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7.1.15 - Quando Peppe Sgrizzi consegnava i pacchi della befana
Umberto Di Stilo

20.2.15 - Due interventi
Don Gildo Albanese

7.3.15 - Diritto allo studio e integrazione scolastica dei diversabili
Federica Crea

8.3.15 - Un grazie alla Redazione e a Don Gildo
Fortunato Lucia

19.3.15 - La favola... vera dei Sollazzo in Argentina
Nicola Sollazzo

20.3.15 - Scuola: limiti e demagogia della riforma
Angelo Cannatà

23.3.15 - Guida per le processioni religiose: tanto rumore per nulla
Michele Scozzarra

28.3.15 - Ci sedemmo dalla parte del torto
Pasquale Cannatà

3.4.15 - Umberto Di Stilo: «La Via Matris non c'entra nulla con la Settimana Santa»
Michele Scozzarra





(7.1.15) QUANDO PEPPE SGRIZZI CONSEGNAVA I PACCHI DELLA BEFANA (Umberto Di Stilo) - La ricorrenza dell’Epifania, ogni anno, ha il potere di operare degli improvvisi (ma, col passare degli anni, sempre più giustificati) ritorni al passato. In ogni persona adulta è come se una luce si accendesse improvvisamente ed illuminasse volti ed episodi del proprio vissuto. E’ la magìa del ricordo che prende consistenza e fa rivivere – quasi sempre nostalgicamente – pagine di vita che il tempo ha ingiallito e che rischiano di essere completamente cancellate dalla memoria. Quest’anno, con l’approssimarsi della ricorrenza, sullo schermo della memoria ho rivisto le immagini di quando, bambino, aspettavo che arrivasse la notte precedente l’Epifania nutrendo in cuore la segreta speranza di riuscire a vedere quando la simpatica vecchietta, scendendo dal tetto, arrivava fin nella mia stanza per portarmi i suoi doni.
Si vivevano, allora, le ristrettezze dell’immediato dopoguerra e i doni della Befana erano assai modesti. Pur nella loro estrema semplicità quei regalini portavano gioia e felicità in chi li riceveva. Già, perché, non in tutte le famiglie c’era la possibilità di mettere quattro fichi secchi, due caramelle ed un po’ di torrone nella calza che i numerosi figli, fiduciosi, appendevano al loro letto. Io ero uno dei pochi fortunati e gioivo quando, infilando febbrilmente la mano nella calza, tiravo fuori qualche cioccolatino insieme ad un pezzetto di torrone. Ghiottonerie che mio padre si era procurate per tempo e che aveva messo da parte per non mandare deluse le attese dei suoi numerosi figli.
Quanti ragazzi ieri sera, hanno diligentemente appeso la calza al caminetto e stamattina appena svegli sono saltati dal letto spinti dall’incontenibile ansia di scoprire cosa la Befana gli avesse messo dentro? La domanda è sicuramente superflua dal momento che i tempi sono mutati e che si contano sulle dita di una mano i ragazzi che ancora credono alla Befana. Oggi i ragazzi – grazie a Dio – oltre ad avere tutto sono più perspicaci, per cui anche se indirizzano la loro letterina a Babbo Natale o alla vecchia e cara Befana che continua a viaggiare a cavallo di una scopa di saggina portando sulle spalle il sacco dei regali, in sostanza questi li scelgono loro, e con notevole anticipo, esprimendo le loro preferenze ai genitori.
Una volta ci contentavamo dei fichi secchi e di una “poglia” di torrone (beato chi la riceveva!). Adesso i ragazzi chiedono l’ultimo modello di ipad o di tablet. Perché, fortunatamente oggi dispongono di tutto. Si, hanno tutto ma non conoscono la poesia dell’attesa. Mancano della parte più bella dell’infanzia: quella caratterizzata dall’incanto della sorpresa conseguente al dono lungamente vagheggiato e finalmente ricevuto. I doni della Befana hanno sempre eccitato la fantasia dei più piccoli e dato estro alla poesia che accompagna l’infanzia, ma non sempre si concretizzavano. Rimanevano nel mondo dei desideri.
