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SRUOTIAMOCI:"LA LESIONE SPINALE CRONICA DEVE DIVENTARE CURABILE!"
"CHRONIC SPINAL CORD INJURY MUST BECOME CURABLE!" “¡¡¡ LA LESIÓN CRÓNICA DE LA MÉDULA ESPINAL DEBE SER CURABLE !!!” sruotiamoci@gmail.com
1) Qual è la causa - vera - del conflitto “Terme-Amministrazione comunale”? 2) Perché il parroco, amatissimo dai fedeli, ha subito un attentato? 3) Perché, prima delle elezioni amministrative, un consigliere di minoranza è stato intimidito?...
Domande destinate a restare senza risposta. E un’ipotesi: “Siamo tutti malandrini” rischia di essere qualcosa di più, a volte, di una metafora.
Ma il convegno non toccherà questi temi: il discorso, giustamente, si allargherà alla Calabria. Non potendo partecipare al dibattito, invio - come stimolo alla discussione - un mio recente intervento.
L’ALTRO INEDITO CHE POTETE IMMAGINARE *
Pier Paolo Pasolini amava le provocazioni. Se c’è una cosa che gli intellettuali dovrebbero imparare da lui è la capacità di provocare, suscitare indignazione.
Dopo la pubblicazione della lettera inedita sul “Quotidiano della Calabria” in molti si son chiesti cosa direbbe oggi, cosa scriverebbe di noi, della nostra regione.
In realtà c’è un testo (inedito, apocrifo, profetico, pre-veggente… non saprei dire), che scioglie questo nodo: sul manoscritto c’è una data poco chiara, potrebbe essere il 14 novembre 1974, o 2014… non si sa bene. Parlava da un altro tempo, Pasolini. Ed è fuori dal tempo. E’ un testo indirizzato alla Calabria: il grido di dolore di un uomo vivo ad una società morta, uccisa dalla rassegnazione.
“Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “caso Fallara” (in realtà, una serie di casi funzionali alla protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili (politici) dell’omicidio Fortugno. E del giudice Scopelliti e di tante - troppe - persone uccise dalla ‘ndrangheta.
Io so i nomi del vertice della cupola politico-mafiosa che ha ideato e manovrato, che ha ordinato, agito e coperto, che – nel silenzio generale – regna in Calabria, svuotandola del diritto e della dignità.
Io so i nomi che gestiscono i differenti clan. Conosco le rivalità, le guerre e le pacificazioni, i politici di riferimento, le connivenze, le zone grigie.
Io so i nomi che hanno gestito, su mandato romano, il territorio. I nomi di padrini che guardano ora a destra, ora al centro, ora a sinistra, che si muovono trasversalmente: veri “politici” di una terra priva di politica.
Io so dei rapporti Calabria-Sicilia-Roma: di Miccichè, Piromalli, Dell’Utri: “Fagli capire a Marcello che c’è una torma di Calabresi pronti a votarlo”.
Io so i nomi di coloro che tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione, dal Palazzo, ai vecchi capi della ‘ndrangheta, ai giovani adepti e, infine, alla manovalanza omicida: “irresponsabile” - di sicuro: la meno responsabile - nella colpevole ignoranza del crimine.
Io so i nomi delle persone “serie” e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici e crudeli, o, a dei personaggi oscuri puramente organizzativi.
Io so quanto, come, e fino a che punto la Calabria stia nel Sud, il Sud in Italia e l’Italia nelle mani della Sicilia: “La trattativa Stato-mafia è andata in porto. Il boss Giuseppe Graviano racconta: ‘ci siamo messi il Paese nelle mani grazie a queste persone’.” E’ il 1994. Dopo le elezioni politiche non ci saranno più stragi.
Io so i nomi delle persone “serie” e importanti - Sindaci, segretari di partito, Presidenti - che stanno dietro a tragici ragazzi con i loro orrendi crimini, e a malfattori, calabresi o no, che si sono messi a disposizione, come Killer e sicari.
