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< lug-dic 14 Cultura 2015
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17.1.15 - La Maraini e l'amore rubato
Angelo Cannatà

3.2.15 - Una memoria da non perdere: la festa dei tre giri

Michele Scozzarra

6.2.15 - La scomparsa di Aldo Ciccolini, grande pianista


18.2.15 - E io me la portai al fiume credendo che fosse ragazza, e invece...

Pasquale Cannatà

13.3.15 - Lou Palanca, Blocco 52: una storia scomparsa, una città perduta

Domenico Distilo

16.3.15 - Un libro di poesie di Raffaella Barresi

Laura Gatto

27.3.15 - Primavera d'impegni per il pianista Nicola Sergio


16.3.15 - Un mondo per tutti

Biagio Cirillo

31.3.15 - Precisiamolo una volta per tutte: il poeta Giovanni Conia era di Galatro!

Umberto Di Stilo

1.4.15 - In merito all'intervento di Umberto Di Stilo su Conia

Michele Scozzarra

4.4.15 - Conia, Martino, gli "storici della domenica" e l'assessore alla cultura

Angelo Cannatà

14.4.15 - Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo

Domenico Distilo

18.4.15 - Tu Galatru ti chiami...

Biagio Cirillo

29.4.15 - Intervista a Don Gildo sul libro di Umberto Di Stilo

Michele Scozzarra

1.5.15 - La compagnia teatrale "Valle del Metramo" si affilia alla F.I.T.A.

Federica Crea

7.5.15 - A 37 anni dalla mia partenza da Galatro, due poesie nella crisi

Biagio Cirillo

8.5.15 - Max Formica, un rocker galatrese in USA con la sua band

30.6.15 - La trattatistica di Pitagora

Raffaele Mobilia





(17.1.15) LA MARAINI E L'AMORE RUBATO (Angelo Cannatà) - Roma. Sentirla parlare è un piacere dell’anima. Si muove tra ricordi d’infanzia, serate con Pasolini e Moravia, storie di violenza, con una naturalezza che affascina. E’ Leggera. E profonda. Come i suoi testi. “A Reggio a Napoli a Milano - ovunque - la confusione tra passione e possesso produce violenza.” Dacia Maraini parla da mezz’ora e il pubblico è sedotto dalle sue storie. Introduce i temi di fondo de “L’amore rubato”, Rizzoli. La violenza sulle donne. Il femminicidio. Risponde alle domande. L’aula è stracolma ma il brusio si dissolve subito appena inizia a parlare. C’è voglia di capire.
Il 2014 ha visto molte donne (troppe) vittime della violenza brutale degli uomini. Non è giusto - dice - ma non basta indignarsi. Bisogna capire perché certe cose accadono. Partono le domande del pubblico: “Nel racconto La notte della gelosia la protagonista, Angela, subisce violenza dal proprio uomo e osserva: ‘Con orrore mi sono chiesta se non fosse proprio a causa di quella violenza che lo cercavo, perché veniva a soddisfare un mio antico bisogno di punizione’…”. Tema complesso. La domanda chiama in causa la religione. Maraini: “l’argomento è legato alla ‘colpa’ che la Bibbia attribuisce a Eva, per aver mangiato la mela proibita. Responsabile della trasgressione, la donna avverte un bisogno di punizione. Sono tante le colpe della Chiesa, per l’immagine che la donna ha di sé e per quella che la società le attribuisce.”
Il libro si snoda attraverso otto racconti. Ognuno parte da un fatto di cronaca, che la scrittrice elabora in forma narrativa. Affascina Maraini. Tra i presenti molti hanno letto i testi ma vogliono sapere di più: “Il rapporto tra letteratura e psicanalisi è fondamentale (da Svevo a Moravia); in Anna e il Moro lei si chiede ‘perché una donna bella e intelligente si riduce ad essere complice del suo carnefice’...”. L’autrice risponde con Freud che tra carnefice e vittima, spesso, si stabilisce un rapporto di complicità, anche se involontaria. E’ una riflessione al confine tra narrativa e psicanalisi. Precisa. Coinvolgente. Da grande affabulatrice. I giovani, muti, ascoltano. Qualcuno prende appunti. Altri registrano col telefonino. Questa donna esile e tenace, fragile e fortissima, intellettuale engagé, invita a studiare a non farsi abbagliare dalle apparenze: “Ne La bambina Venezia, una madre responsabile cerca di convincere la figlia e il marito - racconta - “che la cosa più importante nella vita è imparare, sviluppare l’intelligenza, diventare robusti di mente.” “Dovevano sapere – dice – che la bellezza è una trappola ingorda, soprattutto per le ragazze.” Ma i modelli della televisione e della moda sono troppo forti. Questo dice il racconto. E Maraini: occorre studiare, attrezzarsi concettualmente per resistere ai paradigmi alienanti che l’industria culturale di massa impone.
Poi è la volta del tema più “sentito”, si avverte nell’aria un’attenzione diversa, intensa, mentre la domanda sullo stupro di gruppo viene presentata: “E’ un atto terribile contro la persona. Si colpisce a morte l’anima di una donna. Eppure, nel racconto Cronaca di una violenza di gruppo non c’è negli stupratori l’ombra del pentimento. Anzi. Ognuno prova a discolparsi. Nessuno è colpevole. Anche il preside nasconde la verità. E’ un aspetto doloroso. Che cos’è una Comunità dove a un delitto, uno stupro, non segue un castigo? In Dostoevskij lo studente Raskolnikov diventa, dopo il delitto, implacabile giudice di se stesso. Oggi, tra chi delinque, quanti sanno ancora cos’è la coscienza, il rimorso, il senso di colpa?” Più che una domanda è un atto d’accusa. Sulla società. Sul nostro tempo. Dacia Maraini raccoglie e rilancia.
Al centro del libro c’è, naturalmente, la visione distorta dell’amore. L’autrice: “E’ l’antica confusione tra passione e possesso. Troppi maschi si sentono ancora padroni della loro donna e, paradossalmente, l’aumento dei femminicidi è conseguenza dell’emancipazione femminile: il maschio impaurito e insicuro reagisce con violenza.”
Ci sarebbero, ovviamente, tante altre cose da dire: sulla doppia personalità di compagni e mariti in apparenza gentili ed educati che si trasformano in tiranni tra le mura domestiche; o sull’umiliazione che le donne subiscono quando denunciano una violenza: spesso non sono credute. Ma abbiamo detto l’essenziale di un incontro felice tra un’autrice, un libro, e centinaia di giovani che – dopo questa esperienza – guarderanno con più attenzione alle donne e alla letteratura che le racconta. “Un libro che non lascia traccia di sé, che non trasformi il lettore, non serve a nulla” (Sartre). “L’amore rubato” di Dacia Maraini è in linea col principio sartriano. Leggerlo è un po’ mutare se stessi.

Articolo apparso su “Il Fatto Quotidiano” del 31-12-2014

Nella foto: Dacia Maraini.


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(3.2.15) UNA MEMORIA DA NON PERDERE: LA FESTA DEI TRE GIRI (Michele Scozzarra) - Non si può non essere grati a Umberto di Stilo che, con i suoi molteplici articoli sulle grandi Tradizioni popolari e religiose dei nostri paesi, non smette di richiamarci a tanti importanti momenti che, soprattutto all’interno della Chiesa, ci hanno permesso di crescere con un giudizio “positivo” sulla vita di ognuno di noi all’interno delle nostre piccole comunità.
La festa di San Biagio a Plaesano, detta anche “la festa dei tre giri” si inserisce di buon grado in queste importanti tradizioni e Umberto di Stilo l’ha raccontata sulla Gazzetta del Sud nel 1982, e
nel 2012 è stata ripresa da Galatro Terme News. Nonostante questo, mi piace riportare, oggi, alcuni stralci dell’articolo che mi permettono di inserire una bella pagina di fede, all’interno di una realtà che oggi rischia di allontanarci sempre più dalle nostre radici: “Ci sono, specie nel Sud, diverse località e piccoli centri conosciuti solo ed esclusivamente per una loro fiera, per il loro santo protettore, per un pellegrinaggio, per un preciso avvenimento che caratterizza la loro stessa identità geografica. Sicché, nella Calabria reggina, Acquaro di Cosoleto è conosciuto per la festa di San Rocco, Terranova Sappo Minulio per l’annuale pellegrinaggio in onore del “SS. Crocifisso”, Polsi, in Aspromonte, per la sua Madonna della Montagna, ecc. Lo stesso discorso vale per Plaesano che da sempre si identifica con San Biagio, con il pellegrinaggio del tre febbraio e con le classiche ed immancabili “tre girate” attorno alla chiesa che costituiscono una delle più genuine e schiette tradizioni di fede della gente di Calabria”... il tre febbraio, allorché, da sempre, diventa “l’ombelico della Piana” tant’è che sin dalle prime ore del mattino, le strade che lo collegano agli altri centri della zona si popolano di pellegrini che vanno a sciogliere i loro voti ai piedi del Santo. Giungono dalla montagna, dalla pianura e dalla valle… I pellegrini ora arrivano in macchina, giacché solo quelli dei paesi vicini (Galatro, Feroleto, Laureana) riuniti in allegre e chiassose comitive, seguendo la secolare tradizione locale, raggiungono a piedi il piccolo centro”...
Umberto di Stilo ha la capacità di evidenziare, con molta chiarezza, l’aspetto storico, geografico e anche culturale-ecclesiale delle tradizioni che racconta e tramanda… anche se talvolta con un gusto dolce-amaro, perché a fronte della “bellezza” che emerge dal racconto di come sono stati vissuti dal popolo cristiano questi momenti, si contrappone un “conformismo a ciò che oggi il mondo vuole”, che presenta un’immagine di una realtà ecclesiale svigorita, conformata a quel diabolico andazzo “mondano” che cerca di ridurre l’avvenimento cristiano non più a una “storia di popolo” (anzi della fede di un popolo), ma a un pensiero interpretabile solo per un impegno morale con l’esaltazione di valori che, spesso, niente hanno a che fare con Gesù Cristo e la sua Chiesa e sono accettati, solo perché utili alla cultura oggi dominante.
L’invadenza della logica “del mondo” nella vita della Chiesa s’identifica “con la rinuncia a una testimonianza franca e coraggiosa del ruolo, anche pubblico, che il Cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e il bene della società nel pieno rispetto, anzi nella convinta promozione della libertà di tutti e di ciascuno”, come ha detto Giovanni Paolo II nel famoso discorso di Loreto, da tanti chiamato “Enciclica per l’Italia”.
Ritorniamo a Umberto di Stilo nel suo raccontarci la festa di san Biagio a Plaesano: “… Inoltre la festa di Plaesano è ancora conosciuta come la “festa dei tre giri”. Anche se l’origine di questo antico rito è piuttosto oscura, ancora oggi, ogni persona che si reca alla festa deve compierlo; deve girare tre volte intorno alla vecchia chiesa che ha la facciata rivolta verso la piazzetta ed è circondata da una viuzza stretta come un corridoio. Per tutto il giorno è un continuo girare di persone (e, una volta, anche di bestie; di intere mandrie, di armenti al gran completo); il giro non si deve mai interrompere. “E’ un girare uguale e lento come dell’asino legato alla stanga del pozzo, regolare come di un satellite intorno al suo pianeta”, scrisse Fortunato Seminara. Secondo una ben radicata tradizione, infatti, chiunque raggiunge Plaesano nel giorno della festa del Patrono e trascuri di compiere i tre giri, è da considerare come uno che manchi di rispetto al Santo…I giri devono essere tre perché nella simbologia cristiana il numero tre rappresenta la Trinità. Secondo alcuni studiosi, invece, i tre giri attorno alla chiesa sono da collegare alle tre apparizioni di Cristo a San Biagio, la notte precedente il suo arresto ed il suo martirio… Fra gli aspetti del culto di San Biagio, ricollegabili ad episodi della sua vita, il più importante è quello di taumaturgo per le malattie della gola che trae origine dal noto miracolo della spina di pesce e dalla orazione che il martire avrebbe fatto prima di morire, chiedendo a Dio di risanare da questa malattia chiunque l’avesse pregato in suo nome. A San Biagio viene anche attribuita la facoltà di guarire i mali di ventre”.
Come si fa, anche negli ambienti ecclesiali “ ritenuti più accreditati” a non percepire che non si può troncare l’albero sul quale siamo cresciuti, proprio perché quest’albero è stato il punto centrale della scoperta personale di Cristo, che tanti di noi hanno sperimentato, nella insostituibilità di questi gesti presentati sempre “missionari” negli ambienti nei quali siamo cresciuti e viviamo. Penso, e sono convinto sempre più, che la “persona” ritrova se stessa in un incontro vivo, in una presenza piena di storia e di attenzione verso il destino di ognuno… una presenza che non ti esclude, nonostante il peccato, ma ti dice: “Non avere paura… esiste quello di cui è fatto il tuo cuore; una presenza che corrisponde alla natura della tua vita e ricostituisce la vitalità del tuo essere “persona”… esattamente come l’incontro di Cristo con Zaccheo!”.
L’incontro con la Verità è sempre lo stesso, cambiano le modalità, ma l’essenza non cambia… così come per le tradizioni radicate nella Chiesa: “La processione è sempre la stessa, così come è lo stesso lo spirito che anima i fedeli che, numerosissimi, seguono la Statua lungo il suo girovagare per le viuzze del paese. Non c’è strada che non sia percorsa dal sacro corteo. Non c’è abitante di Plaesano a cui non sia data la possibilità di vedere sotto il suo balcone la statua del Santo di Sebaste… Nei pressi del sacro tempio i giovani e volenterosi portatori, osservano qualche minuto di riposo per sistemarsi bene sotto la vara. Quindi ripartono e quando la processione giunge nella piazzetta prospiciente la stessa chiesa, ad un segnale convenuto, i portatori, di corsa, fanno compiere alla statua del Santo i “tre giri” sullo stesso percorso e lungo la stessa viuzza dei pellegrini. Sono pochi minuti di confusione e di fervore indescrivibile. I fedeli, tenendo ben stretti i loro bambini si radunano nella piazza o si addossano ai muri delle case, mentre un complesso bandistico esegue una allegra marcia sinfonica. Tutti gli occhi sono rivolti allo sbocco della viuzza; nell’uscire da quella curva la statua sembra sbandare sulla destra, ondeggia, sembra che da un momento all’altro possa cadere… Ogni qualvolta la statua arriva davanti alla chiesa, i portatori, dimostrando grande abilità, tutti insieme accennano ad una genuflessione. E’ un attimo. San Biagio si piega in avanti verso il sacerdote e gli altri celebranti che, insieme ai fedeli, aspettano la conclusione dei tre giri. Poi riprende la corsa sulle spalle degli abili portatori. E i fedeli, sempre più pigiati tra di loro, trattengono il respiro e pregano. C’è chi si batte il petto coi pugni, chi stringe più forte a sé la propria creaturina, chi si limita a segnarsi devotamente. Sui volti di tutti si legge l’intima partecipazione al particolare momento di fede. Ultimati i tre giri, sia pur sfiniti, i giovani portatori riescono a trovare ancora le necessarie energie per gridare “Viva San Biagio” e per far scomparire la statua all’interno della chiesetta, passando tra la folla di fedeli con un rapido sobbalzo”.
Dalla lettura del lavoro di Umberto di Stilo esplode un grido “antico”, che viene da lontano, dai nostri antenati e da quanti hanno creduto a quanto di buono e vero esiste nei nostri paesi e ce lo hanno trasmesso, all’interno di una fede semplice ed essenziale. Questo “grido” dice che la Chiesa di Cristo non può conformarsi alla mentalità dei nostri tempi… non si può annullare la grande secolare tradizione dei nostri paesi, perché verrebbe meno la passione per comunicare l’Origine della vera umanità che ci contraddistingue, che è Gesù Cristo e ciò che proviene da Lui, in una incessante “memoria” che oggi, non solo per la lotta di chi è fuori della Chiesa, stiamo perdendo.
Se perdiamo l’interesse per la tradizione dei Santi che hanno segnato delle pagine di storia indimenticabili per i nostri paesi, corriamo il rischio di restare con una fede difficile e astratta che ci porterà ad avere chiese sontuose con liturgie spettacolari, ma vuote… che col passare del tempo diventeranno delle “pinacoteche o teatri” invece che luoghi di preghiera (in tanti posti lo sono già da adesso).
E questo, per il futuro dei nostri paesi, non è certo un bene…

