(15.3.14) NUOVE TELE SU GALATRO DEL PITTORE FRANCO CAMILLO' (Massimo Distilo) - Molti ricorderanno il quadro su Galatro visto da un'angolazione inconsueta, realizzato dal pittore Franco Camillò. Abbiamo dedicato tempo fa un articolo a questo quotato pittore di origine polistenese che espone con successo in importanti gallerie di tutta Italia. Il suo quadro su Galatro lo abbiamo anche inserito di recente in un articolo che trattava della primavera culturale galatrese degli ultimi anni.
Franco Camillò ha realizzato altre due tele su Galatro che hanno stavolta come soggetto alcuni dei nostri numerosi corsi d'acqua. Egli afferma che Galatro è capace di ispirarlo copiosamente ed ha in mente di dipingere ancora altri quadri che hanno come tema il nostro caratteristico paese.
Vi proponiamo quindi altre due tele di Camillò su Galatro che hanno come titoli: "Ruscello nei pressi delle vecchie terme di Galatro" e "Galatro: torrente visto dal ponticello".
Ruscello nei pressi delle vecchie terme di Galatro
Galatro: torrente visto dal ponticello
Ciò che colpisce in questi due quadri, oltre alla familiarità dei luoghi per chi ci è nato e vissuto, è la pregnanza dei colori e il gioco delle tonalità capaci di creare un'atmosfera intima e amichevole che conduce ad un sereno raccoglimento interiore, pur nella rappresentazione di luoghi aperti e di una natura quasi incontaminata. Ciò che il pittore, attraverso le sue forme, riesce a far percepire in maniera immediata è un grande senso di vicinanza all'intima natura dell'arte che, come accade in tutte le sue espressioni più autentiche, è indicibile e può essere colta solo da una profonda illuminazione interiore che la tela riesce a suscitare.
Come scrive Vincenzo Fusco, fra i colori di Camillò prevale il verde «così difficile e infido a trattarsi», attenuato dalla presenza del giallo e dell'azzurro, i tre colori che costituiscono il cuore del paesaggio mediterraneo cui il pittore in prevalenza si ispira e che fanno trasparire la sua discendenza artistica dai grandi Antonio Cannata (1895-1960) e Giuseppe Pesa (1928-2000). E' quanto mai vero quanto affermato a suo tempo da un altro critico, Pio Valente, il quale sosteneva che Camillò «traduce sulla tavolozza i racconti di Corrado Alvaro».
Camillò ha un originale stile figurativo evolutosi nel tempo e che, pur prendendo le mosse dall'antica tradizione dei "macchiaioli" napoletani della Scuola di Posillipo, ha raggiunto una sua personale e inconfondibile definizione. Osservando i suoi quadri ci si immerge nelle più intense atmosfere mediterranee, filtrate però dall'occhio e dal tocco trasfiguratore dell'artista che ce le mostra in luci ed ombre inconsuete. «Le ombre - dice Camillò - nascondono una realtà deturpata e manipolata dall'essere umano, a dispetto di una luce che, comunque, accende i nostri stessi sogni intrisi di ricordi.»
Franco Camillò ha esposto i suoi quadri in tutta Italia. Possiamo citare le sue mostre personali di Bologna (1976), Maglie (1977-78-80), Casarano (1979), Polistena (1981-82-85-89-91-96-2001-03-11), Gioia Tauro (1981), Palmi (1982-88), Palermo (1982), Vibo Valentia (1984), Roma (1986-97), Reggio Calabria (1987-91-2000), Genova (1993-2004), Milano (1997-98-99-2006), Camogli (2005-07), Novara (2007), Verona (2009).
Espone inoltre in permanenza presso la Galleria d'Arte "Serraino" di Reggio Calabria e la Galleria d'Arte "Ars Italica" di Milano.
Numerosi i critici che di lui si sono occupati: Antonio Floccari, Onofrio Brindisi, Angelo Lo Faro, Pio Valente, Vincenzo Fusco, Mario Sergio, Ferdinando Sergio, Fortunato Valenzise, Maria Froncillo Nicosia, Carlo Franza, Grazia Tardiolo, Siro Brondoni.