Quest’anno, pensando ai tempi passati, mi sono ricordato della “Befana del bimbo povero” che negli anni sessanta e per diversi anni ho organizzato in seno all’Amministrazione comunale della quale facevo parte come assessore alle pubbliche relazioni e alle attività sociali.
E’ estremamente antipatico parlare di se stesso. Lo faccio solo perché intendo ricordare ciò che è stato fatto per strappare un sorriso ad alcuni bambini che, diversamente, non avrebbero avuto la possibilità di assaporare la gioia di trascorrere in modo allegro la ricorrenza della Befana.
All’epoca la crisi economica, la povertà, caratterizzava negativamente la stragrande maggioranza delle famiglie galatresi. Della Befana i ragazzi sentivano parlare solo a scuola perché nei loro libri di lettura immancabilmente una paginetta era dedicata alla vecchia dal naso adunco e dalla pelle disseminata da ragnatele di rughe, che puntualmente portava i suoi regali ai ragazzi buoni. Solo ai buoni, senza distinzione di casta. E ai poveri? Ai bambini buoni che vivevano all’interno di una famiglia povera non era giusto che qualcuno provvedesse? Non tanto per la consistenza del regalo quanto per testimoniare e sottolineare il valore simbolico del dono. Per testimoniare una gratitudine e per non far pesare sul bambino uno stato sociale di estrema povertà del quale non solo non aveva colpe ma che non era in grado di percepire la causa e la sua reale rilevanza.
Da queste considerazioni nacque in me l’idea della “Befana del bimbo povero” che fu subito approvata ed incoraggiata dal sindaco Bruno Marazzita.
Per trovare i regali per i numerosi bambini poveri del paese, chiesi il contributo a moltissime azienda italiana di dolciumi, di giocattoli e di abbigliamento. Anche se i tempi tecnici erano quanto mai limitati, quasi tutte le industrie interpellate risposero all’appello. Ricordo i pacchi-dono arrivati dalla Motta, dalla Alemagna, dalla Sapori, dalla Rivarossi, dalla Perugina e da tantissime altre aziende di importanza nazionale. Il pomeriggio del 5 gennaio l’ufficio del Sindaco per diverse ore è diventato il nostro laboratorio. Abbiamo proceduto alla apertura dei pacchi pervenuti dalle varie aziende ed alla catalogazione dei vari prodotti che ci erano stati omaggiati. Nel frattempo la signora Wanda procedeva alla individuazione dei bambini a cui dovevamo fare il regalo. Erano tanti… tantissimi: figli di madri vedove, di detenuti, di genitori poveri e disoccupati, di genitori ammalati…. Mamma mia, quanta povertà!
A sera i vari pacchetti (muniti dei nomi dei bambini beneficiari) sono stati presi in consegna dal vigile urbano Nino Manduci e dal netturbino Peppe Sgrizzi, perché l’indomani mattina, subito dopo l’alba, li consegnasse ai loro piccoli destinatari.
Quell’anno – era il 6 gennaio del 1965, esattamente cinquant’anni addietro - a Galatro la vecchia befana ha abbandonato la scopa di saggina a cavallo della quale ha sempre viaggiato nel cielo e ha circolato per le vie di Galatro a bordo del furgone-Lambretta quotidianamente utilizzato per la raccolta e trasporto della spazzatura. La vecchia ossuta donna dei regali ha abbandonato anche la sua tradizionale sembianza per assumere quella del buon Peppe Sgrizzi che, accompagnato dal vigile Manduci, per conto dell’Amministrazione comunale ha provveduto a portare a casa dei “bimbi poveri” i pacchi-regalo precedentemente confezionati.
Per alcuni anni quell’esperienza umanitaria è continuata; per i bimbi poveri del paese c’è stato lo speciale pacco-dono della Befana e Peppe Sgrizzi, con la consapevolezza e l’esultanza di chi sa di compiere un gesto capace di regalare un sorriso a quanti vivevano nella più nera indigenza, si è sempre offerto di consegnare quei regali, all’alba ed al domicilio dei beneficiari.