Io so tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, che cerca di seguire ciò che succede, e ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammenti di un intero quadro, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia…”
Io so, scrive Pasolini in questo “inedito, apocrifo, profetico, pre-vegente” testo sulla Calabria. Emerge - in fondo - l’identico invito della lettera a Nicolini (del 1959): “calabresi, non fate come gli struzzi, non c’è bisogno di prove: sapete già tutto. Indignatevi.” E leggete, aggiungo: “Il caso Fallara”, di Baldessarro e Ursini, è un ottimo testo - per esempio - per capire Reggio, paradigma del malaffare: dove “lo Stato è un luogo di saccheggio, un vuoto pneumatico della nostra vita, un ente astratto, lontano, magari ostile, dal quale trafugare ogni possibile utilità. (…) il municipio è presenza stabile (…) Crocevia di incontri e relazioni, connivenze e omissioni. Il suicidio col quale si compie l'atto estremo, il sacrificio ultimo della protagonista, non chiude il sipario ma lo apre” (A. Caporale).
Parole formidabili. Sarebbero piaciute a Pier Paolo Pasolini. Il messaggio del “nuovo inedito”, in fondo, è questo: leggete e indignatevi. Non attendete prove. Nei libri e nella nuda realtà - guardatevi intorno - c’è tutto. Se qualcuno, poi, volesse vedere in “Io so” una parafrasi de “Il romanzo delle stragi”. Lo faccia pure. E’ un’ipotesi talmente vera che potrebbe – paradossalmente – essere falsa.
* Articolo apparso su “Il Quotidiano della Calabria” del 26-07-2012
Nelle foto: in alto il magistrato Nicola Gratteri; più in basso Angelo Cannatà.
(9.8.12) QUEL MALANDRINO DI MIO PADRE (Pasquale Cannatà) - Lunedì 6 Agosto sono stato presente all’incontro/dibattito organizzato dalla Pro Loco di Galatro: don Pino Demasi, il magistrato Nicola Gratteri e gli altri relatori ci hanno spiegato perchè “siamo tutti malandrini”.
Tutti gli interventi sono stati molto interessanti, commovente quello di don Pino, ma più di tutti mi è piaciuto quello di Gratteri, che ha esordito raccontandoci come e perché è nata la ‘ndrangheta nello stesso momento in cui nasceva l’Italia unita.
L’episodio che ha raccontato riguardo al ‘massaro’ che d’accordo con i suoi picciotti nascondeva quattro mucche facendo finta che fossero state rubate, per poi restituirne tre al latifondista che gli aveva dato l’incarico di ritrovarle, ricevendone anche i ringraziamenti, mi ha fatto pensare al cosiddetto “cavallo di ritorno”, che come molti sapranno è una pratica illegale che prevede il pagamento di un riscatto da parte di chi ha subito un furto per riottenere la refurtiva.
Ricordo che avevo vent’anni quando abbiamo subito il furto della nostra Fiat 500, e nonostante da molti anni non fossi più un bambino, avevo sentito poco parlare di mafia, e credevo che omicidi e duelli a coltellate riguardassero solo famiglie in lotta tra loro e non toccassero gli altri cittadini che potevano vivere la loro vita senza essere toccati da queste atrocità: qualcuno mi riterrà uno stupido, altri più benevolmente un ingenuo, ma era così.
Dicevo che ci avevano rubato la 500, e mio padre aveva fatto denuncia ai carabinieri senza purtroppo alcun risultato riguardo al ritrovamento dell’automobile. Ad un certo punto si presenta in negozio una persona che propone la riconsegna dell’auto dietro pagamento di una “piccola somma” (50.000 lire contro il valore di 500.000 lire dell’auto nuova, il 10%): sa com’è, si sono pentiti dello sgarbo, ma hanno avuto delle spese e almeno non vorrebbero rimetterci.
A me sembrava quasi giusto accettare, come ho già detto non ne sapevo niente di cose di malavita e come il latifondista di Gratteri ero disposto a ringraziare il mediatore per l’interessamento nei nostri riguardi, ma mio padre conosceva la situazione e rifiutò il “cavallo”: non abbiamo più visto la 500 e siamo rimasti un po’ di tempo senza macchina prima di poterci permettere una 126.
Nel suo piccolo, mio padre aveva compiuto un passo nella giusta direzione che tutti dovremmo seguire perché venga estirpata la cattiva pianta della malavita anche se, come ognuno di noi, aveva i suoi difetti che in altre cose lo rendevano inevitabilmente un “malandrino” nell’accezione più benevola che si può dare a questa parola.