Aspettiamo dunque di ammirare le prossime tele ispirate a Galatro di Franco Camillò, pittore che illumina con la sua arte la nostra terra.
In basso altri due quadri di Franco Camillò.
Scilla, la Chianalea
Le pignate
Franco Camillò ha il suo studio a Polistena in Via Pizzurro 4 - Tel. 0966.931892
Rocco Cosentino è un magistrato che fa lo scrittore; uno scrittore ancora magistrato o un magistrato-scrittore, nel senso che nessuna delle due qualità è dissociabile dall’altra?
Ovviamente io sono e sarò sempre un magistrato. La scrittura è soltanto quella passione che mi consente di godere di alcuni momenti di “evasione”. Non nego, comunque, che il mio bagaglio di esperienze professionali, accumulate in oltre quattordici anni di servizio nella magistratura, sia stato una fonte inesauribile di “vita vissuta”, dalla quale ho attinto a piene mani per ispirarmi durante l’elaborazione dei miei romanzi.
Una delle cose che in "Succede tutto per caso" fanno più riflettere è la critica di un certo modo essenzialmente mediatico d’essere magistrato. In un mondo in cui il magistrato non può essere solo la “bocca della legge”, avulso da una società piena di conflitti, quale pensi che sia, concretamente, il miglior modo e nel contempo il più efficace, di contemperare i due aspetti: il formalismo della legge e la urticante realtà (penso al caso dell’Ilva di Taranto e all’impatto sociale ed economico dell’azione giudiziaria)?
Io sono dell’opinione che il magistrato debba comunicare con la società soltanto attraverso i suoi provvedimenti, tuttavia, allo stesso tempo, è ovvio che non possa chiudersi tra quattro mura e vivere una realtà diversa da quella che lo circonda e che è chiamato a giudicare. Per quanto mi riguarda, cerco di interagire con il mondo esterno attraverso le mie creazioni letterarie, ottimo strumento per manifestare liberamente il mio pensiero e divulgarlo a una cerchia quanto più possibile ampia di persone.
Tirrenia e Solaria in "Niente di cui pentirsi" e Bellaria in "Succede tutto per caso" sono cittadine di provincia che somigliano alle cittadine di provincia del Sud nelle quali hai sempre vissuto e lavorato. Hai mai pensato di raccontare qualcosa di diverso e distante dalla realtà meridionale che ti è familiare, di scrivere un noir con una diversa ambientazione?
In via del tutto eccezionale, posso anticipare che la mia prossima opera non sarà ambientata in luoghi di fantasia ma in due città realmente esistenti, una del Nord e l’altra del Sud. Un romanzo storico che in parte si discosterà dai predecenti e che mi ha comportato un notevole impegno nel descrivere luoghi e costumi distanti centinaia di chilometri dalla reltà nella quale ho sempre vissuto.
Nei due romanzi c’è una non poi tanto sottesa critica alla borghesia degli affari loschi e alla piccola borghesia complice. Quanto pensi che possa contribuire la cultura della legalità che ci sforziamo di diffondere nelle scuole a far sì che si diradino certi atteggiamenti ammiccanti all’illegalità che fanno parte del nostro modo d’essere, della nostra cultura profonda?
Non è un caso se nei miei romanzi non faccio mai riferimento al “male” rappresentato dalle organizzazioni criminali presenti nel territorio. Sarebbe stato riduttivo per me descrivere soltanto un aspetto del problema, ben consapevole che le vere radici dei mille problemi che affliggono la nostra società debbano essere ricercate tra i gangli delle istituzioni, vere “zone franche” in cui tutto sembra lecito e in cui le cosiddette “persone perbene” spesso commettono crimini inenarrabili.
Qual è la funzione del romanzo noir? Divertire terrorizzando, rappresentare il male per rendercene avvertiti, indurci la rassegnazione sul fatto che è inestirpabile e per combatterlo non c’è che altro male o tutte queste cose insieme?
