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2.1.14 - In difesa del giudice Di Matteo (risposta a Pasquale Simari)
Angelo Cannatà

4.1.14 - Simari, Cannatà e la doppia verità
Domenico Distilo

6.1.14 - Un sentito grazie ai tanti visitatori del nostro presepe
Carmela Carè

27.1.14 - Politica e postpolitica
Domenico Distilo

11.2.14 - Galatro e le sue "bellezze" incomprese
Antonio Sibio

22.2.14 - Ucraina: attuale l'intervento del cardinale Slipyi al concilio
Michele Scozzarra

1.3.14 - Ripartiamo da ciò che abbiamo di più caro... anche a Galatro!
Michele Scozzarra

3.3.14 - Davvero stavamo meglio quando stavamo peggio?
Domenico Distilo

6.3.14 - Intervista impossibile a Machiavelli
Angelo Cannatà

8.3.14 - Rivangare il passato serve da stimolo per migliorare il presente
Don Gildo Albanese

10.3.14 - Carneade: chi era costui?... sconosciuto anche a Galatro
Michele Scozzarra

19.3.14 - I giovani fanno flop ma... "la colpa è dei vecchi"
Danilo Lamanna

21.3.14 - Il caso Antonia Battaglia e una certa idea della politica
Angelo Cannatà

24.3.14 - Sul rapporto tra il cane e l'uomo
Michele Scozzarra

9.4.14 - Voto di scambio... un problema che parte da lontano
Michele Scozzarra

16.4.14 - La desertificazione di Galatro
Nicola Sollazzo

19.4.14 - Resurrexit tertia die... Il terzo giorno è risuscitato
Michele Scozzarra

21.4.14 - I diritti degli italiani all'estero
Bruno Zito





(2.1.14) IN DIFESA DEL GIUDICE DI MATTEO (RISPOSTA A PASQUALE SIMARI) (Angelo Cannatà) - Quando Giorgio Bocca intervistò Falcone, poco tempo prima del tragico attentato, ne evidenziò l’isolamento e lasciò intendere: un magistrato isolato prima o poi viene ucciso. E’ quel che accadde.
In Italia, i magistrati che indagano sui mandanti di un crimine e - ancor di più - sul legame mafia-politica sono in grave pericolo. Da sempre. Oggi tocca a Nino Di Matteo. Lavora con scrupolo, spirito di sacrificio, onestà e porta avanti – guarda un po’ che coincidenza – l’indagine sulla Trattativa Stato-mafia. Insomma, è in trincea e rischia la vita: ogni giorno. Un uomo così dovrebbe essere protetto dallo Stato. Non accade. Gli si frappongono ostacoli (devo spiegare perché?) e finisce per essere, paradossalmente, inviso alla mafia e allo Stato. Mi basta, per capire da che parte stare.
Sbaglio? Sono lento, caro Pasquale, che ci posso fare.
Certo, anche Nino Di Matteo deve rispettare le leggi. Ci mancherebbe. Un avvocato acuto fa presto a “verificare”, “rileggere”, “spulciare”, “accertare” che “tutti i magistrati sono obbligati a…”. Tu, caro Pasquale, sei andato oltre – per scrupolo, naturalmente – “visto il tempo trascorso dall’esame di Diritto Costituzionale”, hai fatto un approfondimento in più. Non avevo dubbi.
Finisci così col darmi ragione: ti rifuggi nel formalismo della legge (come un azzeccagarbugli? Sì, come un azzeccagarbugli) e non vedi – ahimè – la sostanza: molti vogliono fermare l’inchiesta sulla Trattativa Stato-mafia. Per farlo devono delegittimare Di Matteo, isolarlo, col rischio che si avveri - spero non accada mai - la volontà criminale di Totò Riina.
Ciò che stupisce è la capacità di dimenticare. Parliamo da decenni del legame mafia-politica. Non abbiamo avuto bisogno del film di Sorrentino (bellissimo), per sapere. Sapevamo già. E ancor di più sapeva Pasolini: “Io so i nomi di quello che viene chiamato golpe (…) Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. (…) Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato disposizioni e assicurato la protezione politica (…) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.” La letteratura vede, intuisce, ciò che la magistratura dimostrerà nei processi. Ma bisogna istruirli i processi e consentire alle indagini di andare avanti. Invece. Si frappongono ostacoli. Capaci è un ostacolo. Via D’Amelio è un ostacolo. Essere morto nel cuore di Riina (caso Di Matteo) è un ostacolo. E ancora, ma per altri motivi, distruggere le intercettazioni Napolitano-Mancino... è un ostacolo. Mi fermo. Per dire che se la società civile non si stringe intorno ai magistrati coraggiosi mentre indagano, è inutile (e ipocrita) che pianga quando vengono uccisi.
Sì, però… direbbe l’avvocato… “ho spulciato la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Ah, beh, allora cambia tutto. Di fronte alla Corte Europea mi arrendo. Seriamente: di formalismo si può morire. E Renzo Tramaglino (il popolo, intendo) quando comincia a capire ha tutto il diritto d’incazzarsi.
Infine. Ci vorrebbe la penna di Giorgio Bocca per descrivere la “serena-paura” di Nino Di Matteo. Il grande giornalista non c’è più, purtroppo. Ma il magistrato trova validi difensori in Antonio Padellaro, Marco Travaglio, Dario Fo, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Lidia Ravera, Franco Cordero, Barbara Spinelli, Salvatore Borsellino, Paolo Flores d’Arcais, eccetera. Tra questi ci sono io, un intellettuale superficiale, che non “verifica”, non “spulcia”, non “accerta”. Nessuno è perfetto.

Nella foto: in alto Angelo Cannatà, in basso il magistrato Nino Di Matteo.

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(4.1.14) SIMARI, CANNATA' E LA DOPPIA VERITA' (Domenico Distilo) - Sembrerà certo strano ma Angelo Cannatà e Pasquale Simari hanno ragione entrambi, solo che parlano di due cose diverse, o meglio, di due aspetti diversi della stessa cosa (il caso del giudice Di Matteo).
Pasquale inquadra il caso Di Matteo essenzialmente sotto il profilo giuridico e non c’è dubbio che abbia tecnogiuridicamente ragione; Angelo ha eticopoliticamente ragione: è inaccettabile che Di Matteo venga lasciato solo contro Riina, tanto più se la solitudine è il risultato del formalismo giuridico.
Il problema, allora, è la divaricazione tra ragione tecno–giuridica e ragione etico-politica, divaricazione che in una democrazia liberale non dovrebbe esistere e che fa dell’Italia un caso unico in Occidente.
La divaricazione ha però radici antiche, da andare a cercare nelle sottigliezze dei dotti bizantini ingaggiati nelle controversie cristologiche (l’Italia meridionale è stata a lungo, fino all’XI secolo, un dominio bizantino), nel carattere polidromo del diritto medievale, nella casuistica della Controriforma gesuitica e, infine, nella sovrapposizione del diritto borghese, senza una borghesia degna del nome e senza una rivoluzione borghese, a una società destinata a restare ancora a lungo feudale.
La verità storica è che l’universalismo-egualitarismo e il conseguente formalismo del diritto borghese ci sono estranei. Li comprendiamo ma non ci appartengono nella sostanza: il nostro modo di pensare si adegua ma il nostro modo di sentire e di vivere sta da un’altra parte. Così capita che la forma venga piegata contro la sostanza, che lo spirito delle norme sia tradito e surrogato da un formalismo che il contesto al quale si applica e il modo di applicarlo rendono esangue e perciò falso.
Sta tutto qua, se ci pensiamo, il problema della cultura della legalità che la scuola tende a declinare in forme e formule sostanzialmente retoriche, col rischio immanente di accentuare la scissione tra nomos ed ethos, tra la legge scritta e quella concretamente vissuta.
Siamo dentro, dunque, una doppia verità: quella etica e quella giuridica. Fino a quando non le renderemo una sola, fino a quando la forma e la sostanza, l’etica e il diritto non coincideranno non saremo un paese normale.

Nella foto: Domenico Distilo.

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(6.1.14) UN SENTITO GRAZIE AI TANTI VISITATORI DEL NOSTRO PRESEPE (Carmela Carè) - Al termine di questo periodo di festa dedicato al Santo Natale, a nome di tutti gli abitanti del rione Montebello, giunga un sentito Grazie a quanti, e sono stati parecchi, sono venuti a visitare il nostro Presepe all'aperto.
Non nascondiamo un pizzico di soddisfazione nel vedere il numero crescente di persone che ogni anno vengono a vederlo. Quello che non riusciamo a spiegarci è come mai viene parecchia gente da fuori. In nessun modo abbiamo publicizzato l'evento, eppure i visitatori, per così dire, forestieri sono in continuo aumento.
Naturalmente i nostri visitatori preferiti sono i bambini che, con la loro gioia, riempiono il cuore di noi adulti. Qualcuno proprio non resiste e vuole per forza entrare dentro il Presepe per accarezzare Gesù Bambino o gli animaletti. Una bambina ha cantato a modo suo un repertorio di canzoncine natalizie costringendo i genitori a sostare praticamente sotto la pioggia.
Un inatteso risvolto del nostro progetto è derivato dal fatto che due coppie di giovani si stanno muovendo per comprare una casetta per le vacanze proprio nel nostro quartiere che purtoppo ormai è quasi disabitato. Da qui partiremo con una vecchia idea che giace nel cassetto da anni e che probabilmente ora sarà più facile realizzare.
E' vero che oramai siamo rimasti in pochi, ma abbiamo la fortuna di essere uniti tra di noi, e questa è la nostra forza: ognuno nel suo piccolo mette a disposizione le proprie capacità e il desiderio di fare qualcosa è più forte dello scoraggiamento che può assalire, visti i tempi che stiamo attraversando.
Per chiudere vorremmo ringraziare l'Amministrazione Comunale, e in modo particolare il Sindaco Carmelo Panetta, per aver patrocinato l'evento.
Per quanto mi riguarda, senza timore di cadere nella trappola del personalismo e dell'autocelebrazione, a nome di tutto il gruppo vorrei ringraziare mio marito Carmelo Cirillo, senza il quale difficilmente sarebbe stato possibile realizzare materialmente il Presepe.
Da parte di tutto il gruppo Auguri per un buon 2014, che sia l'anno della ripresa a livello non solo economico ma anche della consapevolezza che davvero tanto si deve e si può fare per la nostra comunità.


Nelle foto: in alto Carmela Carè, in basso la grotta del presepe a Montebello lo scorso anno.