(11.8.12) COL DIGITALE TERRESTRE RIEMERGONO I VECCHI FANTASMI (Michele Scozzarra) - Ho letto con interesse l’articolo pubblicato su Galatro Terme News nei giorni scorsi, condividendo la preoccupazione che “Col digitale terrestre Rai proprio non ci siamo! Il segnale latita per gran parte del tempo, o va e viene a gatto selvaggio lasciando i poveri utenti (che pagano il canone) nello sconcerto e nella rabbia”. Rabbia accentuata ancor di più, quando si legge di non riuscire mai a parlare con un operatore per segnalare il problema e, “quanto alla sede di Cosenza, ripetutamente interpellata, la sola cosa che ci si è sentiti cortesemente rispondere è che il problema non è di nostra competenza, provvederemo tuttavia a fare la segnalazione a chi di dovere”.
Non penso che si possa giungere ad ottenere qualcosa in più con “il più volte minacciato e mai attuato sciopero del canone”...
Al momento in cui scrivo per tanti canali “non c’è nessun segnale” e mi riesce troppo complicato addentrarmi su qualsiasi “argomentazione” a riguardo; ma tanti ricordi, ormai dimenticati da anni, “emergono” dalla lettura dell’articolo, come dei “vecchi fantasmi” che a distanza di decenni, riemergono dall’oblio in cui il tempo li aveva nascosti.
Ricordo gli anni della mia infanzia: di tanti programmi televisivi, ero tenuto informato dai miei compagni di Liceo: il “Rischiatutto” di Mike Bongiorno (con le “minigonne” della Ciuffini che facevano notizia), per noi galatresi è un qualcosa di cui “abbiamo solo sentito parlare da altre persone”.
Per le partite di calcio più importanti della nostra Nazionale, si organizzavano delle vere e proprie 'trasferte' nei paesi vicini (perché, guarda caso, erano sempre trasmesse sulla seconda rete Rai che a Galatro non si riceveva).
Per farla breve, per i galatresi, fino agli inizi degli anni ’80, la visione completa dei canali tv era un lusso che non si potevano permettere… nonostante minacce di scioperi e di non pagare il canone, ma a nessuno gliene è mai fregato più di tanto.
Ricordo che grazie a Mico Simari, e ad un comitato da lui creato, è stato installato un ripetitore (che ancora c’è a lato del Calvario di Montebello), che permetteva di vedere “a sprazzi” il primo canale… e questo sia per la cattiva ricezione del segnale, sia per i tagli della luce da parte dell’Enel, quando non si era in grado di pagare la bolletta dell’energia consumata dal ripetitore (la luce che si consumava veniva pagata con una colletta che si faceva per le vie paese).
Per molti, soprattutto giovani e giovanissimi, sembra di sentire un racconto dell’alta preistoria… ma, è successo a Galatro, non più di qualche decennio addietro.
La possibilità della visione del primo canale Rai, per i galatresi, è stata una “conquista” ottenuta negli anni '70 dopo che, l’allora Sindaco Bruno Marazzita con il Brigadiere dei Carabinieri (entrambi appassionati di elettronica), ha messo sul tetto della caserma un telaio di bicicletta, al quale avevano applicato un circuito elettrico che riusciva a captare in maniera confusa un segnale che permetteva di vedere, alla meglio, il primo canale Rai.
Questo episodio, alquanto insolito, ha fatto sì che sui giornali di allora venisse pubblicata una vignetta, da molti ritenuta oltraggiosa, che raffigurava il Sindaco con la fascia tricolore e il brigadiere in grande uniforme che, seduti comodamente in casa, vedevano la televisione con la bicicletta sul tetto che aveva la funzione di antenna.
Questo episodio ha suscitato un tale vespaio (pare che sia intervenuto direttamente il Comando Generale del Carabinieri) che la Rai ha ritenuto di venirci incontro e, agli inizi degli anni ’70, ha predisposto un ripetitore solo per Galatro (che è quello che ancora si trova all’inizio di Galatro, nel Comune di Feroleto della Chiesa, vicino al ristorante “Le Pleiadi).
Nonostante il ripetitore, per tanti anni abbiamo ricevuto solo il segnale del primo canale Rai, mentre la possibilità della visione del secondo canale è stata attivata nel 1978... e quella per il terzo canale nel 1983-84.
Questo è successo nell’arco di una ventina di anni, con tante proteste e manifestazioni contro la Rai e minacce di non pagare il canone… rimaste tutte senza alcun riscontro!
Per i canali “privati”, non appena hanno iniziato ad espandersi sul territorio nazionale, verso la metà degli anni ’80, i diretti interessati hanno provveduto con un ripetitore che ancora esiste in contrada “Gatta”.