Ho scelto di dare sostanza alle mie elucubrazioni mentali attraverso il genere noir, sol perché esso è l’unico che consente all’autore di non scendere a compromessi con le esigenze prettamente commerciali del mercato editoriale. In sostanza, attraverso una rappresentazione paradossale e fortemente provocatoria della realtà che ci circonda, utilizzando questo genere lettario ho cercato di ammonire i miei lettori sui rischi ai quali la nostra società andrà incontro se ognuno di noi non acquisirà al più presto la consapevolezza che, per eliminare il marcio, la prima cosa che deve fare è un serio esame di coscienza sul male che a volte alberga dentro di noi… proprio quello più difficile da scovare e quindi sconfiggere.
Che rapporto hai con le cose che scrivi? Di piena immedesimazione, di ironico distacco, di “postuma” indifferenza?
Molti hanno rinvenuto nei miei romanzi chiari riferimenti autobiografici, io però ho sempre sostenuto che, al limite, si può parlare di un’autobiografia delle emozioni e dei sentimenti, che hanno trovato il loro sbocco naturale nella forma e nella sostanza dei protagonisti delle mie opere.
Nella foto: lo scrittore Rocco Cosentino col suo secondo libro.
(12.4.14) DOVEROSA PUNTUALIZZAZIONE SUL MIRACOLO DI SAN FRANCESCO A GALATRO (Umberto Di Stilo) - Per una mia particolare forma mentis sono portato a evitare – anzi a rifuggire – le polemiche. Solitamente lascio scivolare le provocazioni come acqua piovana sulla seta di un ombrello.
Questa volta, però, sono stato tirato dai capelli (si fa per dire, vista la mia accentuata calvizie!) e, rispondo con il solo intento di precisare e sottolineare alcuni aspetti che mi stanno a cuore come cultore delle tradizioni e della storia galatrese e, soprattutto, come cittadino che vuol fare onore alle sue radici.
Nessuno prevedeva che un pellegrinaggio, voluto e organizzato dalla parrocchia per i fedeli locali con il preciso intento di solennizzare il 550° anniversario del passaggio di San Francesco dal territorio galatrese e per ricordare il miracolo che ha operato in quella circostanza, potesse suscitare una reazione così rabbiosa da parte di una singola persona che, in nome di una non meglio circostanziata (e non meglio circostanziabile) verità storica, contesta la motivazione di base che ha determinato quel percorso penitenziale: contesta che il miracolo del pane è stato operato in territorio galatrese.
Fatta questa doverosa premessa vengo ai fatti.
La Gazzetta del Sud dello scorso venerdì 4 aprile, a pag. 32 (edizione prov. RC) riportava la notizia (a caratteri di scatola) secondo la quale “Laureana e Galatro si contendono il miracolo”.
A parte il fatto che Laureana nella “fantasiosa” contesa c’entra come cavolo a merenda, la corrispondenza di Michelangelo Monea è tutta incentrata su una dichiarazione dello “studioso della vita dei santi” Ferdinando Mamone, che è tutta contro la localizzazione in territorio galatrese del miracolo del pane di San Francesco.
La polemica, a livello verbale, non è nuova. Anzi è tanto vecchia che ormai sa di stantìo. Ha avuto origine nel 1987 all’indomani della pubblicazione del mio volume “Racconti”, all’interno del quale ho fatto anche la ricostruzione del miracolo del pane caldo di San Francesco.
Il racconto di questo prodigioso evento, sulla fedele scorta della memoria locale, l’ho ambientato in territorio galatrese. Tutto ciò non è piaciuto all’amico Nando Mamone che l’ha ritenuto reato di lesa maestà al suo territorio comunale (Candidoni) o, più in generale, a quello dell’antica Borrello.
E’ assai strano, però, che prima della pubblicazione del mio racconto, nessuno – tantomeno l’amico Mamone - si fosse sognato di localizzare il miracolo in una precisa zona dell’antica Borrello o, peggio, di contestare la localizzazione a Galatro ed al suo territorio. Perché è da secoli che a Galatro, e tra i fedeli locali, si tramanda – e, quindi, tutti ne sono a conoscenza - che il miracolo del pane è stato compiuto in quella località collinare che, sin dal secolo XVI, porta il nome del Santo di Paola e che è ubicata lungo quell’unico viottolo che all’epoca del miracolo (1° aprile 1464) collegava i paesi dell’opposto versante con quelli della Piana di Terranova. Tale tradizione non è nata dallo spirito campanilistico suggerito dal “Cicero pro domo mea” di qualcuno, ma dalla conoscenza dei fatti che, tramandati nel corso dei secoli da padre in figlio, nella loro semplicità sono giunti fino a noi. Conoscenza dei fatti che affonda le sue radici nella tradizione che è stata sempre accompagnata dalla profonda Fede popolare che non conosce campanili e che, proprio per questo, nella sua genuinità è sicuramente più credibile di quanto si vorrebbe accampare oggi per disconoscerla.