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(27.1.14) POLITICA E POSTPOLITICA (Domenico Distilo) - Al congresso DC di Napoli del 1962 Aldo Moro parlò per sette ore. Doveva convincere i riottosi amici di partito che l’apertura a sinistra, ai socialisti, era necessaria al Paese e loro non potevano esimersi. Moro dispiegò una lunghissima teoria di argomentazioni politiche in uno stile fantasiosamente geometrico. Quel discorso è ricordato dagli storici per la formula delle “convergenze parallele”, destinata a restare celebre.
Nei giorni scorsi Matteo Renzi, trovandosi di fronte all’esigenza di approvare la legge elettorale e non potendolo fare senza l’apporto del leader pregiudicato di Forza Italia, non si è minimamente peritato di convincere i moltissimi del PD che pensavano e pensano che non si poteva e non si doveva riabilitare il Banana. Così è andato avanti controbattendo ai suoi critici che il suo compito prioritario è realizzare il programma per il quale è stato eletto l’8 dicembre. La minoranza del PD però, non essendo stata convinta e non essendosi autoconvinta, si sta rifiutando di seguire. Cuperlo si è già dimesso da presidente e il rischio di scissione è nient’affatto remoto.
Il contrasto tra Moro, che con pazienza e dispiegando le classiche arti dialettiche del politico convince i potenziali oppositori interni, e Renzi, che procede senza preoccuparsene sol perché ha vinto le primarie, evidenzia la distanza siderale tra due concezioni del fare politica, la seconda delle quali – quella di Renzi - è improntata all’imperversante luogo comune secondo cui la rapidità e il piglio con cui si prendono le decisioni contengono in sé la garanzia che esse si riveleranno effettivamente buone decisioni.
La verità è che non c’è nessuna necessità logica che alla rapidità con cui si effettua la scelta si accompagnino l’efficacia, la desiderabilità, la capacità di porre in essere un cambiamento che non sia… quanto per cambiare, un cambiamento cioè in melius, per il meglio, e non in peius, per il peggio.
Preso dalla foga di fare (quanto per fare) Renzi non si è accorto che il Banana, come ha fatto con quasi tutti i suoi predecessori alla guida della sinistra, gli ha rifilato il pacco riuscendo a portare a casa un simil porcellum, con liste bloccate di nominati, un premio di maggioranza ancora una volta spropositato - tra il 15 e il 18 per cento - e la cancellazione dei piccoli partiti per mezzo di soglie di sbarramento eccessive. Per non parlare dell’abolizione del senato, un attentato alla tradizione costituzionale delle democrazie liberali che se da un lato servirebbe a tagliare l’erba sotto i piedi all’antipolitica, dall’altro ha il sapore della vendetta per essere stato (lui, il Banana) espulso da quell’assemblea.
La vicenda offre ulteriori elementi, tutt’altro che rassicuranti, per capire chi sia davvero Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze appare come uno che vuol sbrigarsi a fare, anche quando non ha idee chiare su cosa. Una caratteristica questa che lo accomuna al Banana, con la differenza che quando si trattava (e si tratta) di giustizia e televisione il Banana sapeva (e sa) perfettamente cosa faceva (e fa). La vera natura del renzismo, per intenderci, è di essere, esattamente come il berlusconismo, un guscio vuoto di slogan estemporanei, un “progetto” che si elabora a work in progress e il cui successo è affidato in via esclusiva all’immagine del leader, la sola cosa che conti nell’epoca della decerebrazione delle masse.
I due fenomeni sono perciò connotati dallo stesso paradosso: come ciò che andava bene per il Banana andava male per il Paese, così ciò che va bene per Renzi è molto probabile che vada male per il Paese. La radice del paradosso non è difficile da trovare: sta nella dissoluzione della politica nella propaganda, nella fine delle grandi visioni e nella corrispondente idea che non ci sia niente di meglio che votarsi a una prassi fine a se stessa, con la conseguenza che ad esaltarsi sono gli animali da campagne elettorali, quelli che sanno vincere le elezioni ma poi non sanno governare. Perché per governare una moderna democrazia non basta, contrariamente a quanto molti ormai pensano, un capo il cui carisma si identifica con l’immagine.

Nella foto: Renzi berlusconizzato.


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(11.2.14) GALATRO E LE SUE "BELLEZZE" INCOMPRESE (Antonio Sibio) - Siamo entrati ormai nel settimo anno di crisi. Le aziende chiudono, la gente perde il posto di lavoro, i politici continuano a vivere nella loro bolla fatta di chiacchiere, vizi e vitalizi vari, mentre l’Italia sprofonda senza riuscire ancora a vedere un barlume di luce in fondo al tunnel.
Frasi fatte, frasi vere, frasi già sentite più volte in questi anni, tanto che qualcuno in TV ci ha costruito su delle trasmissioni. In questi tempi di vacche magrissime i singoli Comuni, soprattutto quelli più piccoli come il nostro, devono far fronte a cospicui ridimensionamenti (tagli) di risorse a loro assegnate.
In queste condizioni è impossibile, in particolar modo in una zona arretrata dal punto di vista infrastrutturale come la Calabria, poter pensare di veder realizzate quelle opere pubbliche che potrebbero servire ad innalzare il benessere locale. L’unico modo possibile per ovviare a questa impasse sarebbe quello di utilizzare ciò che già c’è. Far di necessità virtù, trasformando ciò che è brutto, abbandonato e decadente in qualcosa di utile per la comunità, sia sotto forma d’immagine per il paese, sia sotto forma occupazionale e quindi anche economica. Proviamo a metterci nei panni di un forestiero che viene per la prima volta a Galatro. Appena entrato in paese si troverebbe, dopo l’indicazione “Galatro stazione di cure termali”, quel bel pezzo di Lego (più o meno) bianco da tutti conosciuto come Ostello della gioventù.

   

Da circa vent’anni il nostro amato ostello è lì, maestoso in mezzo alle erbacce, a dare il benvenuto a chiunque arrivi a Galatro, senza aver mai avuto la possibilità di ospitare un qualunque giovane (ma nemmeno anziano…).

   

La struttura, completamente abbandonata, è di proprietà del Comune, il quale per ben due volte ha indetto una gara di pubblico incanto per l'affidamento in gestione, gare non andate a buon fine.
C’è da pensare che utilità possa esserci in questa struttura. La vocazione turistica di Galatro è rimasta tale solo sulla carta, le terme non hanno registrato quel boom di presenze che qualcuno si aspettava e quindi pensare che l’ostello possa essere utilizzato per ospitare giovani o comunque turisti che volessero soggiornare a Galatro spendendo poco è fuori discussione. Alternative? A me ne viene in mente una.
Poco lontano da Galatro ogni anno centinaia di esseri umani vivono il dramma di non avere un tetto sulla testa, di non potersi riparare dal freddo e dalla pioggia. Mi riferisco ai tanti migranti che giungono a Rosarno per la raccolta degli agrumi. Perché non utilizzarlo proprio per accoglierli dando loro un riparo? Si potrebbe proporre agli altri enti locali (Regione, Provincia) di accollarsi le spese per il completamento della struttura e l’acquisto dei letti e del restante arredamento necessario. Si potrebbe chiedere all’ASL o al poliambulatorio EMERGENCY di Polistena la possibilità di un’adeguata assistenza medico-sanitaria.
Si potrebbe anche chiedere l’aiuto della Caritas. Questa è solo una mia idea, ma ci potrebbero essere anche altre destinazioni di uso. Mi piacerebbe che chiunque avesse un’idea su come utilizzare le nostre “bellezze inespresse”abbia la voglia di metterla in campo. Sarebbe un modo per spronare l’Amministrazione comunale a trovare soluzioni alternative.

   

Dopo tanti anni finalmente le richieste di molti galatresi hanno trovato risposta: la posta di Galatro si è dotata di un dispositivo bancomat! Il nostro forestiero (ve lo ricordate? Quello che appena entrato in paese si è trovato di fronte l’ostello della gioventù) ha bisogno di prelevare, quindi si reca in posta. Arrivato in cima alla salita con la propria automobile trova una nuova sorpresa ad attenderlo: la Casa di riposo.
La Casa di riposo, opera progettata e realizzata dall’Amministrazione Marazzita (così come l’ostello della gioventù, l’asilo nido e le nuove terme), è un complesso che dal 1985 in poi ha subito ripetuti ritocchi, senza comunque vedere mai il completamento dell’opera.
Nel 1996 l’allora Amministrazione Cuppari approvò una convenzione con l’ANTHAI (Associazione Nazionale Tutela Handicappati ed Invalidi, con sede in Roma), per la realizzazione di un grande complesso residenziale per disabili e anziani. Con tale convenzione il Comune di Galatro mise a disposizione dell’ANTHAI la Casa di Riposo con relativa area di pertinenza, nonché un ettaro di terreno in contrada Tre Valloni, comprendente vari immobili. Secondo quanto dichiarato all’epoca dal Sindaco Cuppari, l’ANTHAI si impegnava a ristrutturare e completare gli immobili già esistenti per dare vita, senza alcun onere finanziario aggiuntivo per il Comune, ad una struttura di notevole valore sociale ed umano, che doveva avere positive ricadute con l’incremento dei livelli occupazionali. “In considerazione della presenza nel territorio di uno stabilimento termale di prim’ordine - sottolineava il Sindaco - la creazione nel nostro territorio di una struttura per i disabili e per gli anziani rimarca ancor di più la vocazione di Galatro, “cittadina della salute”, che per la salubrità dell’aria, la mitezza del clima, la dolce serenità delle sue campagne, la virtù rigeneratrice delle sue acque, l’innata bontà e cordialità dei suoi abitanti, consente un ideale soggiorno per il recupero delle energie fisiche e mentali.” Che fine abbia fatto questo faraonico progetto ANTHAI non è dato sapere.
Nel 2002 il Comune decise di attivarla e, dopo lunghe peripezie, ne fu indetto l’affidamento in gestione tramite gara di pubblico incanto. Nonostante la gara vinta e qualche sparuto lavoro di ristrutturazione, la Casa di riposo non ha mai ospitato né anziani, né malati.

   

Oggi la struttura si presenta così, alla mercé di chiunque, in una zona semi-isolata dove non ci sono ostacoli o barriere o recinzioni che ne blocchino l’accesso.
Cumuli di cavi elettrici danno il benvenuto all’ingresso mentre all’interno vari “artisti” locali hanno pensato di lasciare il segno del loro passaggio, mentre qualche anima pia ha voluto mettere in guardia sull’uso dell’ascensore. Cosa farne di quest’ennesimo monumento allo spreco? Resta in piedi l’ipotesi di utilizzarlo per ciò che è stato progettato, cioè una struttura per gli anziani. Ma prima di trovare i soldi per il completamento sarebbe opportuno riuscire a trovare un’associazione o un privato disposto ad avviarne l’attività.

   

Dopo aver prelevato dal bancomat della posta, il nostro amico forestiero nota un grande spazio/parcheggio dal quale, se si è più alti delle erbacce, si può ammirare uno splendido panorama di Galatro, in particolare della sezione Montebello.
Alla sua sinistra, invece, il panorama prende la forma di una piccola costruzione in muratura: gli spogliatoi del vecchio campo sportivo.

   

Posti alla fine del grande spazio/parcheggio, in posizione appartata e lontana da occhi indiscreti, questi spogliatoi portano sui propri muri anni ed anni della storia calcistica galatrese, oltre le solite opere d’arte che già abbiamo potuto ammirare all’interno della casa di riposo. La domanda è sempre la stessa: che farne del grande spazio/parcheggio con annessi vecchi spogliatoi?

   

Passeggiando per le strade della nostra ridente cittadina, il nostro amico forestiero si ritrova alla Villa comunale, dove nota un curioso chioschetto. Chiedendo alle persone che incontra, viene a sapere che quella costruzione era la pensilina dove trovavano riparo i viaggiatori che utilizzano i bus. In realtà era diventata un parcheggio per motorini ed un vespasiano d’emergenza. Da qualche anno è stata costruita una nuova pensilina a poche decine di metri di distanza ed il nostro chioschetto, dopo esser stato ristrutturato, è stato adibito a… nulla. Installate le finestre ed il portone questo chioschetto non ha più visto la luce del sole.
Considerata la posizione strategica sarebbe facile ipotizzarne l’utilizzo come info point turistico, aprendolo anche solo per quattro ore la mattina e dando la possibilità a qualche giovane di poter lavorare. Sarebbe bello pensare che qualsiasi persona che transita da Galatro potesse trovare in questo posto tutte le informazioni che riguardano la nostra cittadina, da quelle storiche a quelle di pubblica utilità.