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(20.2.15) DUE INTERVENTI (Don Gildo Albanese) - Con vivo compiacimento ho letto la notizia del conferimento della Medaglia d’oro al compianto dott. Ocello. Lo ricordo per la sua professione medica svolta al servizio della popolazione di Galatro con competenza, passione e amore. Lo ricordo in modo particolare per come accoglieva i pazienti, sempre col sorriso in bocca, mettendoli subito a loro agio e facendo sì che la malattia non pesasse su di loro, dando serenità e speranza, e per il suo quotidiano pellegrinaggio pomeridiano per andare a visitare i pazienti che ne avevano bisogno nelle loro abitazioni.
Posso testimoniare che ha esercitato l’arte medica a servizio del prossimo facendo valere non solo la sua altissima professionalità ma soprattutto vivendola come missione, veramente è stato un autentico missionario per Galatro e punto di riferimento professionale per i medici della Piana da additare a tutti.
Galatro deve essere orgoglioso di questo suo figlio e ne sono certo provvederà in maniera adeguata per onorarlo perché la sua memoria non venga mai meno, ma sia additato alle future generazioni. Perché non vi fate promotori di un convegno per presentare la figura del Dott. Ocello e per intitolargli una via?
Penso che bisogna uscire definitivamente dall’ideologismo che impedisce di vedere con obiettività e realismo l’operato di quelle persone che hanno dedicato la loro vita per il bene della comunità e onorarli adeguatamente, come meritano, tra queste un’altra persona che a mio parere deve essere ricordata per il bene che ha fatto a tutti, senza guardare l’appartenenza, è il Sindaco Bruno Marazzita.
Vorrei terminare questa mia riflessione spontanea ricordando che un popolo che non ha memoria non ha nemmeno futuro! Vi saluto tutti cordialmente.

* * *

Caro Michele,
finalmente ho potuto leggere il tuo articolo sula "festa dei tre giri” che condivido "in toto” anche perchè lo hai immesso in una storia di vita che il carissimo Umberto Di Stilo ha saputo sempre narrare facendo innamorare il lettore e facendogli quasi toccare per mano quello che lui descrive; a proposito desidero complimentarmi pubblicamente con Umberto per l’ultimo suo lavoro sulla storia della Parrocchia di Maria SS. della Montagna nella quale mi ritrovo pienamente per il suo modo obiettivo di narrare i fatti.
Ritornando al tuo articolo penso che l’identità cristiana è fatta anche di semplici gesti popolari che per il credente sono segno di un qualcosa o meglio di un Qualcuno che vive fortemente dentro il suo cuore che per comunicarlo si serve di segni popolari che formano la cultura di una comunità. Quando questi gesti sono radicati nella vita e nella storia sono di per se stessi culto che apre al Soprannaturale; certamente non vanno abbandonati a se stessi ma debbono essere continuamente rigenerati dalla Parola perché mantengano sempre lavoro vitalità.
Oggi in un contesto di forte secolarizzazione e relativismo umano si ha bisogno di una presenza di cultura popolare che sgorga dalla fede perché si abbia il coraggio di testimoniarla di fronte ad un mondo che in nome di uno sfegatato laicismo che vorrebbe presentate come laicità, vorrebbe considerare la fede come “spazzatura”.
Certamente l’essere cristiani non premia anzi, si ammazza solo perché si è cristiani. La testimonianza di questi giorni è molto forte e giustamente il papa ha sottolineato come il martirio di quei giovani cristiani in Libia è segno della loro fede in Gesù.
Mi auguro si possa di nuovo e quanto prima aprire la strada per una ripresa delle Processioni nelle nostre Parrocchie non tanto perché sono “tradizioni” ma perché esternano valori spirituali che elevano l’uomo nella sua dignità perché non di solo pane vive l’uomo e non ha bisogno solo di benessere ma di dignità.
A noi cristiani però spetta un compito ben preciso di cui ci dobbiamo assumere tutta la responsabilità: fare in modo che le nostre processioni non siano inquinate ma siamo il segno della bella fede e della semplicità di coloro che con amore portano sulle spalle le immagini sacre. Con stima.

Nella foto: Don Gildo Albanese.