La tradizione (dal lat. tràdere = consegnare, trasmettere), come ben sa Nando Mamone, altro non è se non la “trasmissione nel tempo, da una generazione a quelle successive, di memorie, notizie, testimonianze”, (Treccani) trasmissione di “un patrimonio culturale” (Sabatini Coletti) ma, anche, “consegna di un bene da parte di un soggetto ad altri”. Patrimonio culturale e consegna di un bene, dunque. Questo, e nient’altro, nel corso dei secoli, per tutti i fedeli galatresi è stata la memoria storica che sul miracolo del pane e sulla sua localizzazione è stata loro tramandata dai progenitori, e che – così com’era giusto che fosse – è entrata a far parte della tradizione storica e religiosa di Galatro. Tradizione storica che, nessuno mai, con polemiche sterili potrà cancellare per puro spirito campanilistico.
Il motivo per il quale nel mio racconto ho scritto che il prodigioso evento si è verificato in territorio di Galatro, e più precisamente nella contrada limitrofa a quella di “Celano” è almeno duplice. Primo: perché alla tradizione orale di cui ho già detto, bisogna aggiungere il secentesco affresco che, proprio a ricordo del miracolo, sulla parete esterna di un vecchio casolare adibito a palmento, da secoli riproduce le sembianze del Santo; Secondo: perchè bisogna aggiungere – fatto storicamente importantissimo - la toponomastica del luogo. La località San Francesco, infatti, è di ridotta estensione ed essa, proprio per ricordare il passaggio ed il miracolo del Santo, è stata ricavata ritagliando un po’ di territorio alle contrade circostanti: Celano, Torre, Feudo, Feudotto, ecc.
Nome della contrada ed affresco sono testimonianze della devozione popolare dei galatresi. E’ indiscutibile, però, che nel caso specifico esse vadano viste ed interpretate come precisa volontà dei galatresi dei secoli passati di ricorrere a quelle due semplici attestazioni per ricordare alle future generazioni il luogo ove il Santo di Paola ha compiuto il miracolo del pane.
Ho già avuto modo di dire in altre occasioni all’amico Mamone (e lo ribadisco in questa sede) che il testimone che riferisce del miracolo al processo per la canonizzazione di San Francesco non dichiara che a Borrello il Santo compì il miracolo ma che “al passo di Borrello” gli operai di Arena raggiunsero i tre frati. Il miracolo è successivo all’incontro. Forse di pochi minuti, forse di qualche ora: il tempo dovuto perché tra i due gruppi si creasse la confidenziale atmosfera necessaria perché il Santo chiedesse allo sconosciuto di mettere a disposizione di tutti il contenuto della sua bisaccia.
E’ il caso di ricordare che i frati e gli operai erano partiti all’alba da luoghi diversi. I primi da una casa di campagna posta nel territorio di Jonadi nella quale avevano trascorso la notte. Da lì, all’alba, avevano ripreso il viaggio verso Catona da dove sapevano di potersi imbarcare per attraversare lo Stretto, raggiungere la dirimpettaia Sicilia e, quindi, la cittadina di Milazzo ove erano attesi per la fondazione di un nuovo convento. Gli operai, invece, sin dalle prime ore del mattino avevano lasciato le loro dimore di Arena per mettersi in viaggio verso la Piana di Terranova ove speravano di trovare lavoro.
I due gruppi, pertanto, dopo aver camminato per alcune ore su viottoli e sentieri diversi, si sono ritrovati su quella stessa strada che, dopo aver varcato il territorio dell’antica Borrello e quello limitrofo di Galatro, prendeva la direzione della vasta piana di Terranova, e ancora oltre, quella dei paesi posti sul litorale reggino.