   

Dopo aver attraversato a piedi viale Aldo Moro, facendo a zig-zag tra le auto parcheggiate sul marciapiede, il nostro si trova ad ammirare l’ennesima opera che la mano dell’uomo (ed i soldi pubblici) ha lasciato a noi galatresi: il Mercato Coperto di via Bosco Longa, ex guardia medica.

   

   

Come per il chioschetto della villa comunale, anche per questa struttura non è stata trovata nessuna destinazione d’uso dopo il trasferimento della guardia medica nel ristrutturato ex macello comunale.
Un’ipotesi, non so quanto realizzabile e vantaggiosa, potrebbe essere quella di abbattere completamente la struttura, creando qualche nuovo parcheggio per alleggerire la viabilità che in quel punto è spesso congestionata per la presenza di varie attività commerciali nonché del mercato settimanale.
Ma Galatro, si sa, è il paese delle terme! Vuoi che il nostro amico non vada a visitare le nostre rinomate strutture? Partendo dalla Chiesa della Madonna della Montagna, e di conseguenza dopo aver ammirato lo scheletro in ferro di quella che dovrebbe essere una tribunetta/anfiteatro (nonché il piastrellato del sagrato che dopo pochi anni dalla sua posa sta velocemente venendo via), il nostro amico si reca a piedi verso le terme. Seguendo il percorso che spesso viene utilizzato da chi corre per tenersi in forma, il nostro non utilizza il marciapiede in quanto quello presente non è stato completato e risulta quindi inutilizzabile. Ma dopo poco più di un chilometro finalmente il nostro può ammirare le nuove terme! Poco distante dalla nuova ed imponente struttura, nota oltre una recinzione in ferro che ne delimita l’accesso, le strutture delle vecchie terme, utilizzate fino ad una decina di anni fa. Nel 1891 l’avvocato Giovanbattista Buda, sindaco di Galatro, dette inizio alla costruzione di uno stabilimento termale che fu compiuto e aperto al pubblico nel 1892, il tutto con mezzi propri e con l'intenzione di lasciare l’opera al Comune di Galatro. Oggi risultano totalmente abbandonate, così come il percorso naturalistico che parte da dietro le terme. Non proprio un bel biglietto da visita da presentare agli utenti del nuovo complesso termale. Galatro è famosa per le sue terme, la storia di Galatro è legata alle sue salutari acque termali, utilizzo più logico per quelle strutture sarebbe quello dell’istituzione di un museo civico che possa raccontare la storia del nostro paese, dei suoi poeti, delle sue terme. Terme + museo + percorso naturalistico, solo un sogno?

   

Concludiamo il nostro tour con l’Asilo Nido di Via Padre Pio.
Ma non aggiungo altro, credo bastino le foto…

   

 

P.S. Le foto sono state scattate ad agosto 2013, ma credo che in questi mesi non sia cambiato molto.

Elenco degli immobili del Comune di Galatro (PDF) 47,9 KB

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Articoli precedenti sull'argomento:
Situazione terme e strutture inutilizzate (25.5.2008) Angelo Papasidero
Strutture inutilizzate: il casotto della villa (22.5.2008)

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(22.2.14) UCRAINA: ATTUALE L'INTERVENTO DEL CARDINALE SLIPYI AL CONCILIO (Michele Scozzarra) - Si parla di centinaia di morti e feriti negli scontri di questi giorni in Ucraina. Sui giornali abbiamo avuto modo di leggere: “Non sappiano chi sono questi manifestanti e a cosa porterà questa lotta e quale 'giustizia' otterrà. L'unica cosa certa è che l’unione Europea deve parlare di meno".
Il mio amico, prof. Bruno Demasi, ha così commentato una foto di alcuni preti ortodossi scesi in piazza con la gente, pubblicata sulla mia bacheca facebook: “Preti sottoposti a processi costruiti a tavolino. Privazione di tutte le libertà. E l’Europa degli imbelli sta a guardare e Obama telefona solo alla Merkel. Europa di m…”.
Il giudizio del mio amico Bruno viene da “molto lontano” …richiama, ancora ai nostri giorni, la grande vicinanza al popolo che stanno dando i preti ortodossi, anzi fa “riesplodere” come una bomba (rendendolo attuale a distanza di più di 40 anni) l’intervento che il Cardinale Josyf Slipyi (padre e capo della Chiesa Cattolica Ucraina, morto in esilio a Roma il 7 settembre 1984) fece "scoppiare" il 23 ottobre 1971 a Roma durante i lavori del Concilio.
Voglio ricordare l’intervento del cardinale Slipyi, come testimonianza e gratitudine verso quella parte di “vigna del Signore” che veniva definita “la Chiesa del Silenzio”, ma anche se imbavagliata, ahimè, con la complicità e viltà del mondo cosiddetto “libero” (così come accade oggi), non ha mai smesso di lottare per il trionfo della giustizia, pagandone un prezzo altissimo fino a versare fiumi di sangue per la sua fedeltà alla Chiesa Cattolica ed alla Santa Sede.

* * *

Il 23 ottobre 1971, a Roma,nel corso d’una sessione plenaria del 3° Sinodo dei vescovi cattolici in presenza di Paolo VI e di tutti i Padri presenti, scoppiò una bomba d’incalcolabile portata. Dopo tre anni di silenzio, il cardinale Slipyi, che per la sua fedeltà al Papa aveva scontato diciotto anni di prigione e di lavori forzati, prese infine la parola. Nell’aula sinodale si fece improvvisamente un gran silenzio. Il cardinale Slipyi parlò più a lungo del tempo previsto dal regolamento. Fu il solo al quale Mons. Rubin, presidente del Sinodo, non tolse la parola.
Il discorso del cardinale mise in evidenza quel che nessuno, negli ambienti vaticani, aveva osato dire prima di lui: che la «politica» della Santa Sede, rappresentata dal cardinale Willebrands, comprometteva gravemente la Chiesa cattolica romana e pregiudicava ciò che, ufficialmente, essa s’era proposta come obiettivo: l’unione ecumenica. Infatti ha detto in sostanza il cardinale Slipyi, non è tradendo e abbandonando alla loro sorte i fratelli nella fede cattolica di rito orientale che si arriverà a quella «convergenza mirifica» coi cristiani ortodossi, che gli emissari di Mosca fanno balenare davanti agli occhi abbagliati di certi prelati, completamente all’oscuro della situazione reale dei credenti all’interno del blocco sovietico, scaltramente tenuti in tale ignoranza e per nulla desiderosi di uscirne.
«Gli Ucraini cattolici — disse il cardinale — che han versato fiumi di sangue e ammucchiato migliaia di cadaveri per la loro fedeltà alla fede cattolica e alla Santa Sede, continuano ad essere crudelmente perseguitati e, quel che è più doloroso, nessuno assume le loro difese. Non so se nella storia ci sia stato un altro popolo che abbia sofferto quanto gli Ucraini! Dalla prima guerra mondiale, essi han perduto dieci milioni di compatrioti, sui 55 milioni che rappresentano. E questo non è tutto! Il regime sovietico ha soppresso tutti i nostri vescovi. La nostra fede cattolica è stata interdetta. Per celebrare la santa liturgia e amministrare i sacramenti ci è necessario discendere nelle catacombe. Decine di migliaia di sacerdoti e di fedeli sono stati incarcerati e deportati nei campi della Siberia e delle regioni polari.
«Ora, al presente, in ragione di certi negoziati diplomatici, gli Ucraini cattolici, che contano tanti martiri e confessori, vengono accuratamente lasciati nell’ombra, come testimoni scomodi di mali passati. Nelle lettere recentemente pervenuteci da laggiù, i nostri fedeli si lagnano espressamente: “Perché abbiamo sofferto tanto? Potremo noi trovare giustizia? In nome d’una certa diplomazia ecclesiastica, noi siamo trattati come dei guastafeste! Il cardinale Slipyi non fa nulla per la sua Chiesa!“.
«Ma lui che cosa può fare?… Il Vaticano intercede per i cattolici di rito latino, ma non tiene conto dei sei milioni di Ucraini che soffrono la persecuzione per la loro fede. Quando Pimen, Patriarca di Mosca, dichiarò nulla la nostra unione con Roma, ratificata a Brest nel 1598, nessun rappresentante della delegazione del Vaticano ritenne conveniente protestare...”.
Dopo aver passato in rassegna le sofferenze del suo popolo, il cardinale Slipyi esclamò: «Non è sbalorditivo che i Sovietici denuncino il colonialismo mentre opprimono i loro popoli?».
E, per concludere, aggiunse: «Uno dei cardinali che sta leggendo la storia della nostra Chiesa, ha riconosciuto, in tutta franchezza: “Sbalorditivo che questo popolo, che tanto ha sofferto a causa dei cattolici di rito latino, ciò nonostante resti cattolico!“. Ecco, Padre Cardinale, il nostro “esotismo” orientale...».
«Ma è tempo che la Chiesa del silenzio taccia. Possa la voce possente del Sinodo, sotto la presidenza di Papa Paolo VI, prendere le parti di quelli che soffrono in nome della giustizia e della fede! Possano le preghiere rivolte a Dio per quanti lottano tra la vita e la morte, infonderci la forza di perseverare sino alla fine! Perisca il mondo, purché la giustizia trionfi!».
Nel suo dolore e, diciamolo francamente, nella sua indignazione, il cardinale Slipyi aveva messo il dito su una piaga in suppurazione. Quelli che denunciano il «nazionalismo ucraino », talvolta esagerato, lo concediamo (ma non è questo il caso di tutto un popolo privato della sua libertà nazionale?), fanno nello stesso tempo il gioco (facile e fruttuoso) della politica dell’URSS, che blocca senza pietà ogni tentativo di emancipazione nazionale, sempre proclamando l’ideologia internazionale di Marx e di Lenin.
E’ curioso che, mentre il Vaticano si chiude in un troppo prudente riserbo, cristiani d’altre confessioni non esitino a compromettersi purché, finalmente, la verità risplenda.


Nella foto: il cardinale Slipyi.


