerà solo polvere, come si augurano gli atei materialisti).
E se dentro di noi abbiamo qualcosa che non è nostro e che ci è stato dato, ragionando sull’origine dell’uomo, non sarebbe il caso di escludere il “caso”?

Nella foto: la parabola dei talenti.


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(23.12.11) PREMIO CALOGERO 2011 A UMBERTO DI STILO (Michele Scozzarra) - E’ stato assegnato lunedì 19 dicembre 2011, nel Salone della Cultura della Provincia di Reggio Calabria, il “XXIV° Premio Giuseppe Calogero 2011”, alla presenza di artisti, letterati, professionisti, studiosi ed operatori socio-economici calabresi che illustrano la nostra Regione in ogni parte d’Italia.
Nel corso dell’incontro, organizzato dal Circolo Culturale “G. Calogero”, Centro Studi “F. Grisi” e Sindacato Liberi Scrittori Italiani, che aveva come tema “Le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia: quale contributo alla conoscenza della nostra storia e alla costruzione di una memoria condivisa dal nostro popolo?”, il Presidente On. Natino Aloi, già Sottosegretario alla P.I., ha consegnato l’onorificenza di quest’anno al nostro concittadino, giornalista e scrittore, Umberto Di Stilo.
La motivazione della giuria offre una breve riflessione sulle ragioni della scelta: “A Umberto Di Stilo, Scrittore-Giornalista. Attento studioso della storia della sua Galatro, ha prodotto lavori di autentico interesse scientifico, indagando sulle radici culturali-linguistiche della sua terra. Autore di un prezioso vocabolario del dialetto di Galatro, è considerato – anche per le altre numerose pubblicazioni – uno dei più validi difensori dell’identità culturale della Calabria. Giornalista di valore, associa all’onestà dell’informazione le motivazioni storiche in cui si collocano gli eventi descritti nella loro realtà”.
Questo premio a Umberto Di Stilo, va ad aggiungersi ai tanti premi che gli sono stati attribuiti nell’arco della sua attività di scrittore e giornalista, portata avanti ormai da diversi lustri. Nel 1967 (con l'articolo "Bagnara, le bagnarote e la pesca del pescespada") e nel 1969 (con l'articolo "La valle sacra dell’Aspromonte", come il precedente pubblicato sul mensile "Il Carabiniere"), ha vinto il premio nazionale di giornalismo "L'eco della ribalta". Ha collaborato con tanti quotidiani, settimanali, mensili e periodici. Nel biennio 1974/75 ha fatto parte del gruppo di ricerca di dialettologia che, sotto la guida del prof. Giuseppe Falcone dell'Università di Messina, ha operato in Calabria per conto del Centro Nazionale delle Ricerche. In atto scrive per il quotidiano Gazzetta del Sud. É collaboratore dell'ANSA e si interessa di critica letteraria e d'arte. Ha firmato la prefazione di varie sillogi poetiche e suoi scritti critici sono inseriti in diverse enciclopedie di arte contemporanea. Il 9 agosto 1985, a Benestare, in occasione del "Primo festival delle tradizioni popolari" gli è stato assegnato un artistico trofeo per una serie di articoli sulle tradizioni natalizie in Calabria, pubblicati sulla terza pagina della "Gazzetta del Sud". Il 28 ottobre 2006 è stato insignito del “Premio Calabria”, sezione saggistica, per il volume “Il Cinquecentesco Trittico marmoreo della chiesa parrocchiale di Galatro”.
Il riconoscimento dato a Umberto Di Stilo con il “XXIV° Premio Giuseppe Calogero 2011”, senza nulla togliere alle edizioni precedenti, rende evidente un aspetto basilare delle fatiche letterarie del Di Stilo: la sua intrinseca vocazione a esplorare panorami socio-culturali straordinariamente vasti e sfaccettati.
Ritengo che sia proprio questa sua ‘ampia visione' degli scenari del mondo che, da Galatro, lo porta ad appropriarsi dei grandi temi di attualità inquadrati in una molto ampia e complessa prospettiva letteraria, che oggi con questo premio si vuole mettere in risalto: è un'ampia visione che si è fatta elemento chiave di tutto il suo scrivere e che ha condotto il Di Stilo ad includervi ogni forma letteraria: dal romanzo alla saggistica, dalla ricerca storica alla linguistica.
A testimonianza di tutto questo basta citare alcune tra le sue opere più importanti, come: Il mio Natale, Racconti, Un prete nel mirino, Mella è Mamerto?, Il Cinquecentesco Trittico marmoreo, La Divina Commedia in dialetto calabrese, Arti mestieri e professioni, Il tempo, I vizi capitali, Le stagioni della Vita, ‘U ventu sparti, Vocabolario del dialetto di Galatro, Il culto della Madonna del Carmine a Galatro.
In questo panorama così variegato di importanti opere letterarie, non è certo una sorpresa l'attribuzione, quest'anno, del Premio Calogero a Umberto Di Stilo, che con la sua penna ha saputo raccontare di Galatro e della Calabria e testimoniarne il genio creativo.
E questo, soprattutto per noi galatresi, dovrà essere anche un motivo di riflessione, perché rappresenta la lucida testimonianza del contributo dato dalla nostra piccola Galatro alla cultura italiana, proprio oggi che, da più parti, si sottolinea che la vera unità del Paese, prima che politica, si è avuta nell'arte, nella letteratura, nella cultura, attraverso quegli Autori che, come Umberto Di Stilo, con i loro scritti, hanno reso gli italiani unici nel mondo.