Nelle foto: Michele Scozzarra, due momenti della processione di San Biagio a Plaesano e la statua del santo in chiesa.

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(6.2.15) LA SCOMPARSA DI ALDO CICCOLINI, GRANDE PIANISTA - Nella notte fra il 31 gennaio e il 1° febbraio è morto nella sua casa di Parigi, ad Asnière-sur-Seine, il grande pianista di origine italiana, naturalizzato francese, Aldo Ciccolini. Aveva 89 anni. Era nato a Napoli nel 1925 ed aveva iniziato i suoi studi nel conservatorio della città partenopea all'età di otto anni, grazie ad una speciale dispensa dell'allora direttore Francesco Cilea. Oltre a diplomarsi in pianoforte sotto la guida di Paolo Denza, aveva completato i suoi studi di composizione con il maestro Achille Longo, di origine calabrese, personaggio che era rimasto nella sua vita come un faro.
Nel 1949 aveva dato inizio alla sua carriera grazie alla vittoria a Parigi nel concorso pianistico "M. Long-J. Thibaud". Da quel momento si era trasferito nella capitale francese e la sua attività concertistica si era ampliata fino a suonare nelle più importanti sale da concerto e teatri di tutto il mondo. Solo per fare un esempio, nonostante l'età avanzata, lo scorso 21 gennaio si sarebbe dovuto esibire per l'ennesima volta alla Scala di Milano, ma le condizioni di salute non glielo hanno consentito.
Ciccolini aveva conseguito le massime onorificenze della Repubblica Francese, fra cui la Legion d'Onore, era Accademico di Santa Cecilia ed aveva ricevuto la Medaglia d'Oro all'Arte ed alla Cultura dal Presidente della Repubblica Italiana. Aveva conseguito una gran quantità di premi in tutto il mondo per la sua carriera e per le sue incisioni discografiche (sono centinaia solo quelle per la EMI) ed aveva suonato sotto la direzione dei maggiori direttori d'orchestra.
Aldo Ciccolini era un grande specialista della musica francese - Debussy, Satie, Ravel - ma anche un grande interprete dei romantici - Liszt, Chopin, Schubert, Schumann. Docente per molti anni al Conservatorio Nazionale Superiore di Parigi, aveva tenuto corsi di perfezionamento pianistico in tutto il mondo. Fra i suoi allievi figura il pianista galatrese Massimo Distilo che con lui ha studiato presso l'Accademia Internazionale di Biella, esibendosi anche a quattro mani con lo stesso maestro in un memorabile concerto svoltosi molti anni fa all'Auditorium di Polistena.
«Assieme a lui - afferma Distilo - scompare un pezzo di storia della musica. La sua figura ci collegava direttamente al periodo mitico della scuola napoletana del pianoforte e agli anni di Cilea. Ricordo che le sue lezioni, in quegli anni giovanili, contribuivano non solo alla crescita musicale ma anche, forse ancora di più, alla crescita umana di noi allievi. L'ho visto in concerto per l'ultima volta ad Avellino lo scorso luglio, quando eseguì, come al solito magistralmente, il quinto concerto di Saint-Saëns per pianoforte e orchestra. Il suo spirito era sempre lo stesso anche se gli acciacchi dell'età purtroppo non perdonano. Era stato diverse volte a Galatro a pranzo dai miei genitori coi quali era diventato amico. E' morto alla stessa età di mio padre e lo consideravo quasi come un secondo padre. Ciao Aldo.»
I funerali di Aldo Ciccolini hanno luogo a Parigi venerdì 6 febbraio, ore 14.30, presso la Chiesa de la Madeleine, la stessa dove si svolsero i funerali di Chopin.

Altri articoli sull'argomento:
Le Monde
La Repubblica


Nella foto: il pianista Aldo Ciccolini.

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(18.2.15) E IO ME LA PORTAI AL FIUME CREDENDO CHE FOSSE RAGAZZA, E INVECE... (Pasquale Cannatà) - Antonio Di Pietro direbbe “che c’azzecca Federico Garcia Lorca con Luigi Pirandello?”, perché è proprio di un brano del romanzo “Il fu Mattia Pascal” del grande autore siciliano che vorrei parlarvi in questo articolo, anche se il suo titolo riprende le parole di una poesia del poeta spagnolo. Ma siccome si tratta di un dialogo alla fine del quale si può arrivare ad una conclusione del tutto diversa da quello che ci si sarebbe aspettato date le premesse fatte, mi è venuta in mente "La sposa infedele", dove Garcia Lorca scrive:

“E io me la portai al fiume
credendo che fosse ragazza,
e invece...“

Mi è piaciuto quell’invece ed ho proposto questo titolo per sollecitare la curiosità del lettore: e invece cosa? Io non ve lo dico, e chi non lo sa ed è curioso di saperlo cercherà di scoprirlo per conto suo. Ma torniamo a Pirandello e al fu Mattia Pascal. Ci troviamo circa a metà del romanzo quando leggiamo di come anche un materialista possa razionalmente ammettere, seguendo una serie di ragionamenti logici, l’esistenza dell’anima, e quindi di conseguenza smettere di essere materialista e invece concepire l’esistenza di un’altra vita oltre questa vita. Ecco il dialogo di cui sopra:

“— C'è logica? — mi domandò egli un giorno, dopo avermi letto un passo di un libro del Finot, pieno d'una filosofia così sentimentalmente macabra, che pareva il sogno d'un becchino morfinomane, su la vita nientemeno dei vermi nati dalla decomposizione del corpo umano.
— C'è logica? Materia, sì, materia: ammettiamo che tutto sia materia. Ma c'è forma e forma, modo e modo, qualità e qualità: c'è il sasso e l'etere imponderabile, perdio! Nel mio stesso corpo, c'è l'unghia, il dente, il pelo, e c'è perbacco il finissimo tessuto oculare. Ora, sissignore, chi vi dice di no? quella che chiamiamo anima sarà materia anch'essa; ma vorrete ammettermi che non sarà materia come l'unghia, come il dente, come il pelo: sarà materia come l'etere, o che so io. L'etere, sì, l'ammettete come ipotesi, e l'anima no? C'è logica?
Materia, sissignore. Segua il mio ragionamento, e veda un po' dove arrivo, concedendo tutto. Veniamo alla Natura. Noi consideriamo adesso l'uomo come l'erede di una serie innumerevole di generazioni, è vero? come il prodotto di una elaborazione ben lenta della Natura. Lei, caro signor Meis, ritiene che sia una bestia anch'esso, crudelissima bestia e, nel suo insieme, ben poco pregevole? Concedo anche questo, e dico: sta bene, l'uomo rappresenta nella scala degli esseri un gradino non molto elevato; dal verme all'uomo poniamo otto, poniamo sette, poniamo cinque gradini. Ma, perdiana!, la Natura ha faticato migliaja, migliaja e migliaja di secoli per salire questi cinque gradini, dal verme all'uomo; s'è dovuta evolvere, è vero? questa materia per raggiungere come forma e come sostanza questo quinto gradino, per diventare questa bestia che ruba, questa bestia che uccide, questa bestia bugiarda, ma che pure è capace di scrivere la Divina Commedia, signor Meis, e di sacrificarsi come ha fatto sua madre e mia madre; e tutt'a un tratto, pàffete, torna zero? C'è logica? Ma diventerà verme il mio naso, il mio piede, non l'anima mia, per bacco! materia anch'essa, sissignore, chi vi dice di no? ma non come il mio naso o come il mio piede. C'è logica?
— Scusi, signor Paleari, — gli obbiettai io, — un grand'uomo passeggia, cade, batte la testa, diventa scemo. Dov'è l'anima?
Il signor Anselmo restò un tratto a guardare, come se improvvisamente gli fosse caduto un macigno innanzi ai piedi.
— Dov'è l'anima?
— Sì, lei o io, io che non sono un grand'uomo, ma che pure... via, ragiono: passeggio, cado, batto la testa, divento scemo. Dov'è l'anima? Il Paleari giunse le mani e, con espressione di benigno compatimento, mi rispose:
— Ma, santo Dio, perché vuol cadere e batter la testa, caro signor Meis?
— Per un'ipotesi...
— Ma nossignore: passeggi pure tranquillamente.
Prendiamo i vecchi che, senza bisogno di cadere e batter la testa, possono naturalmente diventare scemi. Ebbene, che vuol dire? Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il corpo, si raffievolisce anche l'anima, per dimostrar così che l'estinzione dell'uno importi l'estinzione dell'altra? Ma scusi! Immagini un po' il caso contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la luce dell'anima. E dunque?
Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde si spezzano; ebbene, sfido! con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se il pianoforte poi tace, non esiste più neanche il sonatore?
— Il cervello sarebbe il pianoforte; il sonatore l'anima?
— Vecchio paragone, signor Meis! Ora se il cervello si guasta, per forza l'anima s'appalesa scema, o matta, o che so io. Vuol dire che, se il sonatore avrà rotto, non per disgrazia, ma per inavvertenza o per volontà lo strumento, pagherà: chi rompe paga: si paga tutto, si paga. Ma questa è un'altra questione. Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l'umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l'aspirazione a un'altra vita, di là? È un fatto, questo, un fatto, una prova reale.
— Dicono: l'istinto della conservazione...
— Ma nossignore, perché me n'infischio io, sa? di questa vile pellaccia che mi ricopre! Mi pesa, la sopporto perché so che devo sopportarla. Mi conservo unicamente perché sento che non può finire così! Ma altro è l'uomo singolo, dicono, altro è l'umanità. L'individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione. Bel modo di ragionare, codesto! Ma guardi un po'! Come se l'umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti. E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è la nostra vita terrena: cinquanta, sessant'anni di noja, di miserie, di fatiche: perché? per niente! per l'umanità? Ma se l'umanità anch'essa un giorno dovrà finire? Pensi un po': e tutta questa vita, tutto questo progresso, tutta questa evoluzione perché sarebbero stati? Per niente?
E il niente, il puro niente, dicono intanto che non esiste... “

Per il piacere della lettura propongo un altro stralcio nel quale la logica di Pirandello si mostra altrettanto limpida: si tratta della conclusione che l’autore da’ al suddetto romanzo illustrando il rapporto tra realtà e finzione letteraria.