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(1.3.14) RIPARTIAMO DA CIO' CHE ABBIAMO DI PIU' CARO... ANCHE A GALATRO! (Michele Scozzarra) - Nelle scorse settimane ho ripreso, sulla mia pagina facebook, la pubblicazione delle foto di don Gildo nel periodo in cui è stato parroco nella Chiesa della Madonna della Montagna a Galatro. Ho voluto iniziare con una foto che mi ritrae insieme a Carmelino di Matteo, alla scrivania di don Gildo, mentre stiamo scrivendo, direttamente sulla matrice di un ciclostile, un volantino per la campagna referendaria sul divorzio, era il 28 settembre 1974, io ancora non avevo la barba, mentre Carmelino sì...!
Forse oggi, in tanti, non sanno neanche che cos’è un ciclostile, ma quanti ricordi di tante battaglie mi riportano alla memoria questo strumento ormai dimenticato: le matrici scritte in fretta, talvolta senza nessun appunto al quale fare riferimento… la stampa ancora più in fretta, il più delle volte il documento era stampato durante la messa delle 11, per essere pronto al volantinaggio all’uscita della messa. L’odore dell’inchiostro era nell’aria e la stampa appena fatta lasciava, spesso, le mani sporche d’inchiostro, mentre nel nostro intimo, in un ambiente che non sempre ci è stato “amico”, abbiamo spesso provato la sensazione di avere combattuto quella che Paolo di Tarso chiamava la “buona battaglia”.
E qui, veramente, è il caso di dire… “formidabili quegli anni” e suonano vere le parole di don Gildo che queste immagini “ci riportano, ad anni straordinari di intenso lavoro pastorale che con impegno e serenità portavamo avanti insieme, pur con le differenze di vedute e di opinioni ma sempre nella carità, per l'evangelizzazione della nostra cara Galatro…”.
E, come commento alla foto che mi ritrae con Carmelino Di Matteo, don Gildo aggiunge: “Bellissima questa foto. E' preziosa, custodiscila! Mi ricorda anche il lavoro di comunione che si faceva insieme tra le due Parrocchie (cosa non facile per Galatro a quei tempi). Quanti ricordi e quanto lavoro in quegli anni per evangelizzare e quante umiliazioni a volte sulla piazza quando tra 'i benpensanti di Galatro' si aveva il coraggio di testimoniare il proprio amore al Vangelo e alla Chiesa”.
Oggi, non solo a Galatro, una condizione non molto allettante potrebbe attendere la Chiesa, minata secondo una profezia dimenticata di Ratzinger, dalla tentazione di ridurre i preti a “assistenti sociali”: “Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede al centro dell’esperienza. Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti”.
Allora, e solo allora, concludeva Ratzinger, vedranno “quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto”.
Non possiamo far finta di non vedere come, nel pieno regime nichilista che stiamo vivendo in questi tempi, sembra che con la Chiesa i conti sono ormai chiusi definitivamente, nonostante gli “applausi” a Papa Francesco con i quali, in maniera scientifica, si cerca di cambiare finanche il pensiero (vedi l’intervista di Scalfari il quale, dopo che l’articolo è stato eliminato dall’archivio del Vaticano, ha ammesso che “effettivamente quelle parole Papa Francesco non le ha mai dette, sono stato io che le ho messe come mi è sembrato più opportuno”).
Stiamo andando ben oltre il tempo in cui, come diceva don Giussani in una importante intervista: “Il sopravvivere delle vecchie forme, attraverso il culto, le feste popolari e la mobilitazione associazionistica cattolica, coprivano una situazione di crisi che però aveva già raggiunto il cuore del cattolicesimo italiano: il cristianesimo non aveva più nulla a che vedere con la vita, con tutte le sue urgenze più significative; con la concezione ed il sentimento del reale, con la necessità di giudicare, di rendersi ragione di tutto quello che arricchisce e fa diventare l’uomo più uomo”.
Così, in una realtà dove l’essenza del fatto cristiano non costituisce più una proposta di vita, per anni ci siamo giocati e abbiamo “combattuto” per andare all’essenziale, richiamare l’essenza del nostro impegno e della nostra fede: cioè “l’annuncio di Cristo centro di tutta la vita dell’uomo e della storia, perché Cristo è presente nella Storia dentro il segno della più grande comunità che è la Chiesa”.
Uno spaccato veramente “storico” di come è mutata la Chiesa di Galatro, e di cosa ci siamo sforzati di testimoniare e costruire negli anni, a costo di polemiche e incomprensioni, si può ben vedere nell’articolo di Nunziatina Marazzita, pubblicato sul primo numero de “il Gruppo” del 04 gennaio 1975, che riporto in calce.
Questo articolo si presenta, ancora oggi, come una importante e significativa testimonianza che si colloca, a buon titolo, nella storia della Chiesa di Galatro, e se da una parte evidenzia il lavoro “non facile” fatto in questi anni per la comunione tra le due parrocchie, dall’altro mette in risalto una realtà che, oggi più di prima, richiamando all’essenziale invita a non fermarsi all’apparenza delle cose, spesso fingendo una religiosità di cui non si conosce neanche il vero significato.

* * *

Falsa religiosità paesana
Maria Annunziata Marazzita

Conversando con persone quasi sempre anziane, si ha una certa reticenza ad un dialogo sincero e leale. Questo il motivo per cui i giovani in genere evitano qualunque discussione al di fuori del proprio gruppo; specie se questo è di ordine religioso. Infatti se si domanda ad una qualunque persona, non tanto giovane: “ma tu sei veramente religiosa?” quella risponderà scandalizzata: “osi dire queste cose proprio a me? Parli tu che in Chiesa ci vieni ben poco? Guarda che io in Chiesa vado sempre, vado (non dice partecipo) a tutte le processioni, faccio tutte le novene e recito sempre il Rosario!”. Alla qual risposta, una persona onesta, veramente religiosa e forse poco tollerante, dovrebbe rispondere: “dovresti andare all’inferno per la tua cattiveria, per la tua condotta tutt’altro che cristiana e per il tuo egoismo ammantato di falsa religiosità”.
Naturalmente parlo non di tutte le persone che frequentano la Chiesa, ma di quelle che pur frequentandola hanno una falsa concezione della Religione.
Basta dire che queste persone soltanto perché il Sacerdote non vuol fare una processione (processione oggi ridotta ad una semplice espressione di folklore paesano e che poi non ha niente a che vedere con l’essere religiosi o meno) dicono che è rivoluzionario e cominciano ad allontanarsi progressivamente dalla Chiesa.
Io vorrei dire a queste persone che se si vuol contestare certe decisioni bisogna contestarle apertamente ed onestamente e giammai dietro le spalle.
Comunque ciò che dispiace di più è che a questo falso concetto di religione sono legati inconsciamente anche molti giovani: cosa molto grave perché se si possono non giustificare, ma almeno comprendere le persone di una certa età, vissute in un dato ambiente, ciò è assolutamente inconcepibile per i giovani.
Purtroppo, questo fanatismo religioso porta alcune conseguenze negative: odi, rancori, apparente amicizia sotto cui si nasconde il ricordo amaro di lotte passate ed ancora latenti e quindi assenza di veri sentimenti cristiani. Mi riferisco, com'è noto alla storia delle rivalità fra le due parrocchie (San Nicola e Santa Maria della Montagna). Son cose queste che accadevano ai tempi di Dante (rivalità tra Bianchi e Neri) con la vergognosa constatazione che ci siamo ridotti a paragonare i due Santi a rappresentanti di due diverse fazioni mentre in realtà appartengono ad un unico partito: quello di Dio.
Vorrei però ricordare che Dio è uno ed è lo stesso in tutte le chiese e che la sua parola è una: il Vangelo, alla quale lettura e riflessione vorrei pregare i miei giovani concittadini affinché siano religiosi nel profondo della loro anima, vadano all'essenza e non si fermino all'apparenza delle cose, spesso fingendo una religiosità che non si possiede e di cui non si riconosce il vero significato.

Tratto da “Il Gruppo” del 4 gennaio 1975


Nelle foto, dall'alto in basso: Michele Scozzarra e Carmelino Di Matteo ai tempi del "Centro Giovanile di Azione Cattolica" (1974); Don Gildo Albanese oggi; i campanili della chiesa matrice di S. Nicola e della chiesa della Montagna; la prima copertina del giornale "Il Gruppo" edito dal Centro Giovanile di Azione Cattolica nel 1975; l'articolo di Maria Annunziata Marazzita così come compariva in quello stesso giornale.


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(3.3.14) DAVVERO STAVAMO MEGLIO QUANDO STAVAMO PEGGIO? (Domenico Distilo) - Da anni ormai sono all’ordine del giorno del dibattito politico e (si fa per dire) culturale le tesi, sostenute da un fronte che non comprende solo i cosiddetti neoborbonici, secondo le quali la “conquista” garibaldina e piemontese del Sud avrebbe “ucciso” la patria, la cultura e l’economia meridionali determinando l’asservimento di un popolo, fin’allora libero, a un dispotismo “straniero” rappresentato dai governi e dai parlamenti dello Stato italiano unitario.
La polemica e le recriminazioni si alimentano con idee fisse, luoghi comuni e frasi fatte che, sicure di cadere in un sostanziale vuoto di conoscenze e riflessioni storiche, vorrebbero produrre effetti politicamente devastanti.
Che il Sud fosse libero con i re Borbone è un argomento buono, forse, per far colpo su persone provviste, per dirla con Salvemini, “di quella mezza cultura che è peggio dell’ignoranza”, ma non sta letteralmente in piedi e basta prendere un qualsiasi manuale di storia per confutarlo. Il Regno delle due Sicilie, che subentra al vecchio Regno di Napoli, nasce per decisione del Congresso di Vienna e sotto il segno dell’assolutismo, non certo dall’iniziativa popolare, avendo peraltro tutti gli episodi precedenti, dal crollo della Repubblica Partenopea all’uccisione di Murat, dimostrato che al Sud non c’era un popolo ma una plebe analfabeta che delle idee di libertà e uguaglianza, fondamento di tutte le rivoluzioni liberali, attuate o anche soltanto tentate, ignorava l’esistenza.
Che non ci fosse un popolo del Sud è storicamente fuori discussione. Il moderno popolo nasce infatti con il movimento comunale e lo sviluppo della borghesia - fenomeni che non interessarono il Sud se non in modo molto marginale - e si cementa acquistando consapevolezza di se stesso nella contesa con i sovrani ed i signori feudali,contesa nella quale prende forma il moderno concetto di libertà. Quella che si registra al Sud è invece una pervicace resistenza delle strutture economiche e delle istituzioni politiche feudali, al punto che la cosiddetta eversione della feudalità di Giuseppe Bonaparte non va oltre la mera definizione giuridica. Non potendosi, dunque, parlare di popolo del Sud in senso borghese-moderno, va da sé che non ne possiamo parlare tout court e l’idea di un popolo libero prima della venuta di Garibaldi è una sciocchezza sesquipedale: per essere liberi bisogna prima di tutto sentirsi tali, è necessaria la consapevolezza di esserlo o di poterlo essere. Perciò non si può confondere con la libertà una sorta di attaccamento, di affezione della gente del Sud per le istituzioni tradizionali e per le forme di vita che le caratterizzavano, nonostante ne comportassero quasi sempre una dura sottomissione.
La condizione sine qua non della patria, la partecipazione del popolo alle istituzioni o la propensione a lottare per conquistarla, nel Sud preunitario semplicemente non esiste, tant’è vero che le minoranze che si pongono in questa prospettiva si definiscono liberali e avversano lo stato borbonico, com’è chiaro già con l’insurrezione del 1820 e poi con quanto accade a cavallo del 1848.
Non si vede, dunque, di cosa il Sud sarebbe stato espropriato dopo il 1860: non potevano toglierci nulla semplicemente perché non avevamo nulla, anche se molti parlano, letteralmente a vanvera, di realtà industriali consolidate o addirittura fiorenti. Si può anche concedere che le siderurgie di Mongiana, così come altre strutture economico-produttive, abbiano vissuto momenti di floridezza. Ma bisogna distinguere tra situazioni congiunturali particolarmente favorevoli e dinamiche di lunga durata, tra epifenomeni di un’ economia ancora feudale e prodromi di una modernizzazione industriale. Orbene, non c’è dubbio che dal punto di vista di quest’ ultima la situazione del Sud fosse di conclamata arretratezza. Altrimenti, va da sé, dopo l’unità non si sarebbe posta nessuna “questione meridionale”, o perlomeno non si sarebbe posta nei termini in cui si è posta.
Ha invece un senso chiedersi se con l’unità ci abbiamo guadagnato o perso. L’impressione è di averci perso, ma è soltanto un’impressione che nasce dalla generalizzata delusione delle aspettative, a partire da quelle dei contadini che non hanno visto coronato il sogno di possedere la terra. Ma, appunto, la terra non l’avevano ed hanno continuato a non averla. Non è che il nuovo Stato gliel’abbia tolta. Semmai non gliel’ha data, differenza che non è un dettaglio.
Non è l’unificazione, per intenderci, a dover essere considerata una iattura, ma il modo in cui le classi dirigenti meridionali si sono integrate in essa, all’insegna della conservazione, del trasformismo, delle clientele, della chiusura di fronte a ogni esigenza di modernizzazione.
L’ingresso nello stato unitario avrebbe dovuto proiettare il Sud nella modernità. A questo pensavano, non c’è dubbio, le minoranze intellettuali emigrate in Piemonte durante gli anni Cinquanta. Come il decollo sarebbe avvenuto era del resto chiaro: aprendo al mercato sistemi economico-produttivi fossilizzati, incapaci di reggere il confronto con i tempi nuovi. Invece le classi dirigenti meridionali hanno individuato nella difesa dello status quo il loro preminente interesse, accontentandosi di una modernità d’importazione che ha generato la scissione tra nòmos ed ethos messa a fuoco di recente sul nostro giornale nell’
articolo sulla polemica tra Pasquale Simari e Angelo Cannatà.
Se il Sud ha mancato l’appuntamento con la storia – l’unificazione nazionale - non è su quest’ultima che va puntato l’indice, ma sull’insipienza delle sue classi dirigenti, incapaci di andare oltre il compromesso che ne era alla base, ribadito prima da Giolitti e poi dal fascismo e superato solo nei primi decenni della Repubblica quando, con la nazionalizzazione della questione meridionale e la conseguente creazione della cassa per il Mezzogiorno, si è prodotta una svolta. Purtroppo, le ottime premesse non hanno generato le conseguenze attese a causa di rendite di posizione ben capaci di organizzare resistenze efficaci,sulle quali non è il caso di soffermarsi ora.
Quelli che sostengono che il Sud ha perso con l’unificazione dovrebbero dunque chiedersi: cosa ci avremmo guadagnato a restare borbonici? E’ molto difficile che una risposta intellettualmente onesta e non dettata da motivazioni politiche o cripto politiche suffragherebbe le loro tesi.