Ora... la storia si ripete, la situazione è abbastanza eloquente senza bisogno di alcun commento. Non ci fosse il pericolo della concorrenza che ha spaventato la Rai, forse per Galatro tante cose sarebbero rimaste ancora un sogno, anche se oggi, da più parti si sostiene che proprio per non disturbare la concorrente Sky, i canali Rai vengono oscurati!
Sarà un caso ma in concomitanza con gli avvenimenti sportivi trasmessi a pagamento da altre emittenti… la Rai si “oscura”.
Che dire… ormai è chiaro che, anche nel campo dell’informazione, l’obiettivo dei vari operatori del settore non è il creare una maggiore democrazia attraverso una sempre più estesa copertura di ogni fascia di utenza… ma aumentare il business per i loro interessi, che cercano di mascherare come “interventi per il bene comune”… e noi, il più delle volte, senza neanche goderne i benefici, paghiamo!
Nelle foto: in alto Michele Scozzarra; in basso Mike Bongiorno, Sabina Ciuffini e il campione Massimo Inardi nella trasmissione "Rischiatutto" di RaiDue.
(19.8.12) A PROPOSITO DI DIGITALE TERRESTRE: LA TELEVISIONE DI OGGI E DI IERI (Domenico Distilo) - Ha indubbiamente ragione Michele Scozzarra: il digitale terrestre ci offre il destro per lanciarci in un’operazione amarcord, alla ricerca dei Sessanta e Settanta perduti, quando si vedeva – non solo a Galatro per i noti problemi geomorfologici - poca televisione ma, forse proprio perché poca, più capace di incidere nell’immaginario e nello strutturarsi della “visione del mondo” di quanti all’epoca eravamo bambini o adolescenti.
Se quella attuale è la digital generation, la nostra è stata la generazione televisiva, pur non trascorrendo, noi bambini e ragazzi di allora, tutto il tempo davanti alla scatola magica e facendo anche altre cose, ad esempio frequentare la strada molto più di quelli di oggi, iperprotetti da genitori iperapprensivi.
Quei pochi programmi che vedevamo – dal Giornalino di Giamburrasca a Chissà chi lo sa? a Furia cavallo del West fino a I ragazzi di Padre Tobia (ambientato in una parrocchia di Napoli con attori ragazzi che interpretavano se stessi, un modo incomparabilmente meno tormentato, esistenzialmente e socialmente, di precorrere Gomorra), tutti a cadenza rigorosamente settimanale, erano le cose di cui si parlava (da qui nasceva il disappunto rievocato da Michele per non poter interloquire con i compagni di scuola sulla minigonna di Sabina Ciuffini), l’argomento preponderante nelle discussioni del giorno dopo, un formidabile ancorché misconosciuto fattore di socializzazione oltreché di acculturazione, mentre dei programmi di oggi, a cadenza pressoché giornaliera, non parla più nessuno e, anche se molti li guardano e magari li registrano, non fanno – tranne poche, rarissime eccezioni - più discutere, declassati a oggetto di svago e piacere privati, declassamento che è conseguenza inevitabile dell’essere pensati e realizzati sulla base degli identikit degli spettatori dedotti dai sondaggi, che sono stati l’arma con cui la nuova televisione ha distrutto l’io collettivo creato dalla vecchia.
E’ questo, a ben rifletterci, l’effetto devastante dell’aumento dell’offerta televisiva, implicito nella caduta di livello e di qualità dei programmi determinata dall’inseguimento ossessivo dell’audience: la distruzione di un modo d’essere e sentire comuni, di un linguaggio che pur essendo il frutto anche, se non soprattutto, degli intendimenti pedagogici della ingiustamente bistrattata tv bernabeiana, non creava omologazione, fornendo anzi, con l’induzione di un lessico tanto ricco quanto vigilato, gli strumenti per addestrare un pensiero critico, divergente, di cui nei giovani di oggi si sono perse le tracce.
Nondimeno qualcuno potrà dire: la televisione è ormai sulla via del tramonto e presto il suo posto sarà preso dai social network, il nuovo luogo deputato di elaborazione ed espressione dell’io collettivo. Si tratta di un’osservazione sicuramente basata sui fatti e difficilmente confutabile. Essa però trascura l’altrettanto inconfutabile circostanza che la dimensione orizzontale dei social network, prescindendo da modelli e sollecitazioni verticali, pedagogici, si esercita quasi sempre nella riproduzione di frasi fatte e luoghi comuni, per di più indulgendo in un linguaggio sincopato nelle frasi e nel lessico, spesso triviale, mutuato da quello degli sms e strutturalmente incapace di produrre pensiero, di alimentare quella presa di distanze dall’esistente in cui consiste, in fin dei conti, la cultura.