“Il signor Alberto Heintz, di Buffalo negli Stati Uniti, al bivio tra l'amore della moglie e quello d'una signorina ventenne, pensa bene di invitar l'una e l'altra a un convegno per prendere insieme con lui una decisione. Le due donne e il signor Heintz si trovano puntuali al luogo convenuto; discutono a lungo, e alla fine si mettono d'accordo. Decidono di darsi la morte tutti e tre. La signora Heintz ritorna a casa, si tira una revolverata e muore. Il signor Heintz, allora, e la sua innamorata signorina ventenne, visto che con la morte della signora Heintz ogni ostacolo alla loro felice unione è rimosso, riconoscono di non aver più ragione d'uccidersi e risolvono di rimanere in vita e di sposarsi. Diversamente da loro si risolve l'autorità giudiziaria, e li trae in arresto. Conclusione volgarissima. (Vedere i giornali di New York del 25 gennajo 1921, edizione del mattino.)
Poniamo che un disgraziato scrittor di commedie abbia la cattiva ispirazione di portare sulla scena un caso simile. Si può esser sicuri che la sua fantasia si farà scrupolo prima di tutto di sanare con eroici rimedii l'assurdità di quel suicidio della signora Heintz, per renderlo in qualche modo verosimile. Ma si può essere ugualmente sicuri, che, pur con tutti i rimedii eroici escogitati dallo scrittor di commedie, novantanove critici drammatici su cento giudicheranno assurdo quel suicidio e inverosimile la commedia. Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l'inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l'arte crede suo dovere obbedire. Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All'opposto di quelle dell'arte che, per parer vere, hanno bisogno d'esser verosimili. E allora, se verosimili, non sono più assurdità. Un caso della vita può essere assurdo; un'opera d'arte, se è opera d'arte, no. Ne segue che tacciare d'assurdità e d'inverosimiglianza, in nome della vita, un'opera d'arte è balordaggine. In nome dell'arte, sì; in nome della vita, no.
Si domanda a questo punto se sia corretto che i critici giudichino un romanzo o una novella o una commedia, condannino questo o quel personaggio, questa o quella rappresentazione di fatti o di sentimenti, non già in nome dell'arte come sarebbe giusto, ma in nome d'una umanità che sembra essi conoscano a perfezione, come se realmente in astratto esistesse, fuori cioè di quell'infinita varietà d'uomini capaci di commettere tutte quelle sullodate assurdità che non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere.”

Parole sante, sig. Luigi!


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(13.3.15) LOU PALANCA, BLOCCO 52: UNA STORIA SCOMPARSA, UNA CITTA' PERDUTA (Domenico Distilo) - Un libro scritto a più mani da quattro scrittori calabresi, riuniti sotto lo pseudonimo di Lou Palanca (Blocco 52, Rubbettino editore, pp. 247), racconta la storia (“scomparsa”) di due delitti rimasti impuniti in una città (“perduta”), Catanzaro, tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, anni per Catanzaro e la Calabria di tensioni politiche e successi sportivi epocali (la prima volta di una squadra calabrese in serie A, evento che ha certamente ispirato la scelta dello pseudonimo: Palanca, per chi non lo sapesse o non lo ricordasse, era un attaccante del Catanzaro piccolo di statura ma tecnicamente dotato, famoso per riuscire a spedire il pallone in porta direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo).
Il racconto si svolge su due piani: il primo è il tentativo di far riemergere nella memoria collettiva la storia scomparsa, l’assassinio del politico (esponente del PCI) e sindacalista Luigi Silipo avvenuto la sera del primo aprile del 1965, mentre la vittima percorreva a piedi il breve tragitto dal luogo dove aveva parcheggiato la macchina alla porta di casa. Il secondo è rappresentato dalle vicende stesse dell’inchiesta, con gli alter ego degli autori (verosimilmente) che si scontrano con carte introvabili negli archivi e con difficoltà imputabili a una sciatteria che vorrebbe apparire casuale ma dà l’idea di essere orchestrata, rigorosamente pianificata per produrre oblio.
La motivazione morale (e politica) del libro sta nel fatto che il delitto Silipo è stato presto dimenticato – con la memoria confinata nel blocco 52, appunto, del cimitero di Catanzaro -, in primis dalla sua stessa parte politica, il PCI, che lo ha archiviato nel giro di qualche mese, probabilmente per timore di ripercussioni negative su un partito nel quale si stava, con opportuni e graduali aggiustamenti di “linea”, preparando il terreno culturale – che sempre, secondo l’insegnamento di Gramsci, deve precedere quello politico - della nuova stagione, del partito di governo più che di lotta e del compromesso storico.
Silipo non corrisponde al tipo, molto diffuso in quegli anni, del “rivoluzionario di professione” che si evolve in puro uomo d’apparato. Nel suo caso il processo s’interrompe perché il rapporto tra realpolitik e tensione ideal-etica rimane sbilanciato dalla parte di quest’ultima. Anche se, a differenza di quanto sperimenta qualche altro/a collega, il conflitto tra le due istanze sfuma senza procurargli ambasce. Il fatto è che lo spirito di appartenenza e la disciplina di partito fanno sì che egli pressoché istintivamente lo rimuova, continuando a vivere nel modo che gli è più congeniale e più corrisponde all’idea che ha del proprio dovere di comunista e di uomo, senza preoccuparsi dei pericoli che gli si addensano sul capo e all’insegna di una utopia esistenziale, alimentata e mediata dalla politica, capace di generare un sovrappiù di energia vitale da spendere nel partito, nel sindacato, negli amori.
Il libro ci restituisce, e si tratta di un merito non dappoco, la vita quotidiana in Calabria nei primi anni Sessanta, dominati dalle problematiche di una modernizzazione in pieno corso e che produce conflitti che la politica fatica a governare o non governa affatto. Luigi Silipo, proprio a causa della sua tensione ideal-etica, entra in un conflitto sordido con un PCI che coltiva il progetto di abbandonare i contadini, peraltro senza dirlo espressamente, per inseguire referenti sociali ed elettorali che apparivano meno arcaici.
Così è delineato l’inizio di una spirale che si viene avvitando e tocca il culmine con i moti per Reggio capoluogo - che scoppiano quando nel Paese è già partita la strategia della tensione - avvolgendo la stessa Catanzaro con l’omicidio, gabellato per suicidio preterintenzionale, dell’operaio socialista Giuseppe Malacaria durante una manifestazione.
Il seguito è una politica che diviene sempre più autoreferenziale, molto professionale e poco incline a coltivare i sogni che erano il pane quotidiano di un comunista in fondo poco in sintonia col partito plasmato da Togliatti dopo la svolta di Salerno. Un comunista, per intenderci, capace nelle riunioni di provare ad umanizzare perfino la lingua di legno dei funzionari d’apparato e il cui concetto di modernità popolare, anche nel tifo calcistico, si declina diversamente da quello del “Migliore”, del quale m’intriga aver ritrovato nel libro un vecchio aneddoto di cui ho letto nei lontani anni Settanta in un articolo di Giglio Panza per Hurrà Juventus: il compagno Togliatti che una domenica pomeriggio telefona da Mosca alla redazione dell’Unità per essere informato sul risultato della Juventus e s’incazza di brutto perché il redattore di turno non ne sa nulla: “E’ inammissibile che il redattore di un grande giornale popolare di un partito popolare non abbia quel dato! Inammissibile!”.

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Nella foto: la copertina del libro "Blocco 52".

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(16.3.15) UN LIBRO DI POESIE DI RAFFAELLA BARRESI (Laura Gatto) - Si tratta di un “Libretto” - Raffaella Barresi, I bei capei d'oro, Nuove Edizioni Barbaro, pp. 32, € 8,00 - da ritenersi tale non certo in un significato dispregiativo, ma alla maniera di Catullo, un “libellum” , per cui auguro alla nostra amica Raffaella Barresi di avere la stessa fortuna del poeta di Sirmione.
Leggendo I bei capei d’oro, ho potuto rendermi conto di avere di fronte composizioni di una vera poetessa. Sì, perché di questo si tratta: la nostra artista, nonostante la giovane età, ha saputo osservare la realtà quasi fotografandola e traducendola in versi che nei contenuti e nella forma riflettono le conoscenze acquisite con gli studi classici.
Mi riferisco alle assonanze, alle rime, alle figure retoriche, per non dire dei riferimenti impliciti ed espliciti ad autori quali Petrarca, che un po’ ci condiziona inducendoci a pensare, erroneamente, che si tratti dell’operetta di una cultrice del poeta di Arquà. In realtà è solo un pretesto: infatti, basta inoltrarsi nella lettura per accorgersi che i riferimenti alla cultura classica e agli umanisti sono molteplici e vari, da Petrarca, appunto, a Dante a Leopardi a Pascoli e D’Annunzio ad Omero, una schiera come si vede assai nutrita e distribuita lungo tutto l’arco temporale della cultura occidentale.
Autori ed opere da cui la nostra autrice ha tratto moduli originali, non solo nei contenuti e nello stile, ma in un uso dei segni d’interpunzione che non corrisponde alle esigenze canoniche ma a ben altre necessità che appartengono al ritmo interiore della poetessa, al suo vissuto e alle ricadute psicologiche del tempo e dell’età in cui le ha scritte, l’adolescenza.
Riferimenti che servono a mediare contenuti di stringente attualità, al punto che il lavoro è senz’altro adatto ad essere proposto in classe ad alunni adolescenti per una rassegna dei problemi del mondo nel quale la scuola ha il compito di orientarli.
Soffermandoci ora sulle singole composizioni, possiamo enuclearne le tematiche più rilevanti, a partire dall’inquinamento atmosferico, trattato in Quand’era estate e in Non tornano più le rondini a primavera.
Se nella prima sono posti al centro gli aspetti oggettivi, l’impatto dell’inquinamento sul naturale avvicendarsi delle stagioni, alterato e deformato dal buco nell’ozono, dal surriscaldamento e dalle patologie da esso indotti, nella seconda ad intristire la poetessa è l’atteggiamento degli uomini, che invece di prendere a cuore la salute del pianeta si preoccupano di quella dell’economia, dominata da un modello imperniato sulla crescita e sul consumo, irresponsabile verso il pianeta e le generazioni future.
L’altro tema è quello delle donne, in primis nella composizione eponima del volumetto, su cui riuscirebbe ostico profondersi in commenti, ma del quale non si può sottacere il realismo crudo magistralmente coniugato a un sentimento di partecipazione e compassione umane che stride con l’indifferenza degli inconsapevoli protagonisti del dramma.
Viene poi Monna Lisa a squarciare il velo sull’aridità di una vita fagocitata nel gorgo di un sistema –il mondo delle modelle e delle sfilate - che suscita nella protagonista noia, per non dire nausea, ma al di fuori del quale non potrebbe e non saprebbe come ripensarsi.
Noia e nausea evocate ne Il falò, in cui a colpire è l’indifferenza del mondo verso destini segnati dal bisogno e dalla violenza, anche qui un “sistema” dal quale le vittime non sanno come uscire e fuori del quale non saprebbero immaginarsi, vittime, par di capire, oltre che del “pappone-cafone”, di una sorta di sindrome di Stoccolma.
Mentre in Arianna la disillusione tiene dietro all’illusione e sembra preludere a una ribellione che sarebbe l’esito naturale della sopraggiunta consapevolezza.
La critica della società contemporanea trova una sintesi particolarmente efficace in Per chi viene il Natale?, in cui è focalizzato il contrasto tra il mondo ricco e quello povero, tra la pace, vera o finta che sia, e la guerra, tra l’amore che appare e l’odio che è reale.
Così come il Natale si risolve in fantasmagorie luminescenti, la Terra promessa evapora in un viaggio avventuroso sulla carretta del mare. L’epopea di Abramo si stinge nello squallore di vite che nel loro perdersi interrogano la cattiva coscienza di un Occidente ripiegato nella difesa di un materiale benessere che si declina in uno spirituale malessere. Di cui è indice, in Il mio bambino, l’ingegneria genetica negatrice di ogni umanità autentica, in quanto tale lontana da ogni programmazione eugenetica.
Una cosa è da notare: il mondo di Raffaella è senza soluzione di continuità, senza distinzione tra fuori e dentro, tra esistenza e storia. Alla finta pace del Natale fa riscontro il finto amore per i bambini del pedofilo in Lasciate che i bambini vengano, dove una sottile ironia utilizza la Sacra Scrittura per mettere in scena uno dei crimini più ignominiosi della società attuale. Elementi che confluiscono in Barabba, una rappresentazione dell’Inferno che avvolge la terra e l’uomo che non sa, e neppure vuole, uscirne.
Per tentare un bilancio: il mondo ritratto da Raffaella è un mondo perso, dominato in lungo e in largo dall’umana alienazione ma il cui riscatto e la cui speranza credo che la nostra autrice affidi alla poesia, evocatrice, nel suo caso per contrasto, di un altro mondo, sorretto da altri valori e da altre sensibilità. Che questo altro mondo possa un giorno esistere, fuori della nostalgia e della poesia, è la speranza che ci sentiamo di nutrire.

Raffaella Barresi vive a Taurianova (Rc), maturità classica presso il Liceo "Vincenzo Gerace" di Cittanova, laureata in Scienze della formazione primaria presso l'Unical di Cosenza, insegna lingua inglese presso l'I. C. "Carducci-Da Feltre" di Reggio Calabria. E' alla sua prima pubblicazione.

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Nelle foto: in alto la copertina del libro di Raffaella Barresi, in basso l'autrice.