Nell'immagine: stemma dei Borbone.

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(6.3.14) INTERVISTA IMPOSSIBILE A MACHIAVELLI (Angelo Cannatà) - Si è parlato molto in questi giorni del segretario fiorentino (Renzi) e del Segretario fiorentino (Machiavelli). Spregiudicatezza, amoralità, astuzia, arte della simulazione. Quanto c’è di Niccolò Machiavelli - e del machiavellismo - in Matteo Renzi? Ho posto all’autore del Principe alcune domande. Forzando – ma non più di tanto – le sue celebri tesi. Se si “gioca” al confronto tra i due segretari è bene farlo con metodo e fino in fondo.
- Allora, messer Machiavelli ha letto i giornali di questi giorni... molti guardano alle scelte di Renzi pensando alla sua filosofia. La scalata al potere del sindaco di Firenze che impressione le fa?
- Ha dimostrato coraggio e – fino adesso – grande abilità. Qui non si tratta di un “principato” ereditario o misto… ma di un potere del tutto nuovo: si acquista e si mantiene a seconda che il principe sia assistito – o meno – dalla virtù o dalla fortuna. Vedremo.
- Enrico Letta ha lasciato il potere con stile e nel Pd Cuperlo ha seguito il segretario; i renziani gioiscono. Tutto a posto dunque?
- Non corra. Quando conquisti il potere “tu hai inimici tutti quelli che hai offesi in occupare, e non ti puoi mantenere amici quelli che vi ti hanno messo”, perché non puoi soddisfare tutti i loro desideri, “e non puoi usare contro di loro medicine forti, sendo loro obbligato.”
- Tra “compagni” che scalpitano e alleati che condizionano il programma (Alfano)… sta dicendo che adesso cominciano i guai per Renzi?
- Mi sembra evidente. Sta già accadendo: vedi caso Barca.
- Renzi ha sbagliato a rompere, ha calcolato male i tempi?
- Non esprimo giudizi di valore. Osservo la realtà. Quanto ai tempi, credo – se proprio vuole saperlo – che la tempistica sia perfetta. Tra Renzi e Letta la guerra era aperta e, direi, inevitabile. Ha giocato d’anticipo. Il segretario sa bene “che la guerra non si lieva” (non si evita), “ma si differisce a vantaggio di altri.”
- Composto il governo, il segretario non rischia di essere debole come Prodi?
- Non direi. Prodi era un profeta disarmato, senza truppe. Renzi ha un consistente numero di parlamentari e dirigenti di partito al seguito, ben agguerriti. E’ la sua forza. “Tutti i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono”. Oggi la guerra si fa con l’arma del voto, a colpi di maggioranza: da questo punto di vista è – almeno per ora – ben armato.
- L’attenderanno alla prova dei fatti. Sarà difficile, dopo tanta ostentata sicurezza, giustificare falle, ritardi, incidenti di percorso…
- Troverà, immagino, un Remirro de Orco su cui scaricare le responsabilità.
- Prego?
- Questa non gliela spiego. Si legga il capitolo VII del mio libro.
- Resta una crudeltà politica il modo in cui ha liquidato Letta.
- Il giudizio sulle crudeltà è dato dal tempo, più che dal modo: “Bene usate si possono chiamare quelle (se del male è licito dire bene) che si fanno ad un tratto, e di poi non vi si insiste dentro. Male usate quelle le quali, più tosto col tempo crescono che si spenghino.”
- Lei dice questo per le violenze fisiche.
- Vale anche per quelle “politiche” e, in un senso diverso, per le “violenze” economiche subite dai cittadini: quanta sofferenza veicolano le tasse quando diventano esorbitanti e non si riesce a pagarle? Ha visto quanti imprenditori si suicidano? Renzi come si muoverà su questi temi, farà un buon uso della leva fiscale? Questa mi sembra la questione decisiva.
- Prevede ostacoli?
- Una politica senza ostacoli non esiste, ma sembra attrezzato per superarli. E’ come andare in guerra. Deve stare attento, non fidarsi delle armi mercenarie. Ma nemmeno di quelle ausiliarie (di Berlusconi), se vinci resti loro prigioniero: “Queste armi sono quasi sempre dannose; perché, perdendo, rimani disfatto, vincendo resti loro prigione”, esposto al loro arbitrio. Ci pensi: al ministero della giustizia hanno voluto un uomo gradito alla destra. Chissà perché?
- Lei ha scritto che gli uomini sono “ingrati, volubili, simulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno…”
- E’ così.
- …chi governa deve astenersi dalla roba dei cittadini... Crede davvero che Renzi possa astenersi da una patrimoniale che colpisca la ricchezza? Operai e ceto medio possono sopportare da soli il peso della crisi?
- La politica economica e il fisco sono i temi decisivi. Su ciò si misura la forza di Renzi. Dovrà colpire anche la ricchezza. Con quali reazioni? “Li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio.” A parte questo, si tratta di “svincolarsi dai lacci”: se i diktat dell’Europa strozzano il Paese, suo compito è difenderlo.
- Alfano fa il cane da guardia di certi interessi. Non sarà facile mediare tra spinte opposte di una coalizione di governo così particolare.
- E’ l’ostacolo più grande da superare. Fino ad oggi Renzi è stato volpe e leone: forte con Cuperlo, ridotto in minoranza nella società e nel partito; astuto con Letta: “Enrico, stai sereno”. Ha letto con attenzione: “Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano.”
- Ma adesso sarà più difficile simulare… Civati e Casson arrivano a ipotizzare scissioni.
- Sono un’esigua minoranza. Li ha già liquidati come “bandierine ideologiche”. In verità, “sono tanto semplici gli uomini, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.”
- Ma alla fine, messer Machiavelli, l’intelligenza collettiva, il popolo, lo giudicherà. I mezzi usati – forza, ipocrisia, opportunismo – si ritorceranno contro di lui.
- Non credo. “Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato; e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati”.
- Abbiamo vissuto l’ennesima crisi di governo extraparlamentare. Il Parlamento, col consenso di Napolitano e Boldrini, è stato bypassato. Che ne pensa?
- Napolitano non mi sorprende. Ha dimostrato (spesso) di conoscermi bene. La Boldrini sta imparando in fretta. La dignità del Parlamento è dichiarata, non rispettata: “Debbe avere un politico gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena di grandi qualità. E paia, a vederlo, tutto pietà, integrità, umanità”, giustizia. “Non è necessario averle le suddette qualità - mi intende? - ma è bene necessario parere di averle”.
- Capisco. Quest’Italia “dispersa, lacera, battuta”, ha bisogno di un politico virtuoso. Non si può vivere con la disoccupazione giovanile al 41 per cento. La persona giusta è Renzi?
- Su questo non dico nulla. Leggo che punta a “buoni rapporti” con le banche. Significa qualcosa? I problemi sono davvero molti. Gramsci ha scritto che il moderno Principe è il partito politico. C’è del vero nella sua tesi, ma se guardo al Pd… è un disastro. Bisogna cominciare tutto daccapo.
- Grazie per l’intervista.
- Grazie a lei. Buona fortuna.

Articolo apparso sul Quotidiano della Calabria del 27.02.2014

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(8.3.14) RIVANGARE IL PASSATO SERVE DA STIMOLO PER MIGLIORARE IL PRESENTE (Don Gildo Albanese) - Caro Michele,
hai ripreso la pubblicazione delle
foto di quel tempo, ormai lontano, nel quale io, giovane prete alle prime esperienze pastorali e voi giovani alla ricerca di un senso da dare alla vostra vita, abbiamo costruito una storia insieme della quale l'Evento Cristo era il fondamento e grazie a questo abbiamo potuto mettere il nostro entusiasmo giovanile, che non era frutto di un'emotività passeggera o un fuoco di paglia, per trasmettere Colui al quale abbiamo creduto e riproporlo al nostro paese con una storia, non sempre facile, anzi irta di difficoltà, ma semplice ed entusiasmante.
Le foto parlano della semplicità e della povertà dei mezzi che avevamo a disposizione per annunziare Gesù Cristo e nel contempo del nostro ardore interiore! Abbiamo operato perché abbiamo creduto e per questo è rimasto dentro il nostro cuore la "Memoria" che appartiene non più a noi soli a tutti coloro che di questa "Memoria" hanno fatto il fondamento della loro vita. Non vorrei, Michele, che attraverso le pubblicazioni di queste foto fossimo "laudatores temporis acti" ma la pubblicazione abbia un significato di esemplarità e di stimolo perché ci sia oggi chi sappia fare meglio di noi perché anche oggi è tempo di Cristo!
Proprio ieri il Papa, parlando ai preti di Roma, ha invitato le comunità ad essere luoghi di misericordia dove i pastori non siano "asettici" e costruiti "in laboratorio" ma siano protagonisti del dono dell'amore. Questo non vale solo per noi preti che dobbiamo metterci il cuore nell'evangelizzare ma anche per voi cristiani laici perché insieme si possa edificare una chiesa che sia come "un ospedale da campo" perché "c'è bisogno di curare le ferite, tante ferite! Tante ferite! C'è tanta gente ferita, dai problemi materiali, dagli scandali, dalle illusioni del mondo, per questo dobbiamo essere vicini".
Nel nostro piccolo, allora ci siamo sforzati, continuiamo a farlo stavolta non più da giovani ma da adulti con tanta esperienza in più.
Un caro saluto.

