Sin dalle arcaiche origini cristiane, quello della lingua è stato sempre un concetto straordinariamente ricco di dogmi e di altrettanti fonetici suoni che, nella notte dei tempi, hanno delineato la propria ed armoniosa forma attraverso la personale percezione da parte di ogni essere umano, delle passeggere ali dell’etere che sovrastavano imperturbanti i cieli di tribù e popolazioni dalle varie etnie.
Già dal libro della Genesi, nell’episodio sulla costruzione della Torre di Babele, si narra del leggendario progetto di Dio attraverso il quale si spiega mitologicamente per la prima volta l’importanza e l'origine delle differenze dei linguaggi tra gli uomini che popolavano, allora come oggi, ogni angolo della terra mediante la diversità oggettiva del più prezioso degli strumenti terreni: il linguaggio.
L’immortalità del fenomeno, ancora oggi, benché invisibile al nostro orizzonte temporale è da sempre in continua evoluzione; nel corso dei secoli moltissime sono state le graduali trasformazioni di carattere sintattico e lessicale che hanno favorito le innumerevoli opere volte all’analisi tra le differenze e le somiglianze sussistenti nelle diverse lingue, trascurando intenzionalmente in modo critico ciò che invece secondo il nostro brillante e poliedrico autore racchiude da sempre i segreti della comunicazione, ovvero il goliardico studio della linguistica diacronica che con il presente volume lo studioso ha tradizionalmente messo in risalto.
Il XIX secolo in particolar modo, grazie al crescente affermarsi degli studi filologici, ha concesso l’esordio antropologico del settore, attraverso lo studio e l’uso di nuove terminologie destinate a designare l’antenato comune della forma linguistica originale (proto), da cui provengono le lingue moderne parlate nel contemporaneo continente europeo. Tale trattazione, grazie all’esegesi delle fonti del nostro autore, rappresenta l’attuazione del particolare procedimento attraverso il quale, paragonando alcune forme linguistiche appartenenti a due o più lingue imparentate, è possibile ritrovare la forma originaria esistente nella lingua antenata comune (c.d. Protoforma).
La pronuncia, la forma lessicale e l’ordine degli elementi che nella frase indicano la chiave di ascolto della fonetica primordiale, sono stati per lo studioso candidonese, le basi da cui l’opera ha avuto origine, oltre che la fonte più rilevante di cambiamento linguistico insieme a tanti altri mutamenti sociali, storici e culturali che hanno favorito il processo di trasmissione, per tradizione, da una terra anticamente ed autenticamente legata all’agricoltura ed alle tradizioni religiose dall’esemplare rarità.
Attraverso il processo di cambiamento fonetico, consistente nello spostamento dei suoni all’interno della parola (definito Metatesi), la prefata presentazione prende in esame la variazione dal punto di vista diacronico nella prospettiva storica, ma giunge al culmine attraverso quella variazione sincronicamente linguistica, riferendosi allo stato attuale di una data lingua, che può essere largamente concepito tramite tanti altri fattori spazio-temporali come il luogo e la società che lo domina; tutti elementi di un importante studio sociolinguistico di cui il nostro autore, dalle molteplici risorse culturali, ne è l’odierno locale cultore per eccellenza.
Domenico Coco
Nella foto: la copertina del Vocabolario del lessico di Candidoni.
Un lettore superficiale non avrebbe dubbi: Rocco Cosentino ha operato una conversione, passando al memoir dopo i due noir e il noir storico L’eloquenza del silenzio che, lo dico incidentalmente, non m’ha convinto per una questione, fatta presente all’autore, che riguarda l’aggettivo, storico, non certo il sostantivo, noir.