Pur ritenendo esatta la testimonianza del miracolo come fatto soprannaturale operato dal Taumaturgo di Paola durante il suo viaggio verso Catona, è opportuno tenere presente che il testimone riferisce ciò che ricorda di aver sentito raccontare dal padre quando era ancora bambino. Molto probabilmente il racconto del padre era stato ricco di dettagli, ma il testimone ricorda solo il nome del passo di Borrello. Chi può avere la certezza che nel racconto del padre – che era stato diretto testimone del miracolo - non ci fossero stati altri particolari, magari sul percorso fatto dagli operai insieme ai frati e sul luogo e l’ora in cui san Francesco ha operato il prodigio? Interrogativi legittimi alla luce della genericità dell’indicazione del testimone e alla tradizione secondo la quale il miracolo sarebbe stato operato in territorio galatrese e, quindi, quando era già stato superato il “passo di Borrello”.
Non ci sono altri riferimenti “probanti” che possano provare il contrario. Né vale tirare in ballo – come fa Mamone – quanto scrive P. Roberti nella biografia del Santo. A sostegno della sua tesi e “per amore di verità storica” l’amico candidonese asserisce che nell’opera del Roberti non viene citato né Galatro né alcuna sua località come “teatro” del miracolo. Vero. Verissimo. Ma va anche detto, con estrema onestà intellettuale, che non cita neppure la contrada Litrò nella quale, invece, vorrebbe localizzarlo lui.
Fino a prova contraria, allora, è completamente priva di fondamento storico anche l’asserzione di Mamone secondo la quale nelle “fonti storicamente accreditate” è scritto che il miracolo “è avvenuto esattamente nella sottostante contrada Litrò, nella valle del Mesima, il corso d’acqua che indicava la via del mare”. Dove sono le “fonti storicamente accreditate” in cui si può leggere quanto asserito dallo studioso di Candidoni? Vorrei poterle consultare anch’io. Quanto meno per conoscere – se c’è – la “verità storica”.
All’amico Mamone fa onore il suo sviscerato amore per la terra d’origine, ma la sua localizzazione del miracolo è frutto di pura fantasia perché, contrariamente a quanto asserisce, nessun’altra località oltre a quella del “passo di Borrello” viene citata dal Roberti. (A proposito: vogliamo localizzare con esattezza il “passo di Borrello“? Forse non ci perderemmo in molte ricostruzioni avventate!).
Né le località a cui fa riferimento nella sua contestazione Nando Mamone vengono citate dagli altri numerosi biografi di San Francesco: da Isidoro Toscano, 1648 a Giuseppe Perrimezzi, 1707; da Bois-Aubry, 1856 a F. Capponi, 1925; da Alfredo Bellantonio, 1962, fino al più recente Pietro Addante, 1988.
Ciò perché tutti i biografi – e sottolineo tutti – siano essi italiani o francesi riportano la scarna dichiarazione resa dal religioso Don Bernardino al processo per la canonizzazione del nostro Santo. Questo testimone ha dichiarato che san Francesco il “pane caldo” lo fece trovare nella bisaccia di suo padre Nicola del quale, però, i biografi non concordano neppure sul cognome. Tutto ciò perchè - come sostiene saggiamente Marcello Donini – trattandosi dei protagonisti di fatti che risalgono a più di cinque secoli fa, sono difficilmente certificati e documentati e spesso sono tratteggiati solo sulla scia dei racconti orali.
Ed allora, senza aggrapparsi agli specchi; senza fantasiose ricostruzioni, fermo restando che l’unico ed il solo documento sull’episodio “contestato” è, e resta, la testimonianza di Don Bernardino, perché accanirsi a confutare la documentata tradizione secondo la quale il miracolo del pane San Francesco lo ha compiuto in territorio galatrese?