Don Gildo

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(10.3.14) CARNEADE: CHI ERA COSTUI?... SCONOSCIUTO ANCHE A GALATRO (Michele Scozzarra) - «Carneade! Chi era costui?» ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. «Carneade! questo nome mi par bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?».
“Carneade! Chi era costui?”… proprio con le parole che il Manzoni mette sulle labbra di don Abbondio, più di una volta, ho avuto l’ardire, già molti anni fa, di proporre un convegno da tenere nella sala conferenze del Comune di Galatro.
Su cosa, si domanderà qualcuno. Su Carneade? Ebbene sì, ho proposto di tenere un incontro sui tanti “Carneade” che leggiamo nelle insegne delle vie dei nostri paesi e, nel leggere il nome, non possiamo non pensare: “Chi era Costui?”.
A questo punto capisco che qualcuno potrebbe, a torto o a ragione, obiettare: “Allora ti sei proprio giocato il cervello!”.
Se ci pensiamo bene, tanto per incominciare a entrare nel tema che mi sta a cuore, non possiamo non affermare che è vero che Galatro ha vie dai nomi “altisonanti”: Garibaldi, Dante, Matteotti, San Nicola, Regina Margherita, Oberdan, Nazario Sauro, Mazzini, Verdi, Pertini, Leonardo, Giotto, Michelangelo, Fleming, Martin Luther King, Fausto Coppi, John Kennedy, Papa Giovanni, Padre Pio, ecc., non manca la Madonna e nemmeno la Maddalena!
Ma ci sono altre vie che portano i nomi di alcuni galatresi, forse soltanto di adozione, dei quali sono convinto che molti galatresi non abbiano idea (a cominciare da me!) chi fossero e cosa hanno fatto questi uomini. E quel che è peggio, che se ne freghino… che non siano nemmeno interessati a saperlo!
Vediamo di fare qualche nome: Via Abate Conia, Via Antonio Martino, Via Angelo Lamari, Via Nicola Garigliano, Via Tenente Pagani, Via Alfonso De Felice, Via Fortunato Seminara, Via Colonna, Via Ferruccio, Via Teologo… per non parlare di altre vie tipo via Giudecca (‘a judecha), Via Romitorio, Via Scesa Lavandaie… che già nel nome, sicuramente, indicano una storia ben precisa, anche se sconosciuta.
Forse, e pongo l’accento sul “forse”, qualcuno potrà anche sapere chi era Martino, o Conia, o Seminara. Ma per gli altri? Per gli altri vale l’espressione di manzoniana memoria: “Carneade… chi era costui?”. E’ soprattutto sugli “sconosciuti” che mi è sempre piaciuto stimolare un “convegno”. Quante volte ne ho parlato con Umberto Di Stilo e col Sindaco Carmelo Panetta: tanti anni fa ho provato a stimolare un interesse in questo senso. Questi “sconosciuti” meriterebbero che l’Amministrazione comunale, dopo aver loro giustamente dedicato tante strade, indicasse sulle targhe chi erano questi personaggi e il motivo per il quale sono ricordati, proprio come da qualche tempo vediamo, in targhe rotondeggianti o rettangolari, su Chiese e Palazzi di tante città (so, e mi fa piacere dirlo, che l’Amministrazione, proprio in questi giorni, sta lavorando per mettere le targhe con il simbolo del paese e la specificazione del “chi è” il personaggio cui è stata intestata la strada).
Altrimenti dico, se ci si deve limitare a scrivere su un “pezzo di lamiera” via Tizio o Caio (il Carneade di turno!) e niente altro, per quale motivo lo facciamo? Per tacitare la nostra coscienza? Per dovere? Per sadismo nei confronti dei cittadini e dei visitatori che si trovano davanti a dei nomi senza sapere chi siano? Per dare un titolo qualsiasi a una strada che, altrimenti, non si saprebbe come indicare?
Bisogna sentire anche il dovere di raccontare degli “sconosciuti” e specificare il motivo della loro fama… dire che anche se non sono menzionati in nessuna enciclopedia, se hanno avuto intitolata una strada, un motivo ci sarà… e in questo motivo c’è da leggere un pezzo di storia della nostra piccola comunità!
Penso che basti poco ad allontanare la domanda “Carneade… Chi diavolo era costui?” e penso che il Sindaco Melo Panetta e Umberto Di Stilo sono d’accordo con me.
E sull’argomento, senza nulla togliere al Sindaco, Umberto ha tanto da dire. Per questo passo a lui la palla e non aggiungo altro.
A buon intenditore…!


Nelle foto: scorci di alcune vie di Galatro.


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(19.3.14) I GIOVANI FANNO FLOP MA... "LA COLPA E' DEI VECCHI" (Danilo Lamanna) - A meno di due anni dalla sua fondazione, il presidente Danilo Lamanna comunica già lo scioglimento dell'Associazione Giovani Galatro Terme. Il clamoroso e sorprendente flop sarebbe dovuto «agli impegni universitari che hanno allontanato da Galatro la maggior parte dei soci, in particolare il direttivo». Lamanna scarica però le colpe del fallimento sull'apatia delle generazioni più attempate e sul disinteresse della comunità.

* * *

LA FINE DI UNA GRANDE ESPERIENZA
Danilo Lamanna

Non ritengo sia una bella notizia, da dare a cuor leggero, quella che mi accingo a dare: in qualità di rappresentante legale, comunico a malincuore, a tutti i galatresi che ci hanno seguito e dato fiducia che, da circa un mese, l'Associazione Giovani Galatro Terme, ha chiuso i battenti e questo ritengo sia un fatto negativo per Galatro.
Formatasi come "gruppo giovani" l’11 luglio 2012 a seguito di un incontro promosso dall'Amministrazione Comunale, che vedeva coinvolti tutti gli enti e le associazioni affermati sul territorio nonché tutti i giovani, al fine di organizzare dei momenti culturali sotto i più ampi contesti nel periodo estivo luglio - agosto 2012, il gruppo da subito ha organizzato una serie di manifestazioni, che hanno visto protagonisti anche tanti ragazzi disabili del nostro paese.
Tra le manifestazioni più note non posso non citare i "giochi estivi junior" e la classica "Caccia al tesoro per le vie di Galatro", che hanno avuto un enorme successo in termini di partecipazioni, sfiorando la soglia degli 80 partecipanti di diverse fasce di età (cosa che per Galatro non è un dato da trascurare).
In seguito, il 1° gennaio 2013 il gruppo si costituisce come Ente affermato sul territorio, denominato "Associazione giovani Galatro Terme" con lo scopo di promuovere iniziative di natura ricreativo-culturale, di rivalutazione del territorio ed offrire esperienze a tutti i giovani galatresi, collaborando con le associazioni già affermate e con l'Amministrazione Comunale che, da subito, ha dato un grande sostegno a questo nostro progetto.
Tra le iniziative che hanno "spopolato" nel 2013, ci tengo a ricordare "la gara di pesca", che ha dato lustro a una delle nostre principali risorse, il fiume Metramo, con progetto associato di ripopolamento ittico del fiume; il "calcio saponato" (attrazione da spiaggia) ha regalato tre giorni di vita sociale-organizzativa splendida, coinvolgendo in pieno tutti i giovani galatresi e dei paesi limitrofi.
Non si può non tenere nel debito conto, anche se per il poco tempo che ha operato, l'importante ruolo che questa Associazione ha svolto a Galatro, in quanto ha trasformato i "silenzi" dei giovani nelle organizzazioni, in attività che hanno avuto lo scopo, oltre a divertire e impegnare la comunità, di far rinascere quella voglia di aggregazione che ha caratterizzato i migliori anni, ormai andati, della storia di Galatro.
Ma, purtroppo, dobbiamo costatare che tutto si è "raffreddato" subito, soprattutto a causa degli impegni universitari che hanno allontanato da Galatro la maggior parte dei soci, in particolare il direttivo, costretti a trascorrere lunghi periodi fuori sede.
Abbiamo in tutti i modi cercato di evitare il peggio, ma un grave disinteresse e l’assenza di continuità nell’impegno con le generazioni che ci hanno preceduto (che spesso abbiamo cercato di coinvolgere senza risultati soddisfacenti), hanno portato a non continuare nella gestione del progetto… e, purtroppo, abbandonare tutto.
Tuttavia non considero tutto questo un fallimento, ma la conseguenza dell’apatia e del disinteresse di una comunità che non riesce ad arrestare questo "degrado" nel quale sta sprofondando, se così lo possiamo definire, nonostante abbiamo provato a motivare e dar fiducia alle nuove generazioni, che spesso si esprimono con grave negatività nei confronti della società galatrese.
Ci tengo ad affermare che, nonostante la chiusura del gruppo, ritengo che non bisogna mai fermarsi e mollare tutto, ma andare avanti e costruire sempre qualcosa di buono, positivo e culturalmente valido per la crescita di Galatro.

Nella foto: Danilo Lamanna, ex presidente della disciolta Associazione Giovani Galatro Terme.

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(21.3.14) IL CASO ANTONIA BATTAGLIA E UNA CERTA IDEA DELLA POLITICA (Angelo Cannatà) - Stimo molto Michele Serra e capisco che il caso della lista Tsipras possa essere letto attraverso la lente amara della satira: “Una signora pugliese (portavoce di un imprecisato numero di ‘associazioni pacifiste’), si è molto adirata per la presenza in lista di altri pugliesi a lei sgraditi, appartenenti a Sel. Con tutto il rispetto per la Puglia e per i suoi trulli, la disputa non appare esattamente di respiro europeo”. Giusto. Ciò detto alcune osservazioni sono necessarie, perché non tutto può essere risolto con poche – e lucide, certo – battute ad effetto.
Pongo qualche domanda, a partire dal rapporto etica-politica che, talvolta, riempie le prime pagine dei giornali (anche gli articoli di Serra) e talaltra, improvvisamente scompare. Possiamo ricordarci - è questo il punto - della questione morale a giorni alterni? Essere schizofrenici e utilizzare categorie etiche i giorni dispari e il più cinico realismo nei giorni pari? Insomma, è possibile individuare nella questione morale - magari citando Berlinguer - il cancro che avvelena la politica italiana, il bubbone pestifero da estirpare, per poi dimenticarla quando si formano le liste?
Non è una questione di poco conto. Dice Serra: “Fare ripiombare nella bega personale ogni questione di qualche respiro e di qualche nobiltà (...) questa è, da sempre, la vera specialità della sinistra, e in modo speciale della sinistra 'antagonista'.” Difficile non essere d’accordo sul piano generale: la sinistra radicale è litigiosa. E’ anche vero tuttavia che “questa” sinistra - minoritaria e antagonista - è portatrice (spesso) di valori non negoziabili, di una coerenza tra parole e azioni, teoria e pratica che altrove non esiste più. Con quali risultati - sul piano morale e politico - è sotto gli occhi di tutti. Come non vedere che cedere sui principi (e il rispetto dei patti) significa aprire le porte all’abisso dell’opportunismo ("enricostaisereno"). Voglio dire: se c'è un comitato di garanti che si dà una linea politica - non candidare esponenti di Sel inconciliabili con le lotte contro l'Ilva -, è possibile all'improvviso passarci sopra (echisenefregadellaquestionemorale) inserendo due rappresentanti, Di Palma e Cataldo, del partito del governatore pugliese?
Sono domande semplici che – sub specie satira – possono essere liquidate come “pruriti” di anime belle che producono scissioni e spaccature; ma, in verità, dovrebbero far riflettere criticamente su come l’intellighenzia di sinistra, anche quella vigile rispetto alla questione morale (Serra) perda di vista, talvolta, l’essenza dei temi in discussione. Qui, nel caso di Camilleri e Flores che lasciano il comitato dei garanti della lista Tsipras, in gioco non c’è – posso sbagliarmi – la volontà scissionista, antagonista e gruppettara, ma la rispettabilissima difesa di un’idea della politica non scissa dall’etica. Se si decide che certe candidature non vanno bene, stabilito il principio va rispettato. Non farlo pone problemi. Anche perché la “signora pugliese” (come la chiama Serra), Antonia Battaglia, non è certo una sprovveduta: ha parlato a lungo con alcuni garanti: “spiegavo perché non potevo stare - dice - in lista con gente di Vendola, del quale tra l’altro qualche giorno fa é stato richiesto il rinvio a giudizio dalla Procura di Taranto! Chi nella lista ha deciso sapeva benissimo cosa faceva e mi ha esposta ad una violenza inaudita. La sera della pubblicazione delle liste (…) Vendola dichiarava di aver sempre lottato per ‘scoperchiare la realtà ed aprire i dossier sulla diossina’. Ecco, io ero in lista con loro.” Stare con Antonia Battaglia significa difendere una certa idea della politica. Altro che beghe personali. Questa volta non è proprio possibile essere d’accordo con Serra. Talvolta anche la satira minimizza. E’ possibile dirlo o si commette un reato di lesa maestà?