Se i libri dovessero essere soltanto classificati, se la cosa più importante fosse la tassonomia, allora il lettore superficiale avrebbe ragione: il nuovo cimento letterario del magistrato-scrittore, o se preferite dello scrittore-magistrato - che, lo dico ironicamente senza ironia, può fregiarsi della qualifica di mio ex alunno, nei primissimi anno Novanta, presso il liceo scientifico “Guerrisi” di Cittanova - il nuovo cimento letterario di Rocco Cosentino, dicevo, segnerebbe una conversione, una svolta, una metabasis eis allo ghenos, un passaggio ad altro genere. Invece le cose stanno ben altrimenti, non essendoci alla base del cambiamento, per essere esatti, di sottogenere, non di genere letterario, un cambiamento di visione del mondo, che è l’identica trasfusa nei romanzi che precedono Nata sotto il segno del cancro e che anche questa volta si traduce in uno stile letterario quanto mai adatto a raccontare le diverse declinazioni del Male – Male con la emme maiuscola - nella società e nella storia, seguendone l’evoluzione in uno specifico contesto fino al momento, più o meno finale, nel quale si svela al lettore la funzione dialettica o, se volete, catartica di esso.
E’ lo stile di scrittura a far sì, nelle prove precedenti, che la macchina narrativa di Cosentino proceda fluida, senza strappi, in apparente e singolare contrasto con una materia zeppa di casi di difficile decifrazione e di vicende ad alto tasso adrenalinico, eventi attraverso i quali si disegnano tanto la statica quanto la dinamica del Male, con la seconda che si innesta sulla prima, cioè su modi d’essere, di pensare, di vivere rispetto ai quali ciò che accade - e che accadendo spezza l’equilibrio cosmico e microcosmico - darebbe l’idea di una casuale quanto inspiegabile comparsa, mentre ha proprio nello sfondo della narrazione, negli ambienti e nei personaggi che lo costituiscono, la sua causa efficiente e finale, tanto fisica quanto metafisica. Il Male, che sembra erompere “senza ragione” dalla normalità in cui i protagonisti si trovano immersi, li induce, dopo avere misurato lo spessore e l’impatto esistenziali di “ciò che in generale capita e in particolare gli capita”, ad indulgere in domande metafisiche, tanto inevitabili quanto senza convincente risposta.
Analogamente in Nata sotto il segno del cancro la malattia (che è il modo d’essere e di manifestarsi del Male nello specifico contesto di questo memoir) erompe da (o irrompe in) un’esistenza che appare normale, immersa in quella che si potrebbe definire la banalità del quotidiano, scatenando una lunga serie di domande tra virgolette “metafisiche”, a partire dalla classica, “perché proprio io?” anche qui destinate a rimanere sostanzialmente senza convincente risposta. Senza risposta ma utili per generare un feed-back esistenziale, una riscrittura del significato dell’esistenza da cui la protagonista, verosimilmente, rimarrebbe lontana se ciò che capita a tanti non capitasse anche a lei, anzi, “proprio a lei”.
La scoperta della malattia e le conferme diagnostiche che ne seguono configurano una rottura dell’ordine del mondo, della “normalità” della vita, a cui il comune modo di pensare contrappone la straordinarietà della morte. La morte, per intenderci, vista come l’extra ordinario per eccellenza, pensata come l’assolutamente altro, in quanto tale da esorcizzare. E’ questa idea della morte ciò con cui l’autore e con lui la protagonista fanno i conti, l’idea consumista o, come si sarebbe detto un tempo, piccolo-borghese della morte, corredo di quella che Heidegger ha definito “esistenza inautentica”, strutturalmente incapace, proprio per via dell’inautenticità, di pensare la morte come evento, sia pure conclusivo, della vita e di sottrarla, “normalizzandola”, a una tragedia che, ci dirà l’autore in un finale dalle forti coloriture nietzscheane, sarebbe da pensare come essenza di una vita che include la morte, non della sola morte quale antitesi della vita.
La ribellione di Karima, l’io narrante, a questa idea della morte ne sintetizza la ribellione all’intero contesto sociale-culturale di cui è parte ma di cui probabilmente non si sente tale. Ella è consapevole di essere una ribelle, per di più accettando di esserlo con il freno a mano tirato, costretta com’è a continue mediazioni rese inevitabili dalla convivenza con genitori a differenza di lei troppo integrati – probabilmente non solo per questioni d’età -, genitori a cui le convenienze sociali e culturali e le connesse ipocrisie non stanno per nulla strette. Non si può spiegare in altra chiave un episodio del romanzo che il lettore superficiale di cui dicevamo all’inizio sarebbe portato a definire secondario: la madre di Karima che convince la figlia a tornare a frequentare l’Azione Cattolica “per riprendere a vivere”. Accontentata la madre, Karima non può fare a meno di constatare che nei pochi o tanti anni nei quali era rimasta “in sonno” - mi si passi la locuzione d’uso massonico - rispetto alla vita dell’associazione nulla era cambiato e tutto restava avvolto nel velo della stessa ipocrisia, dall’omosessualità del prete alla blasfemia del musicista. Constatazione questa che fa trasparire, per inequivocabile contrasto, quello che è l’atteggiamento di Karima rispetto alla società e alla stessa vita, atteggiamento che l’ambiguo rapporto che prende corpo con una coetanea che assurge ad amica del cuore, Katia - con cui progetta un viaggio in Messico che non potrà realizzare - non rende meno tendenzialmente conflittuale, più conforme ai canoni di un’esistenza che magari negli altri, non certo in lei, in Karima, sprofonda nel “così fan tutti”, nel “si impersonale”.