Nelle foto: in alto Umberto Di Stilo dopo aver ricevuto il premio dall'on. Natino Aloi; in basso la pergamena con la motivazione del premio.


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(24.12.11) IL PRESEPE DEL SACRISTA NELLA CHIESA DI SAN NICOLA (Nicola Pettinato) - Dal lontano 1223, quando S. Francesco d’Assisi realizzò a Greccio la prima rappresentazione della natività, il presepe è legato inscindibilmente all’atmosfera natalizia, un’atmosfera lontana mille miglia da ciò che il senso comune vorrebbe far credere che sia; il Natale non c’entra nulla con i festival del consumismo a base di doni, spesso inutili, e di divertimento fine a se stesso.
Nonostante il tentativo di colonizzazione culturale da parte dell’albero di Natale, estraneo alla nostra cultura e alle nostre tradizioni, il presepe ha “resistito”. Seppur tra alti e bassi, ultimamente sembra aver recuperato parte del terreno perduto in passato e anche le nuove generazioni, cresciute a “pane e internet”, sembrano riscoprire un elemento come il presepe che affonda la propria ragion d’essere nel messaggio di redenzione e salvezza di cui il Salvatore è incarnazione.
Una parte del merito, almeno a Galatro, spetta al sacrista Peppino Trimboli il quale, fin dal suo ritorno dall’Argentina dopo una lunga esperienza da emigrato, da circa un decennio allestisce il presepe nella chiesa di San Nicola; i materiali e la scenografia sono strettamente correlati al luogo in cui viviamo: non mancano i fiumi, i monti, il muschio, la sabbia e i ciottoli tipici della nostra valle.
La scena è dominata dalla capanna che ospiterà il “Bambinello”. La fantasia di Trimboli ha concepito, a dire il vero, una via di mezzo tra una capanna e una grotta aggiungendo così un tocco di originalità grazie soprattutto alle decine di sassolini pazientemente incastonati lungo tutta la struttura.
Naturalmente ciò che conta non è tanto l’aspetto estetico, seppur ragguardevole, quanto piuttosto il messaggio che vuol essere veicolato attraverso il presepe. Memoria, cultura, tradizione, sacralità in un mix che se interpretato nella giusta maniera non può che porre le basi sulle quali costruire una società sana e forte.

















Nelle foto: il presepe nella chiesa di San Nicola 2011 e il suo realizzatore, il sacrista Peppino Trimboli.


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(27.12.11) NICOLA SERGIO SULLA RIVISTA "MUSICA JAZZ" - Vi proponiamo un lungo articolo a firma Luca Civelli, apparso da poco sulla nota rivista Musica Jazz, dedicato al pianista Nicola Sergio, pilastro sempre più saldo del panorama jazz europeo.
Il musicista galatrese sarà impegnato in concerto dalle nostre parti Mercoledì 28 Dicembre a Capocolonna (Crotone).

Visualizza l'
articolo sulla rivista Musica Jazz


Nicola Sergio


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(27.12.11) LA SETTIMANA ENIGMISTICA DEDICA UN CRUCIVERBA A GALATRO - La più famosa e antica rivista italiana di giochi ed enigmi, La Settimana Enigmistica, fondata nel lontano 1932 da un personaggio dal nome lungo e titolato, il Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini di Sennori, Conte di Sant'Andrea, dedica un cruciverba a Galatro.
La rivista è oggi diretta da Francesco Baggi Sisini, nipote del fondatore, e il gioco di parole crociate dedicato a Galatro fa parte della rubrica settimanale denominata "Una gita a...".
Il gioco contiene diverse foto raffiguranti vari luoghi del nostro paese e sarà in edicola fra poche settimane. L'uscita del cruciverba è prevista infatti nel n. 4168 della rivista che avrà come data di pubblicazione Sabato 11 Febbraio 2012.
Sicuramente tanti dei nostri lettori acquistano abitualmente o saltuariamente La Settimana Enigmistica. Stavolta è proprio il caso di non lasciarsi sfuggire questo numero che contiene il cruciverba su Galatro.
Lo ricorderemo comunque a tutti nuovamente sul nostro giornale ai primi di Febbraio.



Una copertina de "La Settimana Enigmistica"


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