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(22.3.15) PRIMAVERA D'IMPEGNI PER IL PIANISTA NICOLA SERGIO - Una stagione primaverile ricca di appuntamenti concertistici importanti per il pianista jazz galatrese Nicola Sergio impegnato - da solo, in duo o in altre formazioni - in eventi di musica in ben tre paesi: Francia, Belgio e Italia.
Le date degli eventi iniziano il 22 marzo e si protraggono fino a giugno. Si tratta di posti per fare musica sempre di grande livello. L'appuntamento più importante è certamente il 7 giugno, quando Nicola sarà impegnato in una delle sale più prestigiose d'Europa: il "New Morning" di Parigi.
Ecco il quadro degli appuntamenti:

22 MARZO
NICOLA SERGIO – STEPHANE KERECKI DUO
Djazzhouse concert – Paris – ore 15,30

28 APRILE
ITALIAN 4TH
Sounds Jazz Club – Bruxelles (Belgium) – ore 22,00

29 APRILE
ITALIAN 4TH
Bravo caffé Jazz Club Bruxelles (Belgium) – ore 21,30

30 APRILE
NICOLA SERGIO – FRANCESCO BEARZATTI
Sunside Jazz Club – Paris - ore 21,30

19 MAGGIO
CARLO MUSCAT 4TH
Sunset Jazz Club – Paris - ore 20,30

5 GIUGNO
NICOLA SERGIO – piano solo
Jazz Festival – Lucca (Italy)

7 GIUGNO
NICOLA SERGIO&FRIENDS at NEW MORNING!
New Morning – Paris – ore 18,00


Nelle foto: in alto Nicola Sergio durante una prova, in basso impegnato nel progetto Migrants.


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(27.3.15) UN MONDO PER TUTTI - Ciao Amici,
non mi dimentico del giornale e nemmeno degli amici. Vi seguo ogni giorno e, anche se non scrivo o commento, sono sempre con voi.
Oggi vi mando una poesia, e questa volta non come al solito, ma in italiano.
Forse al più presto, quando riesco a dare un titolo, ne mando una nel nostro meraviglioso dialetto galatrese.
Un abbraccio a tutti.

Un mondo per tutti

Ci sono i brutti
e anche i belli,
quelli buoni
e anche i monelli.

C'è chi non dà niente
e chi da quasi tutto,
c'è chi ha salvato il mondo
e chi l'ha distrutto.

C'è chi pensa positivo
e chi pensa negativo,
chi si sente morto
anche da vivo.

C'è chi di salute abbonda
e chi è tanto malato,
chi è andato in guerra
senza esser soldato.

C'è chi lavora di notte
e chi lavora di giorno,
chi passeggia in paese
e chi gira il mondo.

C'è chi ha figli tranquilli,
chi c'è l'ha inquietanti,
c'è chi non li sopporta
eppure va avanti.

C'è chi si ama e si sposa,
c'è chi poi si separa,
c'è chi usa la legge
e chi la lupara.

C'è chi a casa riposa
e chi invece si stressa,
chi ha moglie allegra
e chi invece depressa.

C'è chi prega in chiesa
e chi prega da solo,
chi rimane per terra
e chi prende il volo.

C'è un mondo per tutti
ma non siamo contenti,
per tutti una fine,
vincenti o perdenti.

Biagio Cirillo

Nella foto: Biagio Cirillo, che vive a Bolzano.


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(31.3.15) PRECISIAMOLO UNA VOLTA PER TUTTE: IL POETA GIOVANNI CONIA ERA DI GALATRO! (Umberto Di Stilo) - Qualche giorno addietro, a commento di un articolo a firma del canonico Pignataro, l’amico avvocato Michele Scozzarra ha scritto che conosceva personalmente l’Autore perché «da bambino lo andavo a trovare in quello stanzino che sapeva di libri antichi…. È stato lui che mi ha dato la copia del certificato di morte di Conia (che ho dato subito al prof. Raffaele Sergio che lo ha inserito nel suo libro) unico documento dove risulta che Conia era nato a Galatro.»
L’affermazione che quel certificato costituisse l’unico riferimento certo alla galatresità del Conia mi ha fatto saltare dalla sedia. E, rompendo il mio innato riserbo, ho indirizzato all’amico avvocato un messaggio col quale lo invitavo ad usare «un po’ di cautela prima di affermare che la copia del certificato di morte sia l’unico documento dal quale risulta che Conia è di Galatro.» Ciò perché se a suo tempo quell’espressione l’aveva pronunciata il canonico Pignataro, da quegli anni, molta acqua è passata sotto i ponti e la ricerca (com’è giusto che sia) ha fatto registrate nuovi particolari, ha scoperto moltissimi altri documenti.
Adesso, a distanza di tre giorni, se torno sull’argomento non è per alimentare una inutile quanto sterile polemica, ma esclusivamente perché dopo lo scambio di opinione con l’amico Scozzarra ho deciso di dare un definitivo quanto chiaro ed inequivocabile contributo alla querelle che da diverso tempo, alimentata da storici dilettanti, circola a proposito del luogo di nascita del poeta Giovanni Conia.
Ritengo giunto il momento di “dare a Cesare quel che è di Cesare…”. Con la speranza che non si debba più tornare sull’argomento.
Già nel lontano 1981, in sede di presentazione del volume di Raffaele Sergio, al fine di fugare le inesattezze che, frutto di fantasiose ricostruzioni, fin’allora erano state pubblicate relativamente al paese di nascita del canonico-poeta (col sistema che oggi definiremmo del “copia e incolla” tutti hanno continuato a riportare ciò che nel 1929 aveva pubblicato Pasquale Creazzo) unitamente a mons. Francesco Luzzi, direttore dell’archivio storico diocesano di Mileto, ed a Giovanni Russo, direttore della biblioteca comunale di Polistena, ho consegnato al tavolo dei relatori la fotocopia di due pagine della relazione di visita che, su designazione del vescovo di Mileto, mons. Enrico Capece Minutolo, il 27 settembre ed il successivo 2 ottobre del 1820 l’abate Conia – all’epoca vicario della foranìa di Laureana, ha effettuato alle tre chiese galatresi ricostruite dopo il flagello del 1783.
Ebbene, in quella sede, mediante la lettura di quei documenti, è stata richiamata l’attenzione del pubblico presente che in una pagina della sua relazione Conia scriveva in modo quanto mai chiaro «io che sono compaesano e son vecchio, mi ricordo che vi erano undici chiese consacrate…» e che poco oltre, in un’altra pagina, affermava ancora: «M’informai poi minutamente da persone probe e a me ben note, perché son concittadino…»
Compaesano, concittadino… Questi i termini che ha usato il nostro abate-poeta per dichiararsi galatrese. Più chiaro di così!
In altre sedi ho più volte sostenuto che Conia era galatrese da diverse generazioni (e non di Plaesano!) e che i beni immobili che sin dalla ordinazione alla sua “prima chierical tonsura” ha presentato in diocesi come garanzia del suo patrimonio erano tutti posti nel territorio di Galatro. Ricordo a me stesso che la storia si costruisce sulla scorta dei documenti d’archivio. Se le notizie non sono supportate da precisi riferimenti archivistici, sono fumose; diventano favole. I “si dice”, “si suppone” non sono a fondamento della storia.


Anche per questo non può essere giustificato Creazzo che anziché andare a rovistare negli archivi, ha preferito avventurarsi in ricostruzioni fantasiose andando a intervistare cittadini di Stellitanone o qualche abitante di Plaesano sperando di scoprire le sue origini familiari e soprattutto il suo luogo di nascita. Parimenti non possono essere giustificati tutti coloro che hanno preso per oro colato ciò che ha scritto Creazzo e non hanno sentito il “dovere” di verificare l’attendibilità di quanto andavano copiando. Pardon, scrivendo. Purtroppo, la schiera dei copioni è numerosa.
Mi meraviglia l’asserzione di mons. Pignataro secondo cui soltanto da quel certificato si sarebbe potuto risalire al luogo di nascita del Conia.
Anch’io, negli anni sessanta, ho avuto il piacere e l’onore di conoscere il Canonico. A quel tempo grazie alle sue pubblicazioni si era fatto conoscere nel mondo culturale, oltre che negli ambienti ecclesiastici, come attento ricercatore. Proprio per questo ritengo che il buon Pignataro – che era anche responsabile dell’archivio diocesano di Oppido – avrebbe potuto sicuramente attingere al fascicolo personale di Conia, per’altro sicuramente conservato in Curia. Oppure bisogna pensare che nell’archivio di quella Diocesi le “carte” del Conia siano andate perdute? Certo, se mons. Pignataro non le ha trovate, viene da prendere in considerazione questa ipotesi. Che, però, sa di quella negligenza che, purtroppo, non costituisce un unicum perché ha caratterizzato negativamente anche qualche altro archivio pubblico.
Comunque, nella speranza di concorrere a colmare una lacuna o, meglio, a rafforzare con la pubblicazione di alcuni documenti ciò che da anni sostengo, in calce a questa mia nota, riproduco il certificato di nascita del galatrese Conia (spero che i lettori mi perdoneranno se non allego anche la trascrizione e la traduzione italiana del testo scritto in latino ecclesiastico settecentesco. Non l’ho fatto per non offendere la loro intelligenza e la loro cultura).


Aggiungo anche la domanda autografa con la quale il giovanissimo Giovanni Conia chiedeva di essere ammesso «a portare l’abito benedetto per poter a suo tempo essere iniziato alla prima cherical tonsura» e, infine, il conferimento di questo ordine per decreto del vescovo Giuseppe Maria Carafa. Anche in quest’ultimo importante documento ufficiale è scritto in modo inequivocabile che il novizio Giovanni Conia è «del luogo di Galatro di questa nostra Diocesi.»


E’ sufficiente la riproduzione di questi tre documenti per fugare ogni ombra di dubbio sul luogo di nascita di Giovanni Conia e per non affermare ancora che l’unico documento ufficiale dal quale si possa desumere il nome del suo comune natale è il certificato di morte registrato ad Oppido?
Spero proprio di si. Ma spero, soprattutto, che – una buona volta per sempre – si chiudano le fantasiose illazioni sulla mancanza di documenti.
Chi lo afferma ha mai provato a perdere intere giornate o intere settimane in una ricerca che non sempre - purtroppo! - sortisce nel risultato sperato? Sicuramente no. Sarebbe bene che ci provasse. Non fosse altro che per evitare di continuare imperterrito ad incorrere in errori macroscopici.
La storia - per essere tale – si fa con i documenti. Chi aspetta che le notizie gli cadano dal cielo… farebbe bene a cambiare mestiere. Gli consiglio di fare l’affabulatore, in considerazione che la storia non è pane per i suoi denti.
Né è sufficiente copiare a destra ed a manca quel che altri hanno già scritto. Anche perché, ad essere “copioni” si rischia di perpetuare i precedenti errori degli altri e, per ignoranza crassa, di cadere nell’immodestia di sentirsi dei “parvenu” (dimensione assai diffusa tra gli storici della domenica) e di illudersi di vendere per “oro colato” ciò che, invece, è solo “rame vecchia ed ossidata”.
E’ già successo e, purtroppo, continua a succedere.
Basta guardarsi attorno e dare rapide sbirciatine alle pubblicazioni di molti “storici” dell’ultima generazione.

Nelle foto, dall'alto: Umberto Di Stilo autore dell'articolo; il busto di Giovanni Conia realizzato da Raffaele Sergio; documento relativo alla "prima chierical tonsura" di Conia; certificazione di nascita di Conia; sua domanda per portare l'abito benedetto in vista della "chierical tonsura".

Altro su Conia:
L'abate Conia e la statua di S. Raffaele Arcangelo ad Orsigliadi di Rombiolo