Karima infatti non cade, neppure durante le crisi più acute, nella disperazione – che si potrebbe leggere come l’indice, la spia di un’idea inautentica della morte. Subìto il trauma della scoperta della malattia e dell’invasività delle cure, in primis la famigerata chemio, integra, grazie ad un modo d’essere critico e disincantato, la malattia nella normalità di un’esistenza che andrà avanti fino ad un esito sorprendente su cui non è il caso di soddisfare in anticipo la curiosità del lettore, privandolo del gusto impagabile di scoprire da sé come andrà a finire. Poiché quando si legge un romanzo ci si immedesima nel protagonista, vivendo con lui, o con lei, le vicende di cui è, appunto, protagonista, anticipare “come finisce” vorrebbe dire sottrarre al lettore una parte della vita che egli, giustamente, vuole vivere e non sentir raccontare da altri.
Perciò, gettato un velo sul finale, procediamo dicendo che la storia di Karima è interamente giocata, io penso, contro il rifiuto di includere la malattia e la morte nella vita, contro il rifiuto di “viverle” come tali che caratterizza la cultura e il vivere contemporanei e che è la causa di fondo, a ben rifletterci, dell’insufficienza e inadeguatezza della cultura della prevenzione. Se non preveniamo è perché ciò che dovremmo prevenire ci spaventa e ci spaventa perché siamo dominati da un’idea della vita che, parafrasando Nietzsche, potremmo definire al di là di Cristo e dell’Anticristo, del cristianesimo e della sua antitesi, al di là perché imperniata su un individualismo radicale che, essendo appunto radicale e non potendo limitarsi a rifiutare la distruzione del proprio essere individuale, estende tale rifiuto, da un lato alla fusione con il tutto nel divenire incessante del cosmo, dall’altro alla riconciliazione con il Bene che è l’essenza del cristianesimo, fondandosi l’individualità sul male al quale, in vista del compimento della promessa, essa è chiamata a rinunciare.
Se queste sono le cause filosofiche della insufficiente e inadeguata cultura della prevenzione, nel momento in cui si traducono in prassi esistenziale esse sono generalmente individuate e definite come sciatteria individuale e sociale, sconoscenza dei fattori di rischio, sottovalutazione del rischio stesso anche quando lo si conosce, incapacità di assumere uno stile di vita in grado di operare la prevenzione riducendo l’incidenza dei succitati fattori, identificazione degli stili di vita congeniali alla prevenzione con una vita da malati destinata a sfociare in una morte da sani, seguendo in questo colui che fu il più famoso giornalista sportivo italiano, Gianni Brera, famoso altresì per essere una buona forchetta, che disse una volta, mettendo in berlina la prevenzione delle malattie cardiovascolari, di “non voler vivere malato per morire sano”. C’è in tutto questo un aspetto, che si chiama volontà di vivere, che ha come implicazione il rifiuto di quel “vivere malati” di cui parlava Brera e che riscontriamo, espresso o sottinteso, nell’atteggiamento del fumatore, così come dell’alcolista o del cocainomane. Il fumatore, ad esempio, conosce benissimo i rischi del fumo, peraltro messi bene in mostra per legge sui pacchetti delle sigarette. Tuttavia preferisce il piacere immediato e intenso al benessere posticipato e diluito e sa benissimo di farsi male a più o meno lungo termine, male però compensato dal benessere immediato e istantaneo che gli dà la sigaretta, che in ogni fumatore non estemporaneo è integrata nello stile di vita, nel modo d’essere e nell’identità personale.