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(7.3.15) DIRITTO ALLO STUDIO E INTEGRAZIONE SCOLASTICA DEI DIVERSABILI (Federica Crea) - Sostegno Scolastico: la Cassazione civile a sezioni unite stabilisce l’obbligo per la scuola ad osservare il Piano Educativo Individualizzato (P.E.I.).
Il diritto allo studio delle persone diversamente abili nel nostro paese è garantito in primis dalla Costituzione. Basti pensare che ai sensi degli artt. 2, 3 e 34 “La scuola è aperta a tutti” e l’art. 38, terzo comma, recita “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione”. In particolare, riguardo agli studenti diversamente abili, la L. 517/77 prevede la figura dell’insegnante di sostegno, cioè un docente fornito di competenza specifica, specializzato e assegnato alla classe in cui è presente l’alunno con disabilità con il compito di attuare “forme di integrazione” e “realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni”.
La L. 104/92 definita Legge Quadro sui Diritti delle Persone Disabili, prevede una normativa inerente il diritto all’istruzione dei portatori di handicap proponendosi come finalità l’integrazione dei diversamente abili nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado attraverso lo sviluppo delle potenzialità della persona nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nelle socializzazioni.
Il sistema di inclusione scolastica dell’alunno con situazione di disabilità coinvolge, oltre alla famiglia e alla scuola, a livello territoriale anche gli enti locali e il Servizio Sanitario Nazionale, che concorrono con lo Stato nella predisposizione di adeguate misure di sostegno. Gli strumenti necessari all’effettiva integrazione degli alunni con disabilità sono la Diagnosi Funzionale, il Profilo dinamico-funzionale (che indica le difficoltà di apprendimento,le possibilità di recupero e le capacità possedute da rafforzare) a cui fa seguito la predisposizione del Piano Educativo Individualizzato (P.E.I) elaborato dal dirigente scolastico, dai docenti interessati, dai genitori e dal personale sanitario, che individua il percorso formativo-didattico ed educativo dell’alunno con disabilità con lo scopo di riscontrare le sue potenzialità e sulla base di queste costruire appositi programmi di autonomia, di socializzazione e di apprendimento. Esso viene redatto entro il 30 ottobre di ogni anno scolastico, dopo un periodo di osservazione di circa un mese.
Nel P.E.I. viene previsto il numero di ore per il sostegno scolastico ritenuto necessario per l’alunno con disabilità grave ex art. 3, comma 3, della L. 104/92. Sotto questo profilo sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sent. 25011/2014. A seguito dei ricorsi presentati da un istituto scolastico, che non aveva concesso 25 ore settimanali di sostegno ad una alunna con disabilità - bensì prima 6 poi 12 -, e dal MIUR, condannato a risarcire i genitori dalla Corte di appello di Trieste, la Corte ha stabilito: “il P.E.I. per il sostegno scolastico dell’alunno in situazione di handicap, una volta elaborato con il concorso degli insegnanti e degli operatori della sanità pubblica, comporta l’obbligo dell’amministrazione scolastica - priva di potere discrezionale a rimodulare la misura del supporto integrativo in ragione della scarsità delle risorse disponibili per il servizio - di apprestare gli interventi corrispondenti alle esigenze rilevate”.
Nella fattispecie la Corte constata che dalla normativa di riferimento si deduce “l’assoluta centralità del Piano educativo individualizzato, inteso come strumento rivolto a consentire l’elaborazione di una scelta condivisa, frutto anche del confronto tra genitori dell’alunno disabile e amministrazione; ed inoltre, l’immediato e doveroso collegamento, in presenza di specifiche tipologie di handicap, tra le necessità prospettate nel piano ed il momento dell’assegnazione dell’insegnante di sostegno” per cui viene prospettata una colpa all’amministrazione inadempiente rispetto a quanto stabilito dal P.E.I., la cui negazione delle ore di sostegno in esso previste configura nei confronti dell’alunno una lesione del diritto del disabile ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico e una forma di discriminazione indiretta, ipotesi prevista dall’art. 2 L 67/2006.
Sulla base di queste considerazioni la Suprema Corte applica l’art. 3 della L. 67/2006, in cui si individua il giudice ordinario quale competente a decidere in fatto di comportamenti discriminatori. Il ricorso promosso dall’amministrazione scolastica è stato, pertanto, rigettato. La Suprema Corte, nell’esercizio della propria funzione nomofilattica, cita non solo fonti nazionali ma anche europee ed internazionali interpretando la problematica a livello sistematico e ribadendo “la natura fondamentale del diritto all’istruzione del disabile grave”.
Chi scrive esprime la propria preoccupazione per il bigottismo in seno alle istituzioni che hanno l’obbligo giuridico, nonché il dovere umano e morale, di tutelare i soggetti più svantaggiati della società. Queste discriminazioni poste in essere in uno Stato costituzionale qual è il nostro, sono particolarmente pericolose. Oggi sussistono, infatti, tante barriere non solo architettoniche ma soprattutto di tipo culturale, dovute alla carenza di informazione e manifesta incompetenza. È tuttavia apprezzabile l’iniziativa dell’A.D.D.A. (Associazione per la Difesa dei Diversamente Abili), con sede a Galatro, impegnata nel promuovere la conoscenza, presso i potenziali beneficiari, delle opportunità offerte dalle vigenti normative. Nella specie, urge considerare anche il fatto che, come sostiene l’Avv. Nocera, Vicepresidente del F.I.S.H. (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), “soprattutto nello Stato costituzionale l’ordinamento vive non solo di norme, ma anche di apparati finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali” tesi ad evitare un fallimento culturale affinché il diritto allo studio e all’integrazione scolastica dei diversamente abili sia vero e concreto e non ipocrita o solo accennato nelle norme.