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(1.4.15) IN MERITO ALL'INTERVENTDO DI UMBERTO DI STILO SU CONIA (Michele Scozzarra) - L’amico prof. Umberto Di Stilo è intervenuto su Galatro Terme News, con un magistrale articolo “precisando una volta per tutte che il poeta Giovanni Conia era di Galatro”. Lo spunto è partito da un commento all’articolo postato sui social network dall’amico Bruno Demasi “Le campane e la fiera dell’Annunziata in Oppido di Calabria” del canonico Giuseppe Pignataro.
Ci tengo a chiarire tutta la “querelle” che ha fatto scaturire il bellissimo intervento di Umberto Di Stilo, anche perché, se non inquadrato nel contesto che lo ha “provocato”, restano in ombra le reali motivazioni che hanno portato (finalmente!) ad aggiungere qualche pagina nuova alla conoscenza dell’Abate Conia.
Ritengo importante, almeno per me, raccontare l’intera vicenda perché qualcuno, leggendo solamente l’articolo di Umberto Di Stilo, e non conoscendo l’antefatto, mi ha chiesto “perché siamo entrati in polemica”.
Nessuna polemica, anzi il più contento di tutto questo bel servizio che ne è venuto fuori sono proprio io e, per evitare che una bella pagina sull’abate Conia sia confusa o interpretata come una polemica tra me e Umberto, voglio raccontare, per i lettori di Galatro Terme News, l’intera vicenda così come si è sviluppata.
Il tutto ha avuto origine da un mio commento, al link dell’articolo condiviso dal prof. Bruno Demasi, nel quale scrivevo: “Grazie Bruno, lo leggerò con attenzione anche perché conoscevo personalmente il canonico Pignataro, da bambino lo andavo a trovare in quello stanzino che sapeva di libri antichi, ed è stato lui che mi ha dato la copia del certificato di morte di Conia (che ho dato al prof. Raffaele Sergio che lo ha inserito nel suo libro), unico documento dove risulta che Conia era nato a Galatro.”
Ho scritto “unico” documento, perché fino all’articolo pubblicato oggi da Umberto di Stilo non penso che, non solo tra gli “addetti ai lavori”, qualcuno ne avesse mai visto un altro.
Umberto di Stilo, interviene scrivendo: “Avvocato, userei un pò di cautela prima di affermare che la copia del certificato di morte sia "l'unico documento" dal quale risulta che Conia è nato a Galatro. Certo se non si va a scovare negli archivi le notizie non piovono dal cielo. Avete mai avuto l'opportunità di farlo? Ho l'impressione di no. E allora perché dare per certo ciò che non è? Non volermene. Un carissimo fraterno saluto, anche all'amico Bruno”.
Devo dire che lo scritto di Umberto mi ha, piacevolmente, stuzzicato a cercare di “andare oltre” e, sperare che in maniera inaspettata, potesse venire fuori qualche notizia in più su Conìa. Ho continuato, più che per confutare (non ne ho titolo e conoscenza) per “provocare” una risposta: “Caro professore, che avete ragione non c'è bisogno che ve lo dico, è come dite voi... ma però (anche se non si può dire, lo dico lo stesso), c'è un 'mapperò'. Nessuno più di me vi ha riconosciuto 'l'arte' nello scovare negli archivi (a prezzo di sacrifici e pazienza), le notizie 'inconfutabili' che danno 'ragione' a delle affermazioni, che se 'sfornite di fonti' possono fare forma a un bell'articolo, ma non ad un saggio degno di fare testo. E conoscendo la minuziosità e scientificità del vostro lavoro, penso di essere in testa tra quelli che vi hanno sempre incitato a tirare fuori tutto il 'malloppo' che, in tutta la vostra vita, avete avuto modo di accumulare sulla nostra storia. Ho anche 'osato' dire di avere avuto il privilegio di tirare fuori 'l'unica' predica di Conia (quella sulla morte dell’Arciprete Mumoli di Limbadi), finora pubblicata; ma non è detto, anzi è probabile, che ce ne siano altre... ma ancora in qualche cassetto. Per questo ritengo vero che la storia non si fa con i 'si dice', però ricordo benissimo (nonostante siano passati più di 40 anni), la faccia del Canonico Pignataro quando mi ha dato la fotocopia del certificato di morte di Conia, così come ricordo il volto gioioso del prof. Sergio quando glielo ho consegnato. Sicuramente ci sono altri documenti, ma io fino ad ora di Conìa ho letto che tanti mettono in dubbio che sia nato a Galatro. Il Creazzo, nel riferire dei natali del Conia dice che ha avuto 'la sfortuna di nascere in quel di Galatro dove lì poco o nulla si apprezza...'. Ho letto una dispensa pubblicata dal Comune di Galatro tanti anni fa (penso era il resoconto di una conferenza) dove stringi stringi, almeno l'80% di quello che c'è scritto non riguarda il Conìa... ho, naturalmente il libro del Canonico Pignataro e del prof. Sergio su Conia... stop!
C'è un vecchio detto che dice 'cu 'u cappeju chi aju ti pozzu salutari'. Io, e non solo io, almeno fino ad oggi, ho letto 'solo' questo, sarà una goccia nell'Oceano, ma ho avuto a disposizione solo questa goccia che per il prestigio del nostro piccolo borgo più di come ho stirato non posso fare. Non è per dare per certo quello che non è perché (almeno io) non ho trovato altro. Tutto qua!”

Altro che polemica… nel leggere l’intervento di Umberto a questa mia provocazione (l’articolo pubblicato da Galatro Terme News) stavolta sono stato io che sono saltato dalla sedia… per la contentezza di quanto stavo leggendo.
Infatti, non ho perso tempo nel commentare: “Sono contentissimo che da una piccola 'provocazione' sia venuta fuori tutta questa discussione su Conìa e, il prof. Umberto Di Stilo ha messo i puntini su tante cose che, fino ad oggi, sono rimaste fuori dal dibattito culturale su Conìa (esclusi gli 'addetti ai lavori' e, anche se tra questi, non saprei chi citare!). Grazie a te Bruno abbiamo 'stanato' Umberto. Che dire ora? Trova qualche altro argomento sul quale fargli tirare fuori ancora qualcosa di più! Grazie per quanto ci avete trasmesso: in mezzo a tante 'leggerezze' (talvolta anche simpatiche) i social network, a saperli usare, sono anche un bel veicolo di trasmissione del sapere. Alla prossima!”
E il caro amico Bruno Demasi ha aggiunto: “E non finisce mica qui!”
Io lo spero proprio.

Nelle foto, dall'alto: Michele Scozzarra e Bruno Demasi.

* * *

Precisazione della Redazione
La Redazione, a precisazione di quanto emerge in questi ultimi due interventi, aggiunge, come molti ricordano, che diversi decenni fa, nel 1980, durante la presentazione del libro di Raffaele Sergio su Conia, svoltasi nell'androne delle scuole elementari e organizzata dal Comune di Galatro, fra lo stupore dei numerosi presenti, un prelato della curia di Mileto - probabilmente mons. Luzzi (1918-95) di cui parla Umberto - intervenne esibendo un documento d'archivio ufficiale che testimoniava in modo inequivocabile come Conia fosse di Galatro.
Tanti degli allora presenti in sala certo hanno memoria di quell'intervento che contribuì a fugare i dubbi sul luogo d'origine di Conia. Si trattava, già all'epoca, almeno del secondo documento che provava l'origine galatrese di Conia, in quanto il canonico Giuseppe Pignataro (1901-87) aveva già reso pubblico nel 1975, sul n. 3 della rivista "Historica", l'atto di morte di Conia.
Risultano perciò piuttosto fumose e poco attendibili le altre procedure, emerse negli articoli, riguardanti l'acquisizione del primo importante dato sul luogo di nascita di Conia. Vero è certamente che quei due documenti, col passare degli anni e l'avanzare delle ricerche, non rimasero gli unici a testimoniare l'origine galatrese di Conia.


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(4.4.15) CONIA, MARTINO, GLI "STORICI DELLA DOMENICA" E L'ASSESSORE ALLA CULTURA (Angelo Cannatà) - Ore 19,25. Venerdì. Antonio Martino è nervoso, a tratti inquieto. In verità dovrei dire incazz… ma siamo in Paradiso. Sorvoliamo. Aspetta da un’ora l’Abate Conia che non arriva e continua ad accumulare ritardo. “E’ possibile? Sempre la solita storia, voglio vedere cosa racconta adesso, non è mai puntuale… Eccolo! Finalmente.”

CONIA – Scusa, ma questa volta ho le mie buone ragioni. Arrivo spesso in ritardo, è vero, ma credimi ho dovuto…
MARTINO – Non raccontare frottole, sei un inguaribile ritardatario.
CONIA – Ti dico che ho valide ragioni… pensa, mi vogliono togliere la cittadinanza galatrese… mi sono espresso male… hanno messo in dubbio – roba da matti! – che io sia nato a Galatro.
MARTINO – L’ho sempre sospettato!
CONIA – Non prendermi in giro, è una cosa seria.
MARTINO – Era da tempo che volevo dirtelo… hai l’aria tonta, talvolta, di uno nato a… come si chiama… Finge di cercare il nome e se la ride.
CONIA – Smettila. Cerca di esser serio, amico mio, si tratta delle mie origini, delle radici. Hanno perso i documenti… non li trovano…
MARTINO – O non li sanno trovare?
CONIA - Ecco. Hai inquadrato il problema. Uno si dà tanto da fare, scrive in versi - e tu lo sai, è una questione di creatività, ma anche di ricerca, di studio… - insomma, si affanna per conquistare una certa notorietà, per dare lustro - perché no? - anche al Paese dov’è nato, e questi che fanno? Perdono i documenti!
MARTINO – Ma sei sicuro che nessuno… voglio dire, li hanno davvero persi… potresti chiedere la cittadinanza onoraria… Non trattiene le risate.
CONIA – Basta!
MARTINODiventa serio. La cittadinanza onoraria dove la smemoratezza non ha diritto d’asilo. Un Paese che non pubblica ricerche accurate sugli uomini illustri che hanno fatto la sua storia è degno delle critiche più dure. Chi è l’assessore alla cultura?
CONIA - Lascia perdere, non lo so. Sarà sicuramente una persona perbene… non è questo il punto.
MARTINO – Ti sbagli. Ci sarà uno storico serio nel nostro amato Paese? Uno che non abbocchi – intendo – alle dicerie degli storici della domenica che parlano senza documentarsi. Io ricordo che qualcuno li aveva i documenti, perché sapeva cercarli.
CONIA – Umberto Di Stilo. Stai pensando a lui?
MARTINO – Certo.
CONIA – Proprio il suo articolo stavo leggendo… ecco perché sono arrivato in ritardo… certo che li ha i documenti! Bacchetta gli storici improvvisati che parlano per sentito dire, senza gustare la sublime “fatica del concetto”… i documenti vanno cercati e poi interpretati e…
MARTINO – Lascia perdere Hegel. Io ho fame e sono già le 20 e 30. Ceniamo insieme?
CONIA – Sì. Ma non hai concluso il discorso sull’assessore alla cultura.
MARTINO – Dovrebbe darsi da fare per pubblicare un testo filologicamente accurato sulla tua storia e la tua poetica. Sarebbe un gesto carico di sensibilità culturale.
CONIA – Vuoi dire che un Paese senza storia…
MARTINO - … fa traslocare i propri poeti altrove…
CONIA – Hai ripreso a giocare. Meglio così. Allora, optiamo per gli Spaghetti?
MARTINO – D’accordo. Alla puttanesca, però. Come le ricerche storiche senza documenti.
CONIA – Come la filosofia senza logos.
MARTINO – Come la poesia senza memoria.
CONIA – Come la giurisprudenza senza leggi.
MARTINO – Come la religione senza Dio.
CONIA – E’ Pasqua. Facciamo gli auguri ai nostri concittadini.
MARTINO – Anche all’assessore alla cultura?
CONIA – Direi proprio di sì.
MARTINO – Nella speranza che accolga il nostro consiglio. Auguri.

Si avviarono verso il ristorante e una cena che, in Paradiso, non poteva non essere ricca, nutriente, buona. Mangiarono e conversarono a lungo. Risero. Conia dimenticò completamente la querelle sulle sue origini. Parlarono d’altro. Di cosa lo racconterò la prossima volta.

Nelle foto in alto: i poeti galatresi Giovanni Conia e Antonio Martino.

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(14.4.15) THOMAS PIKETTY, IL CAPITALE NEL XXI SECOLO (Domenico Distilo) - A 146 anni di distanza dall’uscita del primo libro de Il Capitale di Marx è apparsa con lo stesso titolo in Francia, nel 2013, un’altra opera diventata un best seller (in edizione italiana presso Bompiani, Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI Secolo, pp. 946, ben sei edizioni nel 2014) e che si direbbe destinata a segnare un’epoca nella storia della “triste scienza” rivoluzionandone i paradigmi, aggredendo in pieno, cioè, i luoghi comuni di cui si nutrono i corifei del neo liberismo.
Si dà il caso, però, che per parlare di paradigmi e di scienza – rivoluzionaria o normale che sia, seguendo la dicotomia di T. Kuhn - si dovrebbe dare uno stato dell’arte verace e conclamato, nonché la consapevole esigenza di dover rompere schemi che imprigionano davvero il pensiero rappresentando un ostacolo al progresso delle conoscenze. Nel caso dell’economia contemporanea non siamo in questa condizione. Più che scienza il neo liberismo è stato e continua ad essere un’ideologia imposta dagli interessi dei circoli della finanza globale, dagli apparati mediatici ed accademici da essi controllati e dalla corrività delle istituzioni politiche nazionali e internazionali.
Ora però è arrivato questo economista francese quarantenne a mettere allo scoperto il meccanismo che sta alla base delle disuguaglianze, andando al cuore della logica del capitale e riassumendola in due leggi che ne descrivono l’una la statica, l’altra la dinamica e il cui combinato disposto è il naturale e progressivo ampliarsi della forbice tra capitale e reddito e, con essa, delle disuguaglianze sociali.
La legge che descrive la statica del capitale assume il prodotto annuo quale funzione del rendimento del capitale per il rapporto capitale/reddito; quella che ne descrive la dinamica uguaglia il rapporto capitale/reddito al rapporto risparmio/ crescita, così che il maggiore risparmio determina minore crescita e, ripercuotendosi sulle grandezze della legge statica, un minore rendimento del capitale e il conseguente aumento del divario tra capitale e reddito. (Detto per inciso: una minore crescita, col relativo aumento del divario capitale/reddito, è determinata altresì dalla destinazione di una parte del prodotto al servizio del debito, essendo tale impiego un impulso alla rendita a discapito del reddito da rendimento del capitale).
La sintesi delle due leggi rispecchia la tendenza storica del capitalismo, verificata dall’esame di una quantità impressionante di serie storiche di dati – che partono dal 1700 e arrivano fino al 2012 -, ad ampliare il divario tra capitale e reddito con la conseguente crescita delle disuguaglianze in tutto l’arco di tempo considerato.
Con un’unica, significativa eccezione, il periodo compreso tra lo scoppio della Prima guerra mondiale e gli anni Ottanta del Novecento, periodo nel quale, molto più in Europa e meno negli Stati Uniti, si sono contratte le quote di ricchezza detenute rispettivamente dal decile e dal centile superiore, cioè dal 10 e dall’1 per cento più ricco della popolazione.
A partire dagli anni Ottanta la tendenza si inverte, con le quote di ricchezza detenute dal decile e dal centile superiore che riprendono a salire, mentre si amplia la forbice tra le retribuzioni dei top manager, quelle dei quadri intermedi e di quanti, infine, si collocano sugli scalini più bassi dell’organizzazione del lavoro.
All’inizio degli anni 2000 la situazione delle disuguaglianze si può dire praticamente tornata ai livelli della Bell’epoque, mentre vanno azzerandosi i progressi realizzati nel trentennio d’oro con la chiusura della curva ad U del grafico con cui viene rappresentato l’andamento delle disuguaglianze, sì che è ormai chiaramente delineata una società dominata da nuovi rentiers, simile per molti versi a quella dell’Ottocento.
Il libro di Thomas Piketty interroga, questo è indubbio, la componente maggioritaria della sinistra nel suo modo di pensare e d’essere, ciò che essa è diventata negli ultimi decenni nei quali ha abbracciato i dogmi del neoliberismo nella convinzione che il mercato rappresenti la soluzione di ogni problema. Non considerando che dai tempi della rivoluzione industriale i problemi che si pongono non riguardano l’offerta ma, sempre e comunque, l’adeguatezza della domanda alle potenzialità del sistema produttivo, problemi rispetto ai quali la risposta più efficace resta quella concepita da J. M. Keynes negli anni Trenta del Novecento. Se la ragion d’essere della sinistra, di qualsiasi sinistra, è la riduzione delle diseguaglianze, invertire la rotta non è un’opzione, ma una scelta obbligata.