Ecco, prevenire è difficile perché farlo significherebbe cambiare lo stile di vita e la propria identità, rassegnandosi a vivere da malati piuttosto che da sani, dunque a non fare le cose che vengono identificate con la vita stessa e a fare qualcos’altro che è percepito come rinuncia a vivere.
La lezione che ci viene da Karima si riassume, invece, nell’eliminazione dello spartiacque tra morte e vita, in nome dell’identità dialettica di entrambe, recuperando in tal modo l’antica sapienza di Eraclito, per il quale una cosa sola sono il desto e il dormiente, il salire e lo scendere, il malato e il sano nonché il morto e il vivo, appunto. La lezione è che salute e malattia sono entrambe vita da vivere, così come vita e morte sono entrambe vita da vivere, esigendo peraltro la morte, giusta la lezione di Heidegger, che ci si ne prenda cura, vivendo noi nel tempo e quindi in vista della morte, che è la condizione ineludibile della possibilità del nostro vivere. Il concetto di morte quale assoluta antitesi della vita è del resto un concetto impensabile, una contraddizione in termini, per la ragione, evidenziata sia pure ellitticamente da Epicuro, che sarebbe definibile come l’essere del nostro non essere, per cui è contraddittorio, cioè impensabile che possa davvero esserci, esistere come tale, come morte. Se esiste come morte non è più ciò che è ma il suo esatto contrario, sì che la saggezza non può consistere in altro che nel pensarla come vita o come passaggio a miglior vita, come ci esorta a fare la tradizione socratico-cristiana, che secondo Nietzsche aveva rappresentato la rovina della grecità e con essa dell’intera civiltà occidentale, avendola distolta dalla vita – come lui la intendeva - e dai valori atti a promuoverla ed esaltarla.
Il Cosentino-pensiero, ora espressamente ora ellitticamente formulato in questo come nei precedenti romanzi, è radicalmente e strutturalmente antimanicheo, essendo per lui il male fuso nel bene e costituendo entrambi, nella loro fusione e con-fusione, la sostanza dell’universo. Il bene non è se non il male che combatte altro male, perlomeno in questa vita come ci è dato viverla, visione questa suscettibile di sfociare nella tesi, che regge l’intero impianto della teologia cristiana, secondo cui senza il male e il peccato non ci sarebbe salvezza e la colpa è felix culpa, avendo causato la redenzione ed il riscatto.
Una nota conclusiva penso sia d’uopo, come direbbe il grande Totò: i libri, una volta scritti e stampati sono lasciati al loro destino, il libellorum fatum dei romani, che è un destino di interpretazioni che si avvicendano e sovrappongono producendo, come diceva Hans Georg Gadamer, degli effetti di cui chi viene dopo non può non tener conto. Il libro di Rocco Cosentino, noir o memoir che lo si voglia etichettare, è a suo modo un contributo alla storia del dibattito sul male, alla questione della teodicea su cui i filosofi dibattono da secoli. Il Male che non è un’esclusiva del nostro secolo e non è soltanto il male del nostro secolo, ma il Male che accompagna, mischiato col bene, l’intera storia dell’umanità.
Spero di non avervi annoiati, anche se certe questioni sono noiose per definizione e senza noia sarebbero mal riuscite, al punto che Benedetto Croce, tornato di moda negli ultimi giorni per via del ritorno del terremoto a Casamicciola, dove perse genitori e fratelli, riuscendo lui a scampare miracolosamente, al punto, dicevo, che Benedetto Croce raccomandava al suo editore di pubblicare solo “libri gravi”, cioè noiosi, ma che aiutano ad andare a fondo delle questioni, com’è proprio della filosofia.
Nelle foto: Domenico Distilo, Rocco Cosentino, G. Muscianisi e Maria Grazia Simari in vari momenti dell'evento.