Questo articolo - pubblicato sabato 15 marzo dal “Quotidiano della Calabria” - è stato ripreso da micromega.net (il sito di "MicroMega", importante rivista di filosofia e politica italiana):
visualizza.

Nella foto: Antonia Battaglia.

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(24.3.14) SUL RAPPORTO TRA IL CANE E L'UOMO (Michele Scozzarra) - La lettura dell'articolo “La moda del cane di razza”, pubblicato su Galatro Terme News nei giorni scorsi, mi ha provocato diverse e contrastanti sensazioni. E' vero che tante persone sono spinte a seguire tante “mode” che portano ad avere “caratteristiche snobistiche e fanatiche con il cane di razza (spesso razza feroce) esibito nelle strade con irritante nonchalance, senza soverchie precauzioni”.
Ma se non si può negare questo aspetto (certamente vero e reale nel pericolo e nell'aggressione di chi si trova ad incrociare questi animali), è anche vero che “il rapporto di naturale amicizia tra cane e uomo, non solo si è evoluto, ma resiste dall'inizio dei tempi e anche la letteratura è piena di esempi: Ulisse ritornato ad Itaca dopo il “periglioso viaggio” è stato riconosciuto, per primo, proprio dal fedele Argo che non l’aveva dimenticato.
Fatta questa premessa voglio ricordare come, esattamente un anno addietro, il compianto Direttore Carmelino Cordiani, in una delle nostre tante discussioni serali su Facebook, più volte mi ha chiesto: “Scusa avvocato! Domani leggerai una mia riflessione. Se la commenti mi fai piacere. Grazie!”.
Alle richieste del Direttore Cordiani sono intervenuto per tre volte (che riprenderò, pian piano, nelle prossime settimane).
Prendendo spunto dall’articolo sulla “moda del cane di razza”, incomincio con il pubblicare il mio commento alla riflessione di Carmelo Cordiani su Tommy, il cane che a San Donaci, nel brindisino, si recava in Chiesa per aspettare il ritorno della sua padrona, morta da tempo.

* * *

BREVI CONSIDERAZIONI SU “CHE CANE SAN NICOLA!” DI CARMELO CORDIANI
Michele Scozzarra

Il Direttore Carmelo Cordiani nel suo ultimo “dialogo” con san Nicola, precisamente nel suo ultimo articolo “Che cane San Nicola”, parla di Tommy: “Si tratta di un cane, con due occhi misteriosi, che si reca in chiesa, a San Donaci, nel brindisino, per aspettare il ritorno della sua padrona. Non sa che gli affetti, anche quelli più intensi, sono destinati a spezzarsi. Aspetta! Forse il suo particolare fiuto avverte la presenza della sua signora, mamma Maria, inginocchiata al solito posto, con gli occhi rivolti verso l’altare dove il sacerdote celebra il sacro rito. A messa finita, Tommy esce, si accuccia sulla strada, riceve le carezze della gente che conosce la sua storia e ammira la sua fedeltà ... “Anche il tuo è stato fedele” dissi a San Rocco, mentre passavo davanti al suo altare per avvicinarmi al Santo Patrono. “Però a te portava il pane perché eri vivo e avevi fame. Non so se avrebbe continuato a portartelo non vedendoti più”. “Il cane di San Rocco è fedelissimo”, tuonò la vecchina che aveva percepito tutto, nonostante avessi solo sussurrato… “Scusate, ma io non ho messo in dubbio la fedeltà di questo cagnolino così simpatico. Ho voluto dire che, se non avesse più trovato il Santo al solito posto, forse avrebbe smesso di portargli la pagnotta. Invece c’è un altro cane che continua ad andare in chiesa per aspettare la sua padrona già morta da un po’ di tempo. Questo cane si chiama Tommy. Voi sapete, per caso, come si chiama il cane di San Rocco e dove prende la pagnotta che porta in bocca?”
Nel restare ammirato per tanta devozione dell’animale, non si può non spostare l’attenzione anche sull’uomo: “Quando osservo attentamente le strane abitudini dei cani, mi tocca concludere che l'uomo è un animale più evoluto. Quando osservo le strane abitudini dell'uomo, ti confesso, amico mio, che resto dubbioso. Sul prato di un parco romano osservo un signore che brandisce un ramo secco; lo scaglia lontano e il suo cane, che ha seguito con occhi mobili il gesto, si precipita a raccoglierlo. E così via, in una sequenza senza variazioni”. Allora come si fa a non raccogliere la provocazione, ben più sostanziosa, del poeta Ezra Pound nella sua poesia emblematicamente intitolata “Meditatio”, di cui sopra ho citato un frammento. L'evoluzione, certo, ha trasferito l'uomo su un livello più alto e l'arte lo testimonia, il pensiero lo conferma, la religione lo manifesta. Eppure il dubbio che serpeggia nella mente pessimista del poeta tante volte attanaglia un po' anche noi, quando scopriamo certe vergogne compiute dall'uomo o penetriamo nei bassifondi della nostra stessa coscienza ove s'annidano sentimenti infami e desideri innominabili e ove si aprono abissi di assurdità. Uno dei grandi sapienti dell'antichità, Democrito di Abdera, diceva che l'uomo è un mikrós kósmos, un microcosmo di sapienza, intelligenza, creatività. Ma aveva ragione anche Goethe quando, nel suo celebre Faust, dichiarava che «l'uomo è un microcosmo di follia». E il cane, rivolgendo il suo muso umido verso il padrone crudele, sembra sospettarlo.
Tuttavia, è anche vero che l’uomo e la donna sanno precipitare in tali abissi di infamia e assurdità da rendere sospetta la loro “superiorità”. Il biblico “dominare pesci, uccelli, bestiame domestico e selvatico e rettili”, si è trasformato spesso in un esercizio tirannico. E i cani, talvolta, levando il loro muso umido verso di noi sembrano chiederci ragione di tanta ottusità e crudeltà. E questo fa aumentare il nostro stupore, per gli occhi di Tommy rivolti verso l’altare dove il sacerdote celebra l’ultima messa alla sua padrona… e quello sguardo rappresenta uno schiaffo alla nostra irragionevole ottusità e crudeltà!

Nelle foto: in alto Michele Scozzarra, in basso articolo sul cane Tommy.

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(9.4.14) VOTO DI SCAMBIO... UN PROBLEMA CHE PARTE DA LONTANO (Michele Scozzarra) - Nei giorni scorsi il Senato ha approvato il ddl contro il voto di scambio politico-mafioso: tante perplessità sono state manifestate da più parti sull’approvazione della nuova formulazione dell’art. 416-ter del codice penale.
Al di là della “enunciazione” dell’articolo di legge, da molti è ritenuto pacifico, infatti, che “…oggi, malaffare, criminalità organizzata e politica abbiano individuato ben altre utilità attraverso le quali contrattare e distorcere il consenso: informazioni, appoggi, favori, concessioni, assunzioni, autorizzazioni, ecc., costituiscono elementi di scambio ben più redditizi di una semplice somma di denaro”.
Chi è cosciente di questo, non può non augurarsi che il Parlamento possa essere in grado di mettere in campo tutti gli strumenti necessari ad assicurare una efficace, quanto reale, lotta alla corruzione, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli altissimi.
Immagino quanti discorsi, fondati o meno, sentiremo su questo decreto, soprattutto da quelle parti che, parlando della decadenza attuale della politica, indicheranno gli ultimi decenni trascorsi come tra i più rovinosi della storia d’Italia e, andando indietro nel tempo, tireranno in ballo le argomentazioni più varie per sostenere che la politica si è corrotta solo "ai nostri giorni".
Ritengo questa una visione ingenua e provinciale del problema, per questo sono andato a spulciare nel nostro "passato più remoto" e credo interessante prendere in esame una testimonianza storica, che ci illumina con singolare precisione proprio sui precedenti antichi dell'odierno "voto di scambio".
Ho scovato un breve opuscolo, che mi è stato segnalato tempo addietro, scritto probabilmente da Quinto Tullio Cicerone (fratello del celeberrimo Marco), che porta il titolo “Commentariolum petitionis”: un'espressione che potremmo felicemente tradurre, "piccolo vademecum per la campagna elettorale".
L'operetta fu scritta in occasione delle elezioni al consolato del 63 a.C., alle quali Marco Tullio si presentava come candidato, sfidando dei concorrenti potenti e agguerriti come Gaio Antonio Ibrida e Lucio Sergio Catilina. Marco era un homo novus, privo di illustri natali, e forte unicamente della propria virtus, dei meriti acquisiti sul campo nel corso della propria carriera forense: la battaglia politica, perciò, si preannunciava particolarmente aspra, tanto da indurre Quinto Tullio a sintetizzare (in una specie di lettera aperta indirizzata al fratello, e destinata a circolare tra tutti i suoi supporter) tutti i principali accorgimenti da tenere presenti durante la competizione, per conquistare quel favore degli elettori che avrebbe permesso all'ambizioso avvocato di raggiungere l'agognato successo.
Ebbene, vediamo quali erano questi consigli, questi “suggerimenti” per vincere le elezioni? Il linguaggio del Commentariolum è estremamente esplicito: "Per essere votati, occorre che gli elettori ricevano un vantaggio da questa elezione, e questo vantaggio può consistere in due cose: il piacere di avere come governante un amico, al quale si sia legati da rapporti di simpatia, di consuetudine, di intimità, e la prospettiva di poter trarre un beneficio dalla riconoscenza di un uomo potente il quale potrà in molti modi ricambiare il favore ricevuto in occasione della competizione elettorale".
Quanto, poi, all'amicizia, il manualetto insiste sulla sua importanza: il Candidato deve fare in modo di "farsi quanti più amici possibile, badando bene a mostrarsi un vero amico, sincero, duraturo; deve moltiplicare le conoscenze personali, deve mostrare di conoscere tutti per nome, deve spalancare la porta della propria casa, anche di notte. Deve, soprattutto, mostrarsi sinceramente interessato all'amicizia degli elettori, e tale desiderio sarà tanto più intenso, quanto più sarà legato alla prospettiva di ottenere vantaggi materiali, suscitando la speranza di un'amicizia utile (Spes utulitatis atque amicitiae)".
Per quel che riguarda la promessa di favori e di aiuti di vario genere, offerti in cambio di un sostegno nella campagna elettorale, il manualetto non è solo esplicito ma insistente, ripetitivo fino alla monotonia: "Occorre promettere tutto il possibile, al massimo numero di persone, facendo in modo che siano in molti ad attendersi dei precisi vantaggi dal successo del candidato. A ogni richiesta che si riceva, pertanto, occorre rispondere affermativamente: anche quando si prevede che essa non potrà essere realmente esaudita. Infatti - spiega cinicamente l'autore - è meglio fronteggiare in seguito il risentimento di chi non si vedrà soddisfatto, piuttosto che subire subito il malumore derivante da una serie di rifiuti".
Insomma, secondo la descrizione di Cicerone, il voto di scambio non appare affatto come una deviazione o una degenerazione, bensì come la regola fondamentale dell'intero sistema elettorale romano. Né è da pensare che il clan ciceroniano spiccasse per particolare immoralità: il manualetto, pur non destinato ad una larga diffusione, non era affatto un'opera segreta; e in esso, anzi, si insiste nell'elogio della virtù dell'homo novus Cicerone, contrapposta alla cattiva fama dei suoi avversari. Promettere servigi di ogni tipo era considerato perfettamente compatibile con la più specchiata reputazione.
Per portare il discorso ai giorni nostri, che dire... certamente oggi nessun candidato, o persona di sua fiducia, oserebbe far circolare un testo così spregiudicato come il Commentariolum: però mi domando, e chiedo, se sia più da apprezzare la franchezza con cui queste cose erano scritte e pubblicate... dagli antichi, oppure la finta moralità che fa tacere in pubblico i moderni, anche quando, nella prassi, certi metodi continuano ad essere ampiamente praticati!
Perfino Seneca, talvolta così pesante nel suo rigore stoico, a chi gli rimproverava di amare il denaro, gli agi ed i possedimenti che come filosofo avrebbe dovuto disprezzare, risponde: “Io parlo della virtù, non di me. Io sono nel profondo dei vizi e quando condanno i vizi, per primi condanno i miei. La vostra velenosa malignità non mi impedirà di continuare a onorare la virtù e a seguirla anche arrancando da lontano”.
E’, questa di Seneca, una coraggiosa condanna del moralismo, che non tiene conto della debolezza umana… anche oggi, a parole il rinnovamento morale viene ad occupare il primo posto... però bisogna pur riconoscere che i discorsi non solo non hanno la forza di rendere migliore l'uomo, ma di solito servono da copertura alle malefatte del potere.
E nel costatare, amaramente, come ad una efficace e opportuna azione politica si sono sostituiti discorsi, o meglio chiacchiere, sulla moralità, in tempi di così cruenta rivoluzione puritana, quanto più umano appare lo sfogo di Cesare Pavese: "Basta con la morale. Solo la carità è rispettabile".
Che io mi permetto di tradurre: "Basta con gli sterili discorsi, torniamo a fare politica, quella che bada solo alla difesa di una comunità concreta, ne conosce i bisogni e si attiva per risolverli".
Il resto sono palle per gli ingenui...