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Nelle foto: in alto a sinistra la copertina del libro; a destra l'autore Thomas Piketty .

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(18.4.15) TU GALATRU TI CHIAMI... (Biagio Cirillo) - Un'altra bella poesia di Biagio Cirillo che da Bolzano compone versi, stavolta in vernacolo, che cantano il proprio paese. Versi pieni di nostalgia per la vita che vi si svolgeva un tempo, ma anche per le sue bellezze naturali che sono sempre attuali.

Tu Galatru ti chiami...

Oh quantu sini bellu e cotu cotu,
di pagghia non si' fattu e mancu i focu,
si' chìnu di lampiùni ad ogni via,
scordàri no mi pozzu mai di tìa.

U virdi non ti manca pe culùri,
c'attornu a ttìa è chinu d'alivàri,
no màncanu i profumi di li hjuri
a primavera supra l'arangàri.

Di acqua sini riccu cu 'i hjumari
chi cùrrinu cu gustu di currìri,
lu scrùsciu chi pe nùi è melodìa,
ncantàtu su pe sempri io di tìa.

Luntànu eni lu tempu, e non di pocu,
di quandu ndi scarfàvamu a lu focu:
nu morzu di carvùni, nu brascèri,
na pignatedha, u focu e nu bicchèri.

E' veru ca ti manca lu lavùru
e i figghi chianu chianu ti scappàru,
cercandu a ogni locu nu ripàru
si sistemaru e i tìa non si scordàru.

Puru si sugnu pòvari e modesti,
mi bastanu i paroli di sti versi
mu penzu li ricordi du passatu
restandu sempri i tìa annamuratu.

Tu Galatru ti chiami e, non pe casu,
nta zona sini u megghiu d'i paisi,
si fattu quasi comu nu presèpi
ti mangiarrìa senza sali e pipi.

Biagio Cirillo


Nella foto: panorama di Galatro.


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(29.4.15) INTERVISTA A DON GILDO SUL LIBRO DI UMBERTO DI STILO (Michele Scozzarra) - La Storia serve a farci capire da dove veniamo, cosa abbiamo alle nostre spalle: è la radice che ci rende saldi nel nostro cammino e ci fa sentire a casa, anche se ci troviamo dall’altro lato del mondo. In particolare poi, la Storia del nostro ambiente, dei “nostri” luoghi, che si inserisce nella nostra vita come parte fondamentale della nostra identità, e dobbiamo ringraziare chi, con il suo lavoro, contribuisce ad arricchire questo patrimonio.
Con l’ultimo suo libro
“Una Chiesa, una Parrocchia. Il secolare culto di Maria SS. della Montagna a Galatro”, Umberto di Stilo, oltre a far conoscere dei documenti nascosti per tanto tempo in archivi polverosi, ha saputo raccontarci, in tutte le sue vicende storiche e personali, la storia della Chiesa della Montagna, dalla sua nascita fino ai giorni nostri, presentandocela come realtà sempre vitale e pulsante. L’Autore, da studioso fine e appassionato, ha ben armonizzato tutti i documenti che ha trovato negli archivi vicini e lontani, senza tralasciare il senso e il “succo” di questi documenti; pertanto, ne restano affascinati sia gli estimatori appassionati della storia e delle nostre tradizioni, sia i lettori che vogliono solo conoscere la storia della nostra Chiesa.
Questo libro si presenta come una lucida e accurata analisi storica sulla Chiesa della Montagna di Galatro, con particolare attenzione agli aspetti, non solo religiosi, che per secoli hanno scandito i momenti più significativi della vita delle persone e del nostro paese, racchiudendo in se un patrimonio di notizie preziose: dall’elenco dei parroci che si sono succeduti, dalla fondazione fino ai nostri giorni, alla rievocazione delle cerimonie e degli antichi edifici sacri del nostro territorio… e non mancano di certo le curiosità, come ad esempio le antiche rivalità campanilistiche che, per lungo tempo, hanno visto contrapposte tante famiglie di Galatro e conseguentemente i due rioni storici.
Oggi, grazie a Dio, i tempi sono cambiati, anche per il lavoro dei parroci che hanno guidato la Chiesa di Galatro, fino ad arrivare alla unificazione delle due Parrocchie. Con don Gildo Albanese ho avuto modo, nelle scorse settimane, di discutere sulle riforme (rivoluzionarie per quel tempo) che hanno rappresentato l'inizio di un cammino di comunione che ha portato all'unificazione delle due parrocchie. E parlando della sua presenza a Galatro come parroco della Chiesa della Montagna per più di 12 anni, è venuta fuori una sua bella e spontanea testimonianza anche sul contenuto del libro di Umberto di Stilo.

L’ultimo libro di Umberto di Stilo, “Una Chiesa, una Parrocchia. Il secolare culto di Maria SS. della Montagna a Galatro”, racconta proprio la storia della “vostra” parrocchia: 400 pagine che vi toccano da vicino. Che cosa avete provato nel leggere un libro che, in buona parte delle sue pagine, inserisce anche il vostro servizio sacerdotale, che rappresenta una pagina di storia non trascurabile della vita della Parrocchia della Montagna di Galatro?
Prima di tutto ho provato semplicemente emozione, ma come ho avuto modo di affermare precedentemente, questo libro è avvincente perché coinvolge il lettore in tutto lo scorrere della storia della Parrocchia di Maria SS. della Montagna e ha un particolare pregio, quello di rendere presente il lettore nel tempo in cui gli avvenimenti si sono svolti. Sapevo di come con quanto amore ed entusiasmo Umberto di Stilo stava portando avanti questo lavoro anche perché ho avuto modo di trasmettergli del materiale a cui ha attinto.
In secondo, poiché ci sono dentro, il mio atteggiamento è quello di rendimento di grazie al Signore perché a distanza ormai di più di un quarto di secolo mi rendo perfettamente conto che quello che è stato realizzato nella Parrocchia non è opera di un solo uomo ma di una comunità che, se vuoi, si è lasciata coinvolgere dal mio entusiasmo giovanile e dalla voglia di concretizzare gli insegnamenti del Concilio Vat. II, ma in tutto questo non dobbiamo dimenticare che il protagonista è il Signore e noi siamo solamente strumenti nelle sue mani.

Nel suo libro Umberto di Stilo riesce a passare, con esaustivo excursus, su vicende legate alla storia della Chiesa di Galatro, ancora oggi rimaste controverse, anche perché, fino ad ora, erano basate su informazioni date superficialmente per “scontate”. Cosa vi ha colpito maggiormente nel libro sulla storia della Chiesa della Montagna, alla luce di quanto avete avuto modo di vivere direttamente, per oltre 12 anni, come Parroco di quella Chiesa?
Edificare una comunità non è facile per nessuno, soprattutto quando ti trovi ad avere a che fare con persone il cui modo di pensare era ancorato a determinati principi di tradizione. Debbo dire che il lavoro di semina è stato paziente, costante e con molta gradualità. In tutti i miei anni di Galatro ho potuto sperimentare la fede di questo popolo attaccato a Gesù Cristo e alla Chiesa, che ha saputo con sofferenza e coraggio adeguare la sua visione di Chiesa al novum per implantare una Chiesa conciliare. Nonostante le apparenze, per me questo è il lato più forte che ho riscontrato nella mia Parrocchia di allora, l’intelligenza di sapere accogliere e accettare la Chiesa così come veniva proposta loro. Certamente in questo lavoro io sono stato aiutato da un mio predecessore, Don Antonio Teti, Parroco negli anni trenta del secolo scorso che a quel tempo ha saputo portare una ventata di novità soprattutto con la formazione cristiana dei giovani che lo hanno seguito entusiasticamente perché era un prete che credeva. Quei giovani di allora erano gli adulti del mio tempo a cui debbo molta gratitudine perché ricordandosi dei cambiamenti pastorali in parrocchia nella loro gioventù mi hanno dato una grossa, invisibile, mano di aiuto, in questo la famiglia è stata determinante. Narrare esperienze del passato deve aiutarci a capire che se vuoi costruire il presente devi avere la memoria del passato e lo sguardo rivolto verso il futuro.

Questo libro è un contributo e un servizio alla conoscenza della storia locale, all’interno della quale i fatti legati alla Chiesa della Montagna hanno avuto delle lunghe e contrastate vicende, che vale la pena, grazie al lavoro del prof. Umberto di Stilo, scoprire e conoscere. Quale insegnamento, secondo voi, viene fuori dalla lettura di questo documentato e minuzioso libro, che pur narrando vicende, talvolta dolorose della vita della Chiesa locale di tanti anni addietro, lo rende attuale per la vita della Chiesa dei nostri giorni?
Quando si lavora nella e per la Chiesa il punto di riferimento è Gesù Cristo. In Lui dobbiamo saper leggere la nostra vita. Nella Sua vita niente è stato secondo la visione mondana, anzi Gesù Cristo ci ha insegnato, dandoci l’esempio, che bisogna piacere più a Dio che agli uomini. Questo vale per ieri come per oggi. È chiaro che quando si lavora per il Vangelo incontri la croce che devi saper assumere come parametro, ma incontri anche la gioia. A Galatro ho avuto gioie e dolori, le gioie hanno superato di gran lunga i dolori. Quello che ho voluto mettere come prioritario nel mio servizio a Galatro è che non bisogna lavorare mai per se stessi, per essere autoreferenziali e questo, mi sembra emerge da tutto quanto scrive il Prof. di Stilo; guai a lavorare per apparire simpatici e consenzienti, ti ritroveresti alla fine con molti applausi ma con in mano un pugno di mosche!

Dal libro di Umberto di Stilo emerge la grande importanza di conoscere le pagine di storia che hanno segnato la vita delle nostre piccole comunità, e in questo senso non possiamo non intendere la storia della nostra Chiesa come elemento inscindibile della storia e cultura di Galatro. La nostra realtà parrocchiale così come raccontata nel libro è l’insieme di un certo tipo di fede, di spiritualità (talvolta portata all’esasperazione fino a generare conflitti tra le due fazioni del paese), di tutta una concezione della vita, maturata e cresciuta intorno alla Chiesa dove la nostra gente si è sempre riconosciuta. Oggi, possiamo dire che è ancora così, oppure c’è stato un progressivo allontanamento della Chiesa dalla gente… o della gente dalla Chiesa?
È proprio vero perché non basta conoscere la grande storia, è necessario conoscere quella storia fatta di piccoli e a volte insignificanti avvenimenti che appartengono a tutte le persone e a tutte le comunità. Se posso fare una digressione, penso che l’insegnamento della storia nelle scuole non debba assolutamente ignorare la storia locale; personalmente ho incominciato a interessarmi della storia del nostro territorio da adulto perché ne sentivo la necessità e perché la scuola mi ha fatto imparare quella nazionale e continentale secondo una visione distorta e non mi ha aperto alla conoscenza della storia del mio territorio sulla quale ci siamo formati senza conoscerla. Perché il libro del Prof. Di Stilo non viene proposto agli alunni delle nostre scuole per conoscere il loro passato? Circa la seconda parte della domanda a mio parere non c’è tanta differenza tra ieri e oggi nel rapporto dell’uomo con la fede, io vedo l’uomo come “religiosus” e mi riesce difficile concepirlo diversamente perché la religione ha in sé il concetto dell’alterità, apre ad un “Tu Altro” e ad un “tu” simile a te. La differenza sta nel modo di vivere questa dimensione umana, ieri aveva più il senso dell’emotività e del sentimento, oggi ha più il senso della scelta personale e pensata.