(13.9.17) CONFLITTI GENERAZIONALI NEL RECENTE LIBRO DI ALFREDO (Domenico Distilo) - Al centro del libro di Alfredo Distilo (Due ragazzi, un cane... e il fiume, Edizioni d’autore, 2017, pp. 186) c’è la memoria e l’intenso rapporto che l’autore intrattiene con essa, che non è semplicemente il passato, ma il presente che prende forma nella consapevolezza che senza quel passato, giorno dopo giorno lasciato indietro dall’incedere inesorabile del tempo, non si potrebbe costruire nessuna identità, né personale né collettiva. L’identità, in altri termini, è la nostra storia, e la nostra storia, con la memoria che l’alimenta, siamo noi stessi.
Il “noi stessi” dell’autore, l’identità collettiva della sua generazione, si struttura tra i Cinquanta e i Sessanta del Novecento, gli anni nei quali Galatro entra nella modernità, ingresso destinato a cambiare il modo di vivere, di pensare e di essere di giovani e meno giovani, determinando un conflitto generazionale che, ora latente ora manifesto, si consuma, a volte, con valenze drammatiche.
I giovani della generazione di Alfredo sono quelli che vorrebbero ma non possono, o, se pur possono, debbono acconciarsi a fare le cose di nascosto, a cercare modalità oblique, soprattutto nelle relazioni sentimentali, fronte sul quale il controllo sociale è molto vigile e il comune modo di pensare, piuttosto di giudicare scandaloso che un padre costringa la figlia a sposare un ragazzo da lei non amato, trova inaccettabile che ella possa sottrarsi all'adempimento della volontà paterna.
Alfredo e suo fratello Rocco, così come tutti i ragazzi e ragazzini dell’epoca, maschi e femmine, fanno finta di ubbidire ai genitori, dissimulando una prepotente volontà di trasgressione che li porta, non appena colgono l’attimo, a correre a fare ciò che è vietato – le ragazzine, ad esempio, corrono a fare il bagno nel fiume seminude sfidando le busse dei genitori. Perché questa volontà di trasgressione si attenui o scompaia del tutto, direi “pour cause”, bisognerà attendere una o due generazioni, quando ai divieti subentrerà la complicità, dopo che, intorno al mitico Sessantotto, sarà perpetrata "l’uccisione" del padre.
In casa di Mastro Carmelo Distilo - e la cosa non costituisce certo un’eccezione, è solo più accentuata, rispetto ad altre situazioni familiari, da una personalità paterna molto forte e tutta d’un pezzo - il rapporto genitori-figli si svolge invece ancora tutto all’insegna della verticalità, con la mamma che funge da elemento di mediazione intercedendo spesso a favore dei figli con un capofamiglia la cui autorità nessuno si sogna minimamente di contestare, neppure quando - come avviene nel caso del cane condannato a morte e poi graziato, con gran sollievo dei ragazzi che gli sono molto affezionati - le decisioni che prende appaiono quantomeno discutibili.
Oltre che documento dell’identità di una generazione il volume – il cui ricavato è interamente devoluto in beneficenza - riesce ottimamente a renderci il “mondo della vita” della Galatro di sessant’anni fa, quando la rarità delle automobili e le poche corse dei pullman delle autolinee Foresta facevano sì che gran parte della vita si svolgesse in paese, tra casa, strada, fiume e campagna, in uno scenario dentro il quale prendevano corpo storie che a un ventenne di oggi appariranno incredibili ma che servono a mettere a confronto due epoche non poi così lontane ma tra le quali la distanza è stata oltremodo dilatata dall’accelerazione del tempo che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento. Poterle vivere, c’è da crederlo, dal punto di vista umano è stata una fortuna di cui ora Alfredo ha voluto metterci a parte. Non possiamo che dirgli grazie.
Nelle immagini: in alto la copertina del libro; in basso un momento della presentazione, da sinistra Mariagrazia Laganà, Francesco Libetta, Massimo Distilo, Giuseppe Maiorca (foto Mario Distilo).
«In un libro che illustra i benefici che la corsa apporta al nostro organismo è spiegato che mentre corriamo produciamo delle endorfine che hanno l’effetto di farci sentire bene anche mentalmente, tanto che (scrive l’autore) “durante la corsa affrontiamo tutti i problemi del mondo e … li risolviamo”: le riflessioni che ho proposto in questo articolo mi sono venute durante gli allenamenti che sto facendo per affrontare le prossime maratone insieme alla “cricca” dei miei amici galatresi, “e il naufragar mi è dolce in questo mare” di pensieri che si accavallano prepotentemente ed incessantemente nella mia testa. Qualcuno potrebbe pensare che ho scritto delle stupidaggini e che quindi la corsa mi fa male, ma questo è un suo problema che risolverò nella prossima seduta di allenamento!»