Concludendo il suo articolo, Michelangelo Monea, suggeriva che al fine di stabilire dove il Santo di Paola ha “veramente” operato il miracolo, venissero chiamati a giudici imparziali i minimi di Paola. Il suggerimento arriva con qualche lustro di ritardo. Il Padre Correttore Generale ed un suo collaboratore, infatti, con le carte topografiche in mano, hanno già effettuato un accurato sopralluogo sul sito galatrese ed hanno concluso che è assai credibile che il prodigio di san Francesco abbia avuto come palcoscenico naturale proprio quella contrada. Hanno anche aggiunto che in considerazione che la secolare tradizione locale lo assegna a questo territorio nessuno, con assoluta certezza, potrà mai dimostrare che non sia vero.
Una cosa, comunque, è certa: i fedeli galatresi non hanno intenzione di avviare una “santa” crociata per dimostrare che San Francesco ha operato il miracolo nel loro territorio, là dove da secoli c’è affrescata la sua immagine. Sanno – per secolare tradizione e conseguente radicata devozione – che durante il suo viaggio verso Catona, proprio nel loro territorio collinare, operò il miracolo.
E’ quanto basta per continuare a frequentare il luogo in cui da sempre si tramanda che è stato operato il prodigio, accendere un cero, portare un fiore di campo, raccogliersi in preghiera davanti al secentesco affresco e, perché no?, di tanto in tanto salire in pellegrinaggio col loro parroco e lì devotamente partecipare al sacrificio della messa.
I fronzoli ed i pennacchi li lasciano volentieri agli altri.
Nelle foto, dall'alto in basso: Umberto Di Stilo; l'affresco secentesco di San Francesco; un momento della messa.
Verso le undici, dopo la cerimonia in chiesa, lunga per le prediche, si andava in processione al calvario.
Il prete indossava solo la talare nera, con il “tre pizzi”2 in testa e i chierichetti vestivano la “tonga”3, senza “cotta”4.
Si portava, come ancora, la “varetta”5 per riporci il Cristo, dopo la “schiovata”6 e la Madonna Addolorata, sempre presente in tutte le cerimonie di Venerdì Santo. Poi c’erano i “misteri”7: la mano, la scala, la colonna… il prestigioso gallo. Seguiva un lungo corteo di uomini e donne, tutto il paese. E la Fratellanza8.
Ma l’attenzione si concentrava su un uomo, vestito di rosso, scalzo, con una corona di spine in testa ed una grossa croce sulle spalle. Apriva il corteo. Camminava curvo, con passo stanco, pesante, mentre un altro, dietro, lo teneva legato ad una corda e appesantiva con gesti cadenzati la croce.
Un quadro rimasto nella memoria, ormai matura, di Galatro: scomparso, cancellato nel cerimoniale moderno. Oggi si preferisce una fede “intellettuale”, senza scenografie da Medioevo.
Eppure mastro Peppino Cordiani (questo il nome di chi impersonava Cristo e ricordato da qualcuno come “mercante ebreo!”) alla processione del Venerdì Santo, partecipava con fede. Si preparava la corona di spine vere e non c’era verso, quel giorno, di fargli mangiare qualcosa. Era un giorno tutto santo e lui avrebbe indossato la clamide dello scherno, come Cristo di Galilea. Un anno ci andò con la febbre addosso. Allora le strade non conoscevano l’asfalto: pietre e pozzanghere. Mastro Peppino, magro, sotto la croce, seguito da Salvatore Romeo, andava verso il calvario. C’era chi, al suo passaggio, si segnava, come fanno i cristiani. Né uno sguardo intorno, né una parola. Dal corteo veniva il canto triste della penitenza.
Sono passati molti anni dall’ultima volta. Eppure, puntualmente, ogni anno, lo stesso giorno, qualcuno ricorda quell’esile figura quasi con rimpianto. “Una volta era più bello”… Una volta, quando tutto l’uomo, intelletto e materia, ragione e passione, cristiano dentro e fuori, partecipava ai misteri della fede.
Pensieri su “Santu Vennari” di Carmelo Cordiani
Michele Scozzarra
La minuziosa descrizione del “quadro rimasto nella memoria, ormai matura, di Galatro: scomparso, cancellato dal cerimoniale moderno”, rivissuto nell’articolo “Santu Vennari” di Carmelo Cordiani, viene a riempire di contenuto, almeno per me, “l’immagine” che avevo davanti agli occhi da diversi anni e che, in qualche occasione, ho anche pubblicato a corredo di qualche mio articolo.