Articolo pubblicato nel 2° numero - Marzo 2015 - nella “Rubrica Iurisprudentia” di “Diritto ventuno", periodico di informazione giuridica a distribuzione gratuita dell’Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria.

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Ecco la locandina del convegno organizzato per l'otto marzo dai Comuni della Valle del Torbido:




www.associazioneadda.it


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(8.3.15) UN GRAZIE ALLA REDAZIONE E A DON GILDO (Fortunato Lucia) - Con la presente desidero porgere un sentito ringraziamento a tutta la Redazione di Galatro Terme News per aver pubblicato l’articolo relativo alla concessione della medaglia d’onore alla memoria di mio zio il dott. Michele Ocello, ed averne tracciata meticolosamente la Sua biografia.
Approfittando dello spazio concessomi voglio esprimere attraverso il vostro sito tutta la gratitudine e la riconoscenza nei confronti di don Gildo Albanese, il quale avendo appreso la notizia del conferimento dell’onorificenza di cui sopra, ha manifestato con bellissime e sentite parole tutta la sua ammirazione per il giusto riconoscimento a un uomo e ad un professionista che ha avuto modo di apprezzare durante la sua missione sacerdotale al servizio della nostra comunità.
Don Gildo è uno dei posteri che con viva testimonianza vuole continuare a far conoscere alle nuove generazioni la figura del dott. Ocello, additandolo ad esempio da imitare. Le sue sincere parole mi rendono orgoglioso di questo zio e al contempo sono uno sprone a seguire il modello umano e ad emularlo professionalmente.
Sono pienamente d’accordo con don Gildo quando afferma che un popolo che non ha memoria non ha nemmeno futuro.
Beata Galatro per i natali che hai dato ai tanti figli illustri che hanno reso nobile ed invidiabile il tuo suolo ai forestieri: discepoli di Ippocrate, cultori del diritto, professionisti della cultura, ministri della chiesa, uomini d’arma, scrittori, poeti, sapienti e abili artigiani.
Parafrasando alcuni versi del Foscolo, il ricordo di questi uomini deve incitare l’animo dei forti a compiere egregie cose, non l’animo dei mediocri ai quali nulla dice.
Bisogna quindi abbandonare ogni ideologismo che impedisce di apprezzare con obiettività e realismo l’operato di tutte quelle persone che hanno dedicato la loro vita al bene e alla crescita della nostra Comunità ed onorarli per come meritano.

Galatro, 25 febbraio 2015
Grazie
Dott. Fortunato Lucia

Nella foto: il dr. Fortunato Lucia.