La conclusione di quell’articolo vale ora come premessa per le riflessioni che vado a proporvi e che sono scaturite durante le corse di allenamento fatte nei giorni scorsi: mi è tornato in mente il primo film di STAR TREK nato nel 1979 dall’omonima serie televisiva iniziata nel 1966, nel quale il capitano Kirk, comandante della nave spaziale Enterprise, si trova a confrontarsi con un’entità aliena che afferma di chiamarsi V’ger e di essere alla ricerca del suo Creatore. Alla fine del film si scopre che l'alieno altri non è che l'antica sonda Voyager 6 partita centinaia di anni prima proprio dalla Terra: il capitano Kirk capisce che l’alieno aveva assunto questo nome perché vede sulla fiancata della sonda la scritta che la identificava e della quale si erano cancellate alcune lettere (VoyaGER6) e che il Creatore con cui V'ger intende riunirsi, in altre parole, è l'umanità stessa, sono anche loro, i componenti dell’equipaggio dell’Enterprise.
La particolarità di questa sonda di ultima generazione era che i computer che la governavano avevano un software che poteva consentirle di poter autoripararsi in caso di guasti, ricorrendo a parti meccaniche o elettroniche proprie o raccolte nello spazio intercettando satelliti abbandonati perché non più funzionanti: questa intelligenza artificiale si era evoluta nel corso dei secoli diventando capace di imparare cose nuove dalle esperienze fatte, di crescere nella conoscenza e nella coscienza di se a tal punto che volendo “creare” una nuova umanità si mette alla ricerca del suo “creatore” perché capisce che lui può trasformare, assemblare, analizzare la materia, ma che la “creazione” di tutta quella materia che lui utilizza è una prerogativa che attiene solo a quello che è stato il suo Creatore, una potenza che in sostanza possiede solo DIO.
Nel film si ipotizza una situazione opposta a quella che avevo illustrato io in un altro scritto dove, per confutare un’affermazione del matematico Piergiorgio Odifreddi, scrivevo:
”se un domani riusciremo a produrre dei computer che con un software adeguato fossero in grado di prendere decisioni autonome, cioè di pensare, e queste capacità aumentassero progressivamente, prima o poi salterebbe fuori un computer che credendosi più "intelligente" degli altri negherebbe la nostra esistenza di creatori di quelle macchine primitive che poi si sono evolute, anche se altri computer più "cretini“ ipotizzeranno l’esistenza di una intelligenza creatrice “esterna rispetto alla loro realtà” basandosi sulla complessità e sulla perfezione dell’architettura del microcip (vero sig. Odifreddi? Se fosse vero, come dice lei, che solo un cretino può dirsi cristiano, significherebbe allora che il fisico Antonino Zichichi è più cretino dell’astronoma Margherita Hack, o che Joseph Ratzinger è più cretino di Gianni Vattimo o di Eugenio Scalfari, e si potrebbe continuare all’infinito).”
A proposito dell’essere più o meno intelligenti e di credere o non credere ad un Creatore, ad Albert Einstein viene attribuita questa considerazione che adesso vi riassumo: si può studiare il calore di cui si è calcolata una unità di misura, ma non si può studiare il freddo che è assenza di calore e quindi non esiste, non avendo una sua propria consistenza; si può studiare la luce, ma non il buio che non esiste di per se, ma come assenza di luce; allo stesso modo non è stato creato il male in nessuna delle sue manifestazioni, ma esso si concretizza quando in noi manca l’amore per gli altri e per la natura. Dio ha creato l'uomo razionale e libero, e perciò stesso si è sottoposto al suo giudizio, per cui noi uomini gli chiediamo conto di ogni cosa che accade, dimenticandoci che in altri tempi ed in tanti modi avevamo deciso di fare a meno di Lui.
Tornando a Star Trek e a Odifreddi, il computer di voyager 6 era “intelligente” o si è dimostrato “cretino” ritenendosi capace solo di trasformare e assemblare le cose e non di crearle?