Questo libro può ben essere definito come una grande “opera omnia”, che raccoglie in maniera completa e documentata le vicende legate alla chiesa della Madonna della Montagna: dalla richiesta di costruzione di una nuova Chiesa, alla realizzazione della Statua, all’acquisto delle corone, fino ad arrivare ai momenti più importanti della tradizione: i pellegrinaggi alla Cona. La preparazione della festa per il 25° dell’incoronazione del 1981 è stata un grande evento, che vi ha visto partecipare come parroco della Chiesa della Montagna. Ricordo bene quel momento e penso che, forse, sia stato uno dei gesti più intensi, almeno a livello d’impegno e preparazione dei fedeli, della vostra presenza a Galatro. Come ricordate oggi, a distanza di più di 30 anni, quel momento?
Certamente! Perché la Chiesa, come affermava S. Giovanni XXIII, è come la fontana del villaggio a cui tutti vanno ad attingere e tutti disseta, sia quelli che hanno grande sete, sia quelli che ne hanno poca; a seconda del tempo c’è una diversità di accostarsi. Riguardo agli eventi a cui hai accennato, mi fermo a quelli che mi hanno visto protagonista. I pellegrinaggi alla Cona e il Giubileo parrocchiale del 1981 per fare memoria del 25°dell’incoronazione.
Per la formazione pastorale che ho ricevuto in Seminario nella mia vita di pastore, non ho seguito l’improvvisazione o altre motivazioni se non quelle che servivano per far crescere il mio popolo nella fede e nell’incontro con Cristo, per cui tutte le scelte pastorali come quelle sopra accennate, erano dentro un programma nel quale mi sforzavo, con molta pazienza, di coinvolgere la partecipazione della comunità. Alla prima del 1974,che per me era un’esperienza nuova, ne seguirono altre ma tutte in rapporto ad un cammino pastorale della Parrocchia, se ben ricordo una in occasione della Prima Comunione dei fanciulli della montagna, era la prima volta che il sacramento veniva celebrato in montagna; un’altra durante la celebrazione della Missione Parrocchiale in montagna con la presenza dei cari Padri della Salette (P. Celeste, P. Umberto., P. Elpidio), l’altro nel 1981.
A distanza di 30 anni questi eventi sono talmente impressi nella mia memoria e nel mio cuore che spesso… sogno di essere ancora a lavorare a Galatro. A parte la battuta che è vera, sono eventi elaborati, costruiti e realizzati non da me solo, perché la Chiesa, come scriveva il Beato Paolo VI, non è opera di navigatori solitari, ma da un popolo, da una comunità viva, e questa è stata la bellezza di quel tempo che ancora mi stupisce perché nell’entusiasmo di quegli anni c’era viva la presenza del Signore e per questo non cesso di rendere grazie a Lui! Come si può dimenticare la gioia che trasudava dal volto dei pellegrini, fanciulli, giovani e anziani, per cui la fatica del cammino non era stanchezza e come dimenticare la marea di popolo che alla Villa aspettava la Sua Madonna per accompagnarla solennemente in Chiesa! Tutto questo resta nel mio cuore! Posso dire: “fecit mihi magna qui potens est”.

Ho letto un vostro pensiero sul libro di Umberto di Stilo, dicevate di “ritrovarvi pienamente nel racconto che emerge dal libro…”. Volendo esprimere un invito a chi legge, di entrare con la mente e con il cuore nella storia e negli avvenimenti di quegli anni, egregiamente descritti, cosa vi sentite di dover dire a un lettore attento e desideroso di conoscere la storia di questa porzione della Chiesa di Galatro, anche con tutte le difficoltà e lotte che hanno segnato un’epoca e non sempre sono stati edificanti?
Cosa posso dire? Sono tante le sollecitazioni che mi balenano dento il cuore e che vorrei riassumere con una frase dei Padri della Chiesa: “Agnosce, christiane, dignitatem tuam”, che mi sento di tradurre così: “Riconosci, o galatrese, che in Maria c’è tutta la pienezza del tuo essere e non ti dimenticare che la tua storia di ieri, oggi e domani è impregnata di valori che hanno in Maria la sua piena realizzazione; non ti vergognare di Lei e abbi il coraggio di testimoniare sempre il Suo Figlio, Gesù. Ricorda che più cerchi di dimenticare la fede e più ti insegue perché appartiene al tuo DNA”.

Nelle foto, dall'alto in basso: Michele Scozzara; Don Gildo Albanese; la copertina del libro di Umberto Di Stilo; cittadini intorno al palco in attesa del concerto di mezzogiorno il 7 settembre 1956; lapide nella chiesa che ricorda la sepoltura di Caterina Defelice Protopapa vedova Barone; l'altare della chiesa della Montagna come si presentava nei primi anni '50 (foto tratte dal libro di Umberto Di Stilo).

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(1.5.15) LA COMPAGNIA TEATRALE "VALLE DEL METRAMO" SI AFFILIA ALLA F.I.T.A. (Federica Crea) - Cari lettori, è con soddisfazione che vi comunico ufficialmente che la Compagnia Teatrale Galatrese “Valle del Metramo” dal 20 Aprile 2015 è affiliata alla F.I.T.A. (Associazione Italiana Teatro Amatori).

La FITA - come si legge dal sito
www.fitateatro.it - è una federazione di associazioni culturali, artistiche ed in particolare di teatro amatoriale senza fini di lucro, apartitica e aconfessionale. Ha lo scopo di stimolare e sostenere la crescita morale, spirituale e culturale dell'uomo attraverso ogni espressione dello spettacolo realizzato con carattere di amatorialità. Promuove la diffusione dell'arte teatrale e dello spettacolo in ogni sua forma; nonchè l'utilizzo, la gestione ed il recupero degli spazi teatrali e/o teatrabili.
Ad oggi risultano affiliati in tutta Italia quasi 1.500 associazioni artistiche con oltre 20.000 soci. La FITA organizza e promuove: Rassegne e festival nazionali, regionali e provinciali; videofestival; Premio "Fitalia"; Festa del teatro; corsi di regia e recitazione; informazioni con il periodico "Servoscena"; attività internazionale; Accademia dello spettacolo; concorsi per giovani autori; attività internazionale con la COEPTA - gemellaggi con gruppi italiani ed esteri. Organizza eventi nazionali: FESTIVAL NAZIONALE DI VITERBO; FESTA DEL TEATRO; ACCADEMIA DEL TEATRO ITALIANO riservata ai giovani attori e registi; FORMAZIONE QUADRI; ASSEMBLEA GENERALE DEGLI ISCRITTI. Promuove eventi sul territorio tramite le sue strutture: rassegne regionali e provinciali; concorsi per attori; convegni; pubblicazioni a carattere regionale e provinciale; concorsi per autori teatrali iscritti alla FITA.
La FITA è inoltre: ente di promozione sociale riconosciuto dal ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali; iscritta con Decreto del 10.6.2008 al numero 149. L'iscrizione consente alle associazioni affiliate di essere riconosciute EPS, con tutti i vantaggi conseguenti. E’ l’unica federazione di teatro amatoriale; affiliata AGIS (Associazione generale italiana dello spettacolo), con la quale collabora in numerose e prestigiose iniziative. La tessera del socio dà diritto alla riduzione Agis negli ingressi agli spettacoli; affiliata al C.S.A.IN. (centri sportivi aziendali industriali) "ENTE DI PROMOZIONE SPORTIVO E CULTURALE", riconosciuto dal ministero dell'interno e dal coni. Le associazioni affiliate sono presenti nella pubblicazione "Tempo sport" diretta dal giornalista Giacomo Crosa.
La FITA è socio fondatore della COEPTA "Confederazione Europea per il Teatro Amatoriale", che ha lo scopo di coordinare l'attività delle federazioni di teatro amatoriale dei paesi aderenti all'Unione Europea. Con essa partecipa a progetti europei; è socio fondatore dell'AITA-IATA (Associazione Internazionale Teatro Amatori), organismo internazionale di promozione culturale è riconosciuto dall'UNESCO; è componente del CIFTA (Comité International des Fédérations Théatrales Amateurs de Culture Latine); ha aderito all’iniziativa Carta dello Studente promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dal Ministero dell’Istruzione, dall’UNESCO – Comitato Nazionale per l’Italia e dall’Agis, grazie alla quale tutti gli studenti sino alle scuole secondarie hanno ricevuto una carta personalizzata che consente di ottenere una sensibile riduzione sui biglietti di ingresso a Biblioteche, Musei, siti artistici, cinema e teatri.
La FITA ha aderito alla campagna internazionale di Amnesty International – Small Places Tour – per la ricorrenza dei 60 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani; è partner di Agiscuola e del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca - Dipartimento per l’istruzione - Direzione generale per il personale scolastico - nella sezione teatro del progetto nazionale “I COME INTERCULTURA” riservato alle scuole secondarie per l’anno scolastico 2008-2009; è partner con l’ETI, con l’AGIS e con l’AGITA per le celebrazioni della Giornata Mondiale del Teatro 2010.


Lo porto a conoscenza dei lettori perché si tratta di una bella realtà per il nostro paese e di un’opportunità di sviluppo artistico-culturale da portare avanti con buona volontà, impegno costante e semplicità. Questa associazione culturale - come tutte le formazioni sociali in genere - contribuisce alla crescita e allo sviluppo della persona che intenda dare il contributo per il bene comune. Questa compagnia infatti - in base agli artt. 1 com. 2 e 4 dello Statuto - non ha scopo di lucro e persegue il fine esclusivo della tutela e valorizzazione della cultura, del patrimonio storico ed artistico; educazione permanente e attività di animazione ricreativa, attraverso ogni espressione di creatività; valorizzazione artistica e ludica nel campo della recitazione, del teatro, della danza e della musica dal vivo caratterizzandosi e qualificandosi come organizzazione di volontariato ai sensi della L. 11 Agosto 1991 n. 266.
Una bella realtà, dunque, per il presente ma anche per chi (specialmente i giovani) in futuro voglia, liberamente, costruire qualcosa di positivo per se stessi e per il paese. Auspico, pertanto, che possa dare buoni frutti e non sia, a lungo andare, concretamente sterile.
Ringrazio il referende nazionale della FITA nella persona di Minniti per il costante supporto tecnico nella procedura on line di affiliazione.
Porto a conoscenza, inoltre, che non oltre il 31 Luglio 2015 verrà pubblicato il bilancio consuntivo dell’attività annuale del 2013 e del 2014. Colgo l’occasione per ringraziare l’Amministrazione comunale per il contributo concesso a questa associazione, inerente l’acquisto del servizio audio di amplificazione, che questa compagnia provvederà ad acquistare non oltre il 31 Luglio 2015, fornendo la dovuta rendicontazione con le relative pezze giustificative allegate.
Ringrazio, infine, la redazione di Galatro Terme News per averci concesso la possibilità di diffondere queste positive notizie.

Ecco Curriculum e Vademecum dell'Associazione Culturale "Valle del Metramo":

La Compagnia Teatrale Galatrese ”Valle del Metramo” parte da molto lontano. Affonda le sue radici nella metà degli anni '80, ai tempi della vecchia Compagnia teatrale galatrese. Nasce nel salone della Chiesa di San Nicola, dopo una recita di carnevale fatta tra amici e frequentatori della parrocchia.
L’associazione culturale (teatrale) “Valle del Metramo” viene costituita giorno 23 Luglio 2013. L’atto Costitutivo e il relativo Statuto vengono registrati in data 29 Luglio 2013 presso l’Agenzia delle entrate” di Palmi.
Dal 20 Aprile 2015 è affiliata alla FITA (Federazione Italiana del teatro amatoriale)

FINALITA’
L’associazione “Valle del Metramo” (in base agli artt. 1 com. 2 e 4 dello Statuto):
- non ha scopo di lucro
- persegue il fine esclusivo della tutela e valorizzazione della cultura, del patrimonio storico ed artistico;
- educazione permanente e attività di animazione ricreativa, attraverso ogni espressione di creatività; - valorizzazione artistica e ludica nel campo della recitazione, del teatro, della danza e della musica dal vivo;
- si caratterizza e qualifica come organizzazione di volontariato ai sensi della L. 11 Agosto 1991 n. 266.

ATTIVITA’ ESTERNE
- 1986 “ Gatta ci cova”
- 1987 “L’eredità du ziu bonanima”
- 1989 “I morti non paganu i tassi”
- 12 Agosto 2013 partecipazione alla “1° Rassegna teatrale” organizzata dal Comune di Galatro, con lo spettacolo teatrale con la commedia farsesca di Pietro Scammacca e Pippo Barone “U figghiu masculu”.
- 13 Agosto 2013 Spettacolo teatrale con la commedia farsesca di Pietro Scammacca e Pippo Barone “U figghiu masculu” rappresentato a Feroleto della Chiesa.
- 25 Agosto 2013 partecipazione alla manifestazione artistico (culturale) dell’estate 2013 organizzata dal Comune di Rosarno.
- 6 Settembre 2013 partecipazione alla Rassegna teatrale organizzata dalla associazione Pro loco di San Calogero.
- 1 Agosto 2014 partecipazione manifestazione artistico culturale (teatrale) dell’estate 2014 organizzata dal Comune di Polistena all’Anfiteatro, con la commedia brillante in tre atti “Quandu è troppu… è troppu” di A. Leotta, M. Leotta e Cannata.
- 14 Agosto 2014 partecipazione alla “2a rassegna teatrale galatrese” organizzata dal Comune di Galatro con lo spettacolo teatrale “Quandu è troppu… è troppu”.
- 21 Agosto 2014 partecipazione alla manifestazione artistico culturale (teatrale) promossa dal Comune di Cinquefrondi, in Piazza Castello, con la commedia brillante in tre atti “Quandu è troppu… è troppu”.
- 7 Settembre 2014 partecipazione alla “XXVIIa edizione della rassegna San Costantinese” organizzata dal Comune di San Costantino Calabro, con il patrocinio della Regione Calabria, in provincia di Vibo Valentia, con la commedia brillante “Quandu è troppu… è troppu”.
- 19 Marzo 2015 partecipazione alla manifestazione “Festa San Giuseppe” organizzata dal “Comitato Festa San Giuseppe”della Parrocchia San Giuseppe di Taurianova, con la commedia brillante “Quandu è troppu… è troppu”.