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(19.3.15) LA FAVOLA... VERA DEI SOLLAZZO IN ARGENTINA (Nicola Sollazzo) - Ho letto qualcosa che ha scritto mio cugino l’avv. Michele Scozzarra a proposito di una diga costruita dai miei zii in Argentina. A completezza di quanto scritto voglio raccontare una bellissima favola… vera.
Salvatore ed Antonio Sollazzo, fratelli di mio padre e di Luigi nonno di Michele, di Nicola, di Carmelo, di Giuseppina, di Maria Stella, partirono all'età rispettivamente di 14 e 13 anni emigranti in Argentina, aiutati dal loro zio Antonino Sollazzo ed arrivarono in quella terra lontana, alla fine del mondo, come dice Papa Francesco, nell’anno 1910.
Iniziarono a lavorare come manovali in piccole impresucce locali ed andarono avanti mangiando pane e sacrifici.
Nel 1918, dimostrando intelligenza, capacità e volontà i due fratelli fondarono l’impresa SOLLAZZO Hnos (fratelli Sollazzo) e aiutati dalla moglie incominciarono a realizzare importanti opere pubbliche nella provincia di Tucuman e di tutto il Nord Argentino.
Nel 1939 l’Impresa Sollazzo appalta i lavori della diga La Vina nella provincia di Cordova iniziando così una nuova attività, specializzandosi nel campo delle grandi opere idrauliche ed idroelettriche e contribuendo al progresso, allo sviluppo ed al benessere della nazione che li ospitava.
Furono costruite così le grande dighe di La Vina, Escaba, Los Molinos, Valle Grande, Batiurana, La Quintana, Bengjamin Reolin, El Carial, Ityuro e le centrali idroelettriche con le acque delle stesse dighe.
Una delle più importanti opere costruite fu la Centrale Idroelettrica del Chocon quando si associò con l’impresa italiana Impregilo formando la “Impresa di costruzioni impregilo-Sollazzo” e sotto questa denominazione furono realizzate varie grandi dighe alcune anche nel Medio Oriente.
La SOLLAZZO Hnos ha inoltre costruito una moltitudine di opere pubbliche quali scuole, caserme, tribunali, ospedali, teatri, cinema, fabbriche, città ospedaliere tutte realizzate con grande serietà e competenza e con senso di responsabilità che caratterizzava quell’impresa.
Alla loro morte fu sempre il Ministro dell’Economia Argentino che fece l’elogio funebre ricordando quanto quegli uomini, arrivati ragazzi, con il loro lavoro avevano onorato l’Italia, la Calabria ed il loro piccolo paese dove erano nati: Galatro.
Due vite, due grandi uomini, due grandi galatresi.

Nelle foto: una diga costruita dalla SOLLAZZO Hnos nel 1974 in Argentina, a Loma de la Lata, provincia di Neuquén.