I social network, per intenderci, sono il corollario e il surrogato della televisione, l’esito della parabola di questa dal modello pedagogico all’adattamento prima e all’appiattimento poi sui gusti del pubblico, adattamento-appiattimento in cui è implicita la rinuncia a creare vero gusto e a suscitare vero inter-esse, che sono autenticamente tali se non si esauriscono nella ricerca di conferme nei “post” e nella compiaciuta esibizione del proprio sé negli “stati” di facebook o nei “twitter”, ma indirizzano verso ciò che magari sconferma e spiazza, inducendo una attitudine, una propensione al ri-pensamento di sé e del mondo senza cui, c’è poco da girarci intorno, non può darsi crescita né individuale né collettiva.
Per concludere queste brevi note: siamo all’impasse, alla stretta da cui si potrà uscire solo se la tecnologia ci aiuterà a ripensare sia la televisione sia i social network, rendendone possibile l’estrinsecazione delle notevoli qualità e potenzialità positive e magari riportandoci indietro dalla connessione totale in cui siamo immersi, dalla dipendenza per molti patologica dai newmedia - in primis il telefonino - a qualcosa di simile al rapporto sobrio e discreto che avevamo con la vecchia televisione della TV dei ragazzi e di Carosello.
(25.8.12) DIGITALE TERRESTRE E SOCIAL NETWORK (Michele Scozzarra) - Dall’articolo di Domenico Distilo sul digitale terrestre a Galatro, emergono delle problematiche, a mia parere “ad effetto devastante”, che vanno al di là dei giudizi dati sulla televisione e sui suoi programmi. Mi riferisco, in particolare, al riferimento specifico, dove Domenico scrive: “Nondimeno qualcuno potrà dire: la televisione è ormai sulla via del tramonto e presto il suo posto sarà preso dai social network, il nuovo luogo deputato di elaborazione ed espressione dell’io collettivo. Si tratta di un’osservazione sicuramente basata sui fatti e difficilmente confutabile. Essa però trascura l’altrettanto inconfutabile circostanza che la dimensione orizzontale dei social network, prescindendo da modelli e sollecitazioni verticali, pedagogici, si esercita quasi sempre nella riproduzione di frasi fatte e luoghi comuni, per di più indulgendo in un linguaggio sincopato nelle frasi e nel lessico, spesso triviale, mutuato da quello degli sms e strutturalmente incapace di produrre pensiero, di alimentare quella presa di distanze dall’esistente in cui consiste, in fin dei conti, la cultura”.
Certamente, tanto per andare al nocciolo della questione, non si può non constatare come sulle bacheche di Facebook succede di tutto e di più: c’è chi lancia temi di discussione e chi va a ruota libera. C’è chi ama polemizzare e chi butta acqua sul fuoco, c’è chi discute solo di politica e chi propone spezzoni di film, canzoni o proprie immagini. Chi scrive poesie, chi invita a feste, presentazioni di libri, degustazioni, sfilate di moda. Chi scrive articoli per i giornali e li rilancia sul suo profilo, chi si mobilita per qualche causa, chi denuncia, chi informa, chi chiama a raccolta per scendere in piazza, chi fa propaganda elettorale (magari occulta con slogan e bandiere), chi da lezioni di cucina, chi sistema cani randagi, chi commenta in diretta le trasmissioni televisive, chi sfoga i tradimenti del coniuge e chi cerca nuovi innamorati…
E adesso la domanda delle domande, dove ci portano, inevitabilmente, le considerazioni di Domenico: è davvero una rivoluzione il modo di stare insieme su Facebook o solo un’illusione collettiva di amicizie inesistenti e compagnie fittizie? Sposta qualcosa nel modo di informarsi e costruirsi idee autonome su ciò ci circonda o non sarà la pericolosa anticamera di uno spropositato narcisismo alla portata di tutti, un’immaginaria fabbrica di scatenati egocentrismi, un contagiarsi inutile per blaterare rivendicazioni al vento? Che ricadute avrà tutto questo sulla vita “vera” della gente? E, soprattutto, quale è, a questo punto, la vita vera e quella falsa? Che senso ha mobilitarsi, in rete, su temi “specifici” ma senza alcuna capacità di organizzare una militanza attiva in grado di incidere sul reale, con l’elaborazione di proposte concrete capaci veramente di incidere nella vita delle persone?