Non ho mai evitato di scrivere come, oggi, appare sempre più chiaro come ci troviamo inseriti in un contesto culturale “critico”, in cui si rischia di perdere, insieme ai segni, anche il contenuto che essi trasmettono: occorre ricomprendere, alla luce della fede, tali segni per conservarne il significato… e anche le fotografie rappresentano un’espressione culturale importante, in quanto racchiudono il “cuore” dei momenti più significativi della vita di una comunità, facendo sopravvivere nelle immagini, ciò che il tempo, inesorabilmente, va a distruggere: come l’immagine di “mastro Peppino, magro, sotto la croce, seguito da Salvatore Romeo, andava verso il Calvario. C’era chi, al suo passaggio, si segnava, come fanno i cristiani”.
In “Santu Vennari”, con la foto che fa da cornice, è rappresentata tutta una umanità, da sempre presente nel popolo cristiano, che testimonia il significato di una vita segnata dalla fede, ed il voler conservare e trasmettere, la conoscenza dei riti cristiani, nella consapevolezza che le radici della nostra civiltà, e della nostra umanità, sono largamente segnate dalla fede, vuol dire promuovere una cultura compiutamente umana, che negli anni passati ha sviluppato, infatti, nelle nostre strade, delle vicende affascinanti legate al grande patrimonio di cultura cristiana, presente nella semplicità della fede dei galatresi… un tempo sicuramente più di oggi.
Tempo addietro sono stato invitato a guidare un percorso per le vie del nostro paese, nell’ambito di una serie di incontri chiamati “sentieri di carta”. Sono intervenuto prendendo le distanze proprio dal titolo che hanno voluto dare agli incontri: non “sentieri di carta” ho detto (facendo scorrere più di 500 immagini di Galatro oggi e come era negli anni), ma sentieri di fede, di vita, di storie vive dove, in un giorno particolare, “l’attenzione si concentrava su un uomo, vestito di rosso, scalzo, con una corona di spine in testa ed una grossa croce sulle spalle. Apriva il corteo. Camminava curvo, con passo stanco, pesante, mentre un altro, dietro, lo teneva legato ad una corda e appesantiva con gesti cadenzati la croce”…
Storie come questa descritta in “Santu Vennari” da Carmelo Cordiani, che hanno sviluppato nel nostro paese, dei momenti molto intensi di una Galatro così come era molti anni fa: storie e immagini che ricordano, raccontano, e fermano con un gusto dolce-amaro, dei momenti molto belli della comunità galatrese e, ancora oggi, riescono a trasmettere un fascino di fronte al quale non si può restare indifferenti; perché si ha davanti la testimonianza di una umanità schietta e semplice, essenziale e vera e, non è solo per modo di dire che si afferma: “Una volta era più bello!”
E poi in “Santu Vennari” mi piace vedere come “il figlio non dimentica”: come nel trascorrere degli anni, ci vengono innanzi e, soprattutto dentro la coscienza e dentro il cuore, i giorni di ricorrenze che il volgere del tempo non riesce a scalfire, per cui siamo indotti a fermarci, a meditare su quale sia il senso di questa “vivida memoria”.
Per questo penso che nella memoria dei nostri cari risiede il nostro vero diritto ad esistere: il nostro presente presuppone, inevitabilmente, riconoscere ciò che c’è dietro di noi: i nostri affetti più cari che ci portiamo nel cuore e che spesso la morte contribuisce a renderli più vivi e presenti di quando erano in vita, perché formano il centro della nostra memoria.
Anche se sono passati molti anni dall’ultima volta che si è stati insieme…
P. S. - “Ti ringrazio per la riflessione su Santu Vennari che ti avevo chiesto”. Sono queste le parole che il Direttore Carmelino Cordiani mi ha mandato dopo aver letto le mie considerazioni, sul suo pezzo “Santu Vennari” pubblicato nella settimana Santa del 2012, che oggi ripubblico in sua memoria, visto che da ottobre dell’anno scorso non è più in mezzo a noi.
Nelle foto: antiche immagini del "Santu Vennari" a Galatro.