Nelle foto: in alto Michele Scozzarra; in basso Cicerone parla in senato.


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(16.4.14) LA DESERTIFICAZIONE DI GALATRO (Nicola Sollazzo) - Quando si leggono le lettere appassionate, piene di amore per questo nostro paese, che ricordano le viuzze, gli angoli dove ci si nascondeva, le strade lastricate, le case senza servizi igienici, scritte da quei nostri compaesani che ormai da tanti anni si trovano in altre terre per lavoro e che là vi hanno organizzato definitivamente la loro vita e che pure hanno voglia di ritornare e rivedere questi luoghi cari alla loro infanzia;
quando le stesse lettere, magari con toni diversi, vengono scritte da quei compaesani che sono emigrati in questi ultimi tempi, e senti lo stesso amore per questo paese;
quando leggi tutto questo senti la tua pelle accapponarsi ed un groppo ti parte dallo stomaco e ti sale dritto alla gola e vorresti piangere e non puoi farlo perché ormai hai un’età, ma il tuo pensiero va subito a chi magari qualcosa potrebbe fare per cambiare il volto economico e sociale di questo paese e però non si muove, non lavora, non si impegna e si sente gratificato soltanto a sentirsi dare un bel titolo onorifico.
La nuova emigrazione ormai sta azzerando il nostro piccolo paese, cammini per le strade e non incontri nessuno e ti senti solo e capisci perché i disoccupati e gli operai se ne vanno, quelli che sono in possesso di specializzazione e diploma se ne vanno, i laureati nelle università del sud se ne vanno e quelli che si laureano al nord rimangono nelle aree dove hanno completato gli studi. Si tratta certamente di posti di lavoro che non ci sono ma anche di qualità della vita che è pessima.
Eppure Galatro avrebbe, anzi ha, le potenzialità per migliorare, e dal punto di vista dell’occupazione e dal punto di vista di una vita più consona agli anni che si stanno vivendo, basti pensare a quanto potrebbero dare la diga sul Metramo e le Terme di cui abbiamo parlato e parleremo sicuramente in altro momento.
Ma purtroppo chi ha la responsabilità di creare queste condizioni nulla sta facendo per operare in tal senso. Chi ha tale responsabilità l’ha chiesta ai cittadini di Galatro assicurando di essere in grado, di avere capacità e di avere grande volontà di lavorare per cambiare le cose.
Fino ad oggi nulla si è mosso ed allora a noi cittadini ci viene da pensare che due possono essere i motivi:

1. o quelli che dicevano di avere grande capacità ed altrettanto grande volontà magari sono capaci ma non hanno nessuna volontà di impegnarsi a lavorare per il bene del paese, ed allora in questo caso hanno imbrogliato la collettività quando hanno chiesto di avere assegnata la responsabilità di cambiare le cose;

2. oppure oltre alla volontà non hanno neanche la capacità di affrontare i problemi per cui si sono pubblicamente impegnati, ed allora è chiaro che i galatresi sono stati imbrogliati due volte.

Nell’uno e nell’altro caso non hanno mostrato sensibilità verso quei nostri concittadini emigrati che quelle belle lettere d’amore per il nostro paese scrivono, così dimostrando che loro questo amore non lo sentono. E non hanno mostrato sensibilità nemmeno verso tutti i cittadini ancora residenti che avevano speranza di vedere il loro paese cambiare in meglio e stanno vedendo disattesa la loro speranza.
Per tali motivi dovrebbero chiedere a tutti venia, secondo il principio e nelle maniere che l’etica politica in questi casi impone.


Nelle foto: in alto piazza Matteotti deserta di sera oggi; in basso via Garibaldi sul finire degli anni '50.


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(19.4.14) RESURREXIT TERTIA DIE... IL TERZO GIORNO E' RISUSCITATO (Michele Scozzarra) - Resurrexit tertia die... Il terzo giorno è risuscitato.
Oggi, insieme con tutta la chiesa, noi ripetiamo queste parole con una particolare emozione. Le ripetiamo con la stessa fede, con la quale, proprio in questo giorno, furono pronunciate per la prima volta. Le pronunciamo con la stessa certezza, che hanno messo in questa frase i testimoni oculari dell’evento. La nostra fede proviene dalla loro testimonianza, e la testimonianza è nata dalla visione, dall’ascolto, dall’incontro diretto, dal tocco delle mani, dei piedi e del costato trafitti.
La testimonianza è nata dal fatto; sì, il terzo giorno Cristo è risuscitato.
Oggi ripetiamo queste parole con tutta semplicità, perché esse provengono dagli uomini semplici. Esse provengono dai cuori che amano e che hanno così amato Cristo, da esser capaci di trasmettere e di predicare niente altro che la verità su di lui:
Crucifixus sub Pontio Pilato passus et sepattus est.
Fu Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto.
Così suonano le parole di questa testimonianza E con la stessa semplicità della verità continuano a proclamare: et resurrexit tertia die. Il terzo giorno è risuscitato.
Da quel “terzo giorno” il mondo non ha tollerato quell’Uomo che ha annunciato la presenza del divino nella sua stessa persona… il figlio di Maria che tutti conoscevano come uomo ma che si è detto Dio.
Per questo, allora come oggi, il mondo non tollera chi ripropone quella Persona, quel Fatto, quella Presenza… non tollera chi ridice che Dio è un “fatto” presente, con un nome storico (Gesù Cristo) che tocca la vita di ognuno di noi.
Da sempre il “potere” ha ritenuto, in diverse epoche storiche, di avere debellato il “Nemico”, o di essere sul punto di farlo… ossia di avere debellato quella “mala pianta” che è ritenuta la presenza tangibile, incontrabile di Cristo: la sua pretesa di dire una parola sulla vita concreta degli uomini e della società, cioè, la pretesa di riuscire non solo a dire, ma anche a dare, un senso alla vita.
Nel momento in cui Cristo rinuncia a questa pretesa, il cristianesimo diventa il benvenuto nelle stanze del “potere” e nel salotti “buoni” del mondo… si accetta tutto, purché non si dica che Cristo ha a che fare con la vita del mondo e degli uomini, anzi di ogni singolo uomo.
Oggi come allora Cristo va bene, anzi benissimo. Va benissimo la messa, le liturgie, le processioni… va bene tutto, anche i comandamenti, non solo i dieci ma possono diventare venti, o cento o mille.
Basta che Cristo non pretenda di essersi fatto Uomo (e di essere resuscitato dai morti), di averci incontrati, di aver reso giusto con la sua croce il nostro dolore ingiusto, di essere diventato una presenza nel mondo, entrando nella nostra vita e cambiandola. Questo è troppo per ogni “potere”, e per ogni “lobbies”, e non può essere tollerato e sopportato.
Ma l’uomo non può mai perdere la speranza nella vittoria di Cristo di fronte alle menzogne del mondo e dei suoi “poteri”.
Resurrexit tertia die: il terzo giorno è risuscitato. Questo giorno è l’inizio della nuova speranza a cui siamo chiamati, cioè il passaggio ad una vita “nuova” piena di senso e significato. Questo passaggio per i cristiani si chiama “Pasqua”.
Buona Pasqua a tutti… nessuno escluso!

Nella foto: Michele Scozzarra; il sepolcro vuoto di Cristo.


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(21.4.14) I DIRITTI DEGLI ITALIANI ALL'ESTERO (Bruno Zito) - BUENOS AIRES - Inanzitutto porgo i miei più fervidi auguri di Buona Pasqua a tutti i galatresi.
Gli italiani che un giorno fummo costretti ad abbandonare il nostro paese abbiamo soltanto i diritti civili, ma siamo esclusi dai diritti politici. Questa situazione ci ha costretto a vivere una vita limitata in tutti i sensi.
Al riguardo voglio dire che, secondo la Costituzione Italiana del 1948 (artt. 3, 48 e 51), è stata stabilita la parità dei diritti per tutti gli italiani, senza tener conto del luogo della loro residenza.
Sebbene da quel giorno siano trascorsi già oltre 60 anni, tramite la Legge Tremaglia il Governo Italiano ha riconosciuto i nostri diritti. Aldilà della cosidetta situazione legale, voglio dire che quando gli emigrati incominciarono il viaggio senza conoscere veramente il loro destino, si aprì una ferita nel loro cuore che mai si rimarginerà, ricordando sempre la famiglia, gli amici, la scuola, il bosco, il fiume, etc.
Per tutto questo, e tenendo conto della mia personale esperienza, voglio rivolgere un messaggio a tutti i giovani del mondo affinché amino la loro terra e la difendano in qualsiasi circostanza, senza mai abbandonarla; perchè il dolore della lontananza è più forte di quello di subire le avversità restando nel proprio paese; perchè con volontà e sacrifici tutti i problemi vengono risolti.
L’esempio più tipico è quello dell'Italia, che era distrutta dopo la guerra ed ora è una delle nazioni più importanti del mondo.


Nelle foto: in alto l'avv. Bruno Zito; in basso un francobollo in occasione del primo voto degli italiani all'estero.


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