MOTIVAZIONI
Volontà di dare un messaggio di speranza, attraverso il teatro, alle nuove generazioni presenti sul territorio, di fronte ad una crisi non solo economica, ma soprattutto di valori umano-sociali che coinvolge Galatro, la Calabria, l’Italia intera. Crescita umana, sociale e culturale. Forte passione per il teatro. Ridare speranza ai giovani costretti ad emigrare al nord o all’estero.

MODALITA’ DI SVOLGIMENTO DELLE ATTIVITA’ INTERNE
- Concretizzazione di un progetto che coinvolga bambini, giovani e adulti che nel loro piccolo, ognuno con le proprie esperienze, conoscenze e capacità, intendano dare la propria disponibilità per costruire qualcosa di positivo per il paese;
- realizzazione di un programma di attività culturale che possa regalare un sorriso ma anche far riflettere sulle potenziali risorse di cui possiede il nostro territorio;
- esclusione di atteggiamenti pessimisti e/o scoraggianti;
- volontà costruttiva delle risorse;
- creatività, semplicità, buoni propositi di migliorare se stessi attraverso l’apertura, la solidarietà, l’integrazione, l’impegno costante;
- consapevolezza che “affinchè una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere” (Falcone).
- concretizzazione dell’attività culturale con l’arricchimento dei progetti teatrali di contenuti;
- cura dell’interpretazione dei personaggi con lo sforzo di renderli il più possibile attinenti alla realtà quotidiana affinchè il teatro sia vero e concreto e non ipocrita o solo accennato.


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(7.5.15) A 37 ANNI DALLA MIA PARTENZA DA GALATRO, DUE POESIE NELLA CRISI (Biagio Cirillo) - Il primo Maggio 2015, conto 37 anni dalla mia partenza da Galatro per andare a Bolzano. Sono stati 37 anni di duro lavoro ma svolto con soddisfazione. Il 2015 purtroppo non si è rivelato un buon anno. La crisi ha colpito anche noi e con amarezza, dopo 26 anni, sono stato costretto a licenziare tutti i miei dipendenti.
Oggi vi regalo due poesie: una in italiano e una nel nostro dialetto galatrese. La prima parla del sole e di quello che gli sta attorno, nella seconda parlo del disagio degli italiani con l'arrivo degli immigrati.
Un saluto a tutti da Bolzano.

Il sole

Ho visto il sole alto nel cielo,
scaldava forte e mi fece nero,
l'albero solo mi dette aiuto,
mi fece ombra e mi sono seduto.

Ho visto il sole insieme alla luna,
mi disse che avrebbe portato fortuna,
lo vidi all'alba, lo vidi al tramonto,
mi fu impossibile fare un confronto.

Davanti al sole passava la luna,
mi fece ombra con la sua chioma,
mi proteggeva dai raggi del sole
pensando fosse la cosa migliore.

Quando una nuvola vola nel cielo
diventa grigia e lo veste di nero,
poi con l'aiuto potente del sole
viene bel tempo oppure piove.

Vedo il sole sparire dal cielo,
davanti all'azzurro calare il sipario,
milioni di stelle nel cielo apparire
e tutti i bimbi felici dormire.

La terra, il sole, la luna e le stelle
sono da sempre le cose più belle,
lontano brilla nel cielo il sole,
splende da sempre scaldandoci il cuore.
  Zìngaru

Si zìngaru non sini
e mancu forestèri,
pìgghjala 'nto culu
e téniti i penzèri.

Si cu la famìgghja
volìti stari boni,
scappativìndi all'esteru
e tornati cu 'i gommòni.

Jettàti i documenti
così v'i fannu novi,
non avìti cchiù penzèri
si nivica o si chiovi.

Vi dùnanu nu stipendiu
a ogni fini misi,
vi pàssanu i mangiàri
e vi fati quattru arrìsi.

Si sini italianu
e resti sempri onestu,
ti méntinu la cruci
comu fìciaru cu Cristu.

A vògghja u paghi tassi
o 'u vai pemmu reclàmi,
pe lu guvèrnu nostru
tu poi morìri i fami.

E' mégghju u sini zìngaru
ca mu sini italianu,
e si non càngia nenti
'nto culu nda pigghjàmu.
  
 

Nelle foto: il sole e un gommone di immigrati.


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(8.5.15) MAX FORMICA, UN ROCKER GALATRESE IN USA CON LA SUA BAND - La band milazzese dei Sikana, il cui fondatore è Max Formica, chitarrista e vocalist di origine galatrese, si esibirà il prossimo 16 Maggio al Madison Theatre di Long Island, New york, in occasione del festival organizzato dalla comunità italo-americana.
Max Formica ha trascorso buona parte dalla sua infanzia e prima giovinezza nel rione Crocevia (Giudecca) di Galatro, dove abitavano i nonni. Ora è leader di questa nuova rock band, i Sikana, per la quale scrive testi e musiche.
I “Sikana” sono nati alla fine del 2012 come una vera e propria scommessa con lo scopo di vincere contro gli stereotipi di cover band. Dopo vari cambi di formazione hanno trovato un assetto stabile nell’Aprile del 2013 e la line-up vede alla voce Max Formica (Phoenix ), alla chitarra Aldo Cannarella (Kerosene), al basso Giovanni Costa (Yuri) e infine alla batteria Luca Pitrone (Rain).
Sin da subito la band ha iniziato la produzione di brani esclusivamente inediti, frutto dall’osmosi delle diverse influenze ed esperienze musicali di ognuno dei suoi componenti che a Settembre 2013, sono sfociate nell’EP di debutto autoprodotto, intitolato “La Rondine”. L’EP, comprensivo di 3 brani (Ibrido, Paura e Sinusoide) che ha ottenuto un buon riscontro di pubblico sia sul web che nelle radio.
Successivamente il gruppo ha prodotto un'ulteriore traccia, con lo stesso nome della band, che ha anticipato l'uscita dell'album di debutto "Sinapsi Neuronica". L’album comprende 12 brani di cui uno intitolato “Non so cos’è” nato da una collaborazione con Angelo Arcamone conosciuto grazie alla prestigiosa Associazione Muovilamusica.
Grazie all’interesse e la curiosità scaturita da questo primo album i Sikana si sono guadagnati un bellissimo articolo sulla blasonata rivista musicale “Musical News” e da lì a poco l’entusiastica presentazione al mondo da parte di Daniela Celella del Network Americano ICN – New York che da anni collabora con Rai International, da sempre attenta alla musica made in Italy. Il caloroso riscontro avuto negli USA si è trasformato in una entusiasmante richiesta di presenziare in qualità di ospiti all’Oltreoceano Festival che si terrà il prossimo 16 Maggio al Madison Theatre di New York.
Il secondo album dei Sikana - "Cosmo erogeno" - verrà distribuito nel mese di Giugno 2015 dalla Over Play Music su tutte le più importanti piattaforme musicali. Il messaggio più importante che i componenti della band vogliono condividere è "che nonostante tutto e tutti non bisogna mai arrendersi di fronte agli stereotipi che impone il mondo che ci circonda e quindi la libertà di sognare, il fatto che si può essere trasgressivi conducendo una vita normalissima e soprattutto la libertà di pensiero nel massimo rispetto di chi sostanzialmente la pensa e vive in un altro modo."

ASCOLTA UN BRANO DEI SIKANA

Sinapsi neuronica


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(30.6.15) LA TRATTATISTICA DI PITAGORA (Raffaele Mobilia) - Nell’ambito della Storiografia musicale, così come per ogni disciplina riguardante la ricostruzione storica del patrimonio culturale di una determinata civiltà vissuta in un lontano passato (millenni fa), è di fondamentale importanza disporre delle fonti, che attraverso il processo dell’elaborazione scritta, ci possano fornire le informazioni originarie relative a quel tipo di cultura, documentate e quindi trasmesse nel corso dei secoli. Ovviamente, esiste un “gap” tra ciò che sappiamo e tutto ciò che potremmo sapere se il processo di invenzione e codificazione della scrittura fosse avvenuto prima, e se i documenti che cerchiamo e di cui disponiamo fossero più numerosi.
E’ certo che la musica nacque molto prima della sua rappresentazione grafica. Nel caso della musica esistente all’epoca dell’antica Grecia, abbiamo poche e frammentarie testimonianze scritte, sia dirette che indirette. Rispetto agli altri popoli antichi, precedenti o coevi, i Greci concepirono una funzione della musica non solamente finalizzata al culto degli dei, ma anche ricreativa, celebrativa e – soprattutto – educativa. Per Omero, figura mitica di poeta cieco che concepì e tramandò oralmente (in forma di dettato poi trascritto) i colossali poemi “Iliade” e “Odissea”, la musica era il miglior esercizio per l’ozio (inteso alla atina=”otium”, cioè non solo riposo del corpo e dello spirito, ma studio, coltivazione ed elevazione di quest’ultimo); è certo che, ai tempi di Omero (VIII sec. a. C. ), la musica era parte integrante dei poemi che venivano declamati dagli aedi, in forma rigorosamente monodica, con l’accompagnamento di uno strumento a corde (lira o forminx).
Per gli antichi Greci la vera cultura musicale, degna di essere trasmessa alle generazioni successive con la stesura scritta, era quella astratta, logica e speculativa, coltivata dai matematici e dai filosofi. Si trattava pertanto della scienza acustica puramente teorica, o - per meglio dire - del pensiero sulla musica, piuttosto che della musica in sé stessa. Era il logos, il principio da cui scaturiva la musica e la faceva funzionare sia a livello percettivo, che compositivo ed esecutivo, nonostante per gli ultimi due aspetti - e, in particolar modo, per il terzo - cioè l’esecuzione, si richiedessero, ovviamente, l’esercizio di un repertorio di competenze e abilità che però venivano allora affrontate e risolte empiricamente e in maniera principalmente estemporanea.
Questo tipo di atteggiamento giustifica la scarsezza di musiche scritte pervenuteci; così come per Socrate scrivere la filosofia per tramandarla ne avrebbe distorto la vera natura, nello stesso atto di imprigionarla e cristallizzarla nella parola scritta, se ne sarebbe cioè disperso la parte migliore - la sua vera essenza o “anima” - poichè non sarebbe stato più possibile il dialogo dialettico - sempre dinamico, in continuo movimento - tra discente e maestro (e viceversa), così la “staticità” della rappresentazione scritta avrebbe naturalmente “ucciso” il flusso dei suoni e delle note, immobilizzandolo e pietrificandolo in un eterno ma amorfo presente. Per fortuna, ci è comunque sopraggiunta una gran mole di documentazione letteraria e trattatistica, con cui è stato possibile ricostruire - e quindi immaginare - il mondo musicale degli antichi Greci.
Dalla concezione sopra descritta, derivò una scissione tra il mondo e il modus operandi dei teorici e quello degli esecutori: i primi si occupavano di indagare sul funzionamento acustico e razionale della musica; i secondi pensavano a mettere direttamente in pratica e i maniera concreta le loro conoscenze musicali, cioè a suonare, risolvendo, qualora si fossero presentati, eventuali problemi di prassi in fase esecutiva.
E’ possibile suddividere le fonti trattatistiche in due filoni: la trattatistica di tipo acustico-filosofico e quella di tipo teorico. La prima, risalente al VI sec. a. C., fu inaugurata da Pitagora, grande filosofo, matematico e scienziato dell’Antichità e considerato addirittura il fondatore del pensiero musicale della Grecia classica. La seconda, posteriore di due secoli, fu inaugurata da Aristosseno, uno degli allievi di Aristotele (a sua volta, allievo di Platone).
La scuola pitagorica teorizza la musica sia come armonia dello spirito e degli astri, sia come suprema sophia (sapienza), che associa anima e cosmo. Per Pitagora, tutto è numero: l’ordine dell’universo (cosmos) è retto da una intrinseca armonia che va ricercata ed espressa come rapporti numerici di grandezze prestabilite. Cosicchè la musica, massima espressione dell’ordine cosmico (in cui regna la sublime musica delle sfere), ha leggi che si possono rivelare e stabilire con proporzioni costanti, equivalenti alle forze che regolano gli equilibri dell’intero universo. Tali proporzioni sono rappresentate dai rapporti che esprimono le consonanze fondamentali - quelle perfette - scoperte da Pitagora.
Egli, da scienziato ante-litteram qual era, unì alla speculazione teorica anche una sperimentazione musicale pratica, che lo portò a ricavare i singoli suoni della scala diatonica per sollecitazione di un monocordo, semplice strumento musicale costituito da una corda vibrante su di una cassa armonica (di solito di materiale ligneo). In tal modo, visualizzando e misurando la distanza delle note sulla corda, Pitagora elaborò un sistema di accordatura dell’ottava musicale, cioè il temperamento. Fu così che gli intervalli musicali furono definiti secondo il rapporto tra grandezze commensurabili (ratio) corrispondente, per le consonanze più gradevoli all’orecchio (quelle “perfette”) ai valori di 2/1 per l’ intervallo di ottava, 3/2 per l’intervallo di quinta e 4/3 per quello di quarta.
Nel sistema musicale occidentale odierno, utilizziamo un temperamento equabile, in cui le 12 note costituenti l’ottava sono situate alla stessa distanza tra loro, quella di un semitono.

Nella foto: Pitagora.


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