V’ger ha capito che tutto ciò che esiste e che lui utilizza per averlo trovato nel suo girovagare per l’universo non può prodursi da se (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma diceva lo scienziato/filosofo Lavoisier), altrimenti dovrebbe agire prima di esistere, il che è assurdo! Ha intuito che quindi ci deve essere una causa esterna creatrice di tutto l’universo, attraverso il big bang o in qualsiasi modo Egli abbia voluto fare: questo “ente necessario” che V’ger cercava nel suo “creatore” noi lo chiamiamo Dio.
Nel rapporto tra computer e uomo non c’è la stessa relazione che esiste tra uomo e Dio, tra creatura e Creatore?
Per dirla con Dante potremmo affermare che V’ger non ha voluto “viver come bruto” accontentandosi di esistere solo materialmente, ma ha cercato di “seguir virtute e conoscenza” facendo di tutto per ricongiungersi al suo “creatore”.
Infatti, sul piano spirituale virtù è non solo il comportarsi in maniera eticamente corretta verso il proprio prossimo, ma anche indirizzare il proprio sguardo verso realtà sopranaturali, e conoscenza è la ricerca della verità riguardo alle suddette realtà “altre”.
L’uomo, cercando di perseguire virtute e conoscenza può percorrere una strada a spirale che porta ad un diverso livello di coscienza e che gli consente di “realizzare strutture di pensiero più avanzate per mezzo delle quali può giungere ad una sintesi culturale ad un livello più alto”: possiamo dire che virtute + conoscenza = coscienza più profonda e discriminante. Senza la virtute, la sola conoscenza nel suo significato di cultura letteraria e/o filosofica trattiene l’uomo quasi sempre allo stesso livello di coscienza.
Avere acquisito la coscienza dell’esistenza di un Dio creatore che è Amore, spinge il credente a cercare di mettersi in contatto con lui e lo può fare attraverso la preghiera che l’aiuta a far aumentare la sua fede e quindi a farlo diventare Suo figlio.
La fisica quantistica, se vagliata e meditata su un piano ‘filosofico’ e teologico, potrebbe far giungere alla conclusione che un pensiero concentrato, altruista e puro può alterare il flusso di onde e particelle elementari a livello sub-atomico.
Un pensiero concentrato, altruista e puro, una coscienza pura che si esprime nella forma di preghiera può cambiare il corso naturale degli eventi: una coscienza pura può trasformare la persona orante in un ‘osservatore e misuratore dei quanti‘ che secondo la fisica quantistica è capace di far si che le famose onde di cui abbiamo parlato a suo tempo si trasformino in particelle di un certo tipo piuttosto che di un altro. Può cioè far si che alcune cellule, tessuti, ecc. del corpo della persona per cui si prega che sono ammalati si trasformino in organi sani.
In sostanza, non sarebbe temerario affermare che la scienza più avanzata potrebbe aver spiegato i miracoli!
Vi proponiamo il video del brano e più in basso il testo della Ballata.
Clicca sull'immagine per visualizzare il video
CANTATA PER IL NATALE 1834
Chi notti è chista?
Chi su sti vuci?
Comu sta luci
cumpariu mo?
Su di allegrizza
sti canti e soni:
nc'è cosi boni,
fortuna nc'è.
Li petri jùntanu,
l'omani abballanu,
l'angeli cantanu,
lla lla ra rà.
Mancu li grirhi
stannu a lu pratu;
nu nivolatu
pe ll'aria va.
Chi nc'è di novu?
Tuttu lu beni
supra ndi veni:
ecculu ccà.
Lu mundu è sarvu:
lu Sarvaturi,
lu Redenturi
cumparsi già.
Eu sugnu mbriacu
pe tantu preju:
cchiù non mi reju,
ma chi nc'è ccà?
Cotrari e serpi,
surici e gatta
la fannu patta;
mali non nc'è.
Ficiaru paci
lupi ed agnerhi,
farcuni e acerhi;
la guerra und'è?
Mo lu leuni
non irgi crigna,
mansa e benigna
la tigri sta.
Chi su sti cosi?
Vinni la paci:
a tutti piaci
la carità.
Lu Ddeu di amuri,
figghiu divinu
nasciu Bambinu:
ecculu rhà!