L’articolo di Domenico mi permette di fare una considerazione maturata da mesi, cioè l’evidenza di come con l’aumento del sistema di relazioni instaurate su Facebook, sono venuti meno su Galatro Terme News le lettere dei lettori, con i loro contenuti di saluti ad amici e parenti, fotografie di bambini, auguri per Natale, ecc. Tutto questo è stato trasferito sulle “bacheche” di Facebook, con la differenza che mentre su Galatro Terme News, ancora oggi, scorrendo gli archivi tutto è facilmente reperibile perchè rimasto nella “memoria”, sta di fatto che di tutto quello che passa sulle bacheche di Facebook, nel giro di qualche giorno si è persa ogni traccia… sono bacheche “senza memoria”!
Tante modalità di comunicazione, durate per anni o per secoli stanno scomparendo: i loro discendenti frivoli e veloci, da Facebook a Twitter, ormai occupano il tempo e la testa degli utenti. Sul telefonino venti righe da leggere sono troppe, e il template dà problemi. Certo, rimane chi vuole gli approfondimenti, chi non si accontenta della notizia veloce.
Ma questa “leggerezza” che impone la “nuova cultura telematica” ha anche un duro prezzo da pagare… se è vero che scrivere lettere non è mai stato più facile di adesso, dobbiamo anche tenere presente che a scrivere una frase ci si mette un'ora sulla pietra, cinque minuti sull'argilla, un minuto sulla carta, dieci secondi sulla tastiera che li pubblica su Facebook. Ma, dobbiamo pur domandarci, quanto permarranno le nostre parole scritte, o condivise senza neanche scriverle!, sul web? Sicuramente un tempo minore di quello che ci abbiamo messo a scriverle (o a condividerle!)… parole il cui eco resterà, forse, per qualche ora, o per qualche giorno, ma che svaniranno presto senza traccia: parole scritte su sabbia silicea.
Ecco perché ritengo che un articolo, una foto, un semplice messaggio di auguri, ha un effetto più grande se pubblicato su qualcosa di “duraturo” e non su qualcosa che, già per la sua stessa natura, è sicuro che nel volgere di poco tempo non c’è più. I miei post su facebook sono già andati nel “dimenticatoio” dopo qualche ora dalla pubblicazione… quanto pubblicato, nel corso degli anni, in tante bacheche è sparito (o prima o poi sparirà) con un clic… mentre, tanto per restare solo a ciò che “mi riguarda” i miei articoli pubblicati su Galatro Terme News, sono rintracciabilissimi negli archivi del sito, così come quelli pubblicati su Proposte e altre riviste, sono rilegati per anno e conservati negli archivi dei giornali e di diverse biblioteche.
Non è una cosa irrilevante che da quando l'uomo è uomo, ha sempre cercato di conservare le sue memorie: le imprese degli antichi ci sono giunte perché scritte su pietra. La carta è deperibile, la carta brucia, la carta si disfa. Cosa daremmo per mettere mano sugli appunti, sui bloc-notes di Cesare, Platone, Gesù Cristo. Ciò che ci è giunto dall'età antica lo ha fatto perché è stato copiato infinite volte, conservato là dove il tempo batte meno, perché deve durare nei secoli e millenni…
La conclusione di questi miei “disordinati” pensieri, non può essere diversa da quella di Domenico, laddove amaramente, aggiungo io, evidenzia come: “I social network, per intenderci, sono il corollario e il surrogato della televisione, l’esito della parabola di questa dal modello pedagogico all’adattamento prima e all’appiattimento poi sui gusti del pubblico, adattamento-appiattimento in cui è implicita la rinuncia a creare vero gusto e a suscitare vero interesse, che sono autenticamente tali se non si esauriscono nella ricerca di conferme nei “post” e nella compiaciuta esibizione del proprio sé negli “stati” di facebook o nei “twitter”, ma indirizzano verso ciò che magari sconferma e spiazza, inducendo una attitudine, una propensione al ri-pensamento di sé e del mondo senza cui, c’è poco da girarci intorno, non può darsi crescita né individuale né collettiva”.
Nelle immagini: in alto Michele Scozzarra, in basso vignetta su facebook.