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(20.3.15) SCUOLA: LIMITI E DEMAGOGIA DELLA RIFORMA (Angelo Cannatà) - C’era una volta un Paese dove l’insegnante faceva lezione, dialogava, valutava. Latino, greco, filosofia, matematica, fisica… si studiavano con passione e sudore: “Niente si conquista senz’amore e fatica”, ripeteva il mio Prof. Era la buona scuola del passato. Formava persone. E, naturalmente, professionisti. I migliori medici, ingegneri, fisici, giuristi, filosofi, giornalisti, che occupano posizioni di rilievo nell’Italia di oggi, hanno fatto il liceo nella vecchia scuola di una volta. Insegnare. Una missione, prima che una professione.
Sono passati trent’anni: guidano reparti di cardiologia o laboratori d’analisi, sono avvocati e matematici e ricercatori, gli studenti di allora, ma ricordano gli anni del liceo: la severità e la comprensione (indispensabili per una valutazione non idiotamente numerica); la disponibilità all’ascolto; il silenzio, quando a parlare erano i classici, mediati dalla voce dell’insegnante. Ricordo il timbro, l’intercalare, le pause, puntuali, precise del mio professore d’italiano. Ancora oggi, lontanissima vicinanza, rammento quella voce. Una presenza che ha avuto un ruolo nella mia vita.
Quella scuola, oggi, non c’è più. Decine di ministri della pubblica istruzione l’hanno distrutta. Dominano corsi e progetti: corsi di aggiornamento sulla sicurezza (senza mettere in sicurezza gli istituti); corsi sull’ambiente; la legalità; la violenza; la droga; e naturalmente progetti: sulla cittadinanza; l’altruismo; l’educazione stradale; il clima… Mi fermo. L’elenco è infinito. La scuola ha cambiato verso. Ma il cambiamento non è di per sé progresso. Lunghe riunioni pomeridiane, dove si produce carta e si discute sul nulla, sono la negazione della buona scuola: ore ed ore per programmare lezioni su slide con schemi e riassuntini annessi; filmati; valutazioni su griglie cosiddette “oggettive”; interrogazioni scritte, “con risposta vero/falso” anche in filosofia come se l’elogio socratico del dialogo fosse passato in vano. Non va bene. La scuola ha cambiato verso, ma nella direzione sbagliata.
La tecnologia domina e, continuamente, chiede d’essere rinnovata. E’ un business. Adesso sembra che le lavagne multimediali siano obsolete: “sono strumenti costosi superati dai proiettori di ultima generazione”. S’insegue l’ultima moda e l’ultima innovazione didattica, dimenticando che la lezione è, soprattutto, parola, voce, empatia: un insegnante che trasmette un’emozione, non solo nozioni. Altrimenti, meglio sostituire il docente col computer. Google fornisce informazioni più precise di quelle di qualsiasi Prof. Se si dimentica che insegnare è, anzitutto, educare a porsi delle domande la scuola è finita.
Insomma. Più ore d’informatica: giusto. Lasciando, però, alla letteratura italiana, latina, greca… alla filosofia, alla storia… il compito di trasmettere un sapere fatto di concetti, idee, visione; carico di senso; veicolato da una passione. Un sapere critico. Capace di vedere, per esempio, la demagogia di Renzi, che parla di migliorare la scuola pubblica, mentre sposta denaro verso quella privata.
Renzi è un demagogo. E un pericolo. Mette gli insegnanti gli uni contro gli altri: ha stabilito a-priori che solo il 5 % dei docenti di ogni scuola è meritevole di un premio, un incentivo economico. Com’è arrivato a “questa” soglia? Con quali criteri? Soprattutto: quali docenti verranno premiati? Deciderà il preside. Sembra già di vederli i portaborse, i leccaculo, i maratoneti dei “progetti-a-pagamento-sull’acqua-calda”, quelli che hanno sempre le carte a posto - le carte -, il registro in ordine, ma, poveretti, appena aprono bocca per fare lezione non sanno di cosa parlano. E non li ascolta nessuno. Questi, fatte le necessarie eccezioni, verranno incentivati.
Il disegno di legge concede troppo potere ai presidi. Ai dirigenti manager. Secondo uno schema aziendalistico: efficienza, profitto. Dimenticando che la scuola non è – non deve essere – una fabbrica; che gli alunni non sono una merce; che i risultati maturano nei tempi lunghi e quanti incespicano all’inizio, danno buoni risultati, spesso, alla fine del processo formativo. “Più inglese, economia, arte, e 500 euro per l’aggiornamento culturale”, dice Renzi. D’accordo. Ma non basta. Troppe risorse sono indirizzate verso le scuole private: è un privilegio lo sconto fiscale “fino a 400 euro” per chi iscrive i figli alle scuole paritarie, si calpesta volutamente la Costituzione. Di più: “l’autonomia scolastica” consentirà di raccogliere fondi e donazioni: lascia troppo spazio agli interventi esterni nella scuola pubblica. Il rischio è che il “sostegno economico” influenzi, orienti, condizioni. Non distinguere (nettamente) le competenze dello Stato da quelle dei privati è un errore, trasforma la scuola in impresa, in fabbrica. La snatura.
C’era una volta un Paese dove il docente insegnava e dialogava e la scuola era pubblica e le finalità, gli obiettivi, li decideva lo Stato, nell’interesse di tutti, non del mercato. Quella scuola non c’è più. Ha cambiato verso, ed anche anima. Riusciremo a formare (ancora) cittadini dotati di spirito critico? Ha (ancora) questo obiettivo la nostra scuola? “Gli studi devono essere funzionali all’immissione nel mercato del lavoro.” Funzionalità e mercato. Il Dio denaro anzitutto. Non va bene. Se non educa l’istruzione pubblica alla critica dell’esistente, quale altra agenzia educativa lo farà?
Renzi non sta cambiando verso, alla scuola. La indirizza verso lidi cari alla Confindustria e alla borghesia imprenditrice di riferimento.

Articolo apparso su Il Quotidiano della Calabria il 15 marzo 2015 e su Micromega.net il 16 marzo 2015

Visualizza su Micromega.net

Nella foto: manifestazione di insegnanti contro la riforma Renzi.

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(23.3.15) GUIDA PER LE PROCESSIONI RELIGIOSE: TANTO RUMORE PER NULLA (Michele Scozzarra) - Ho letto la “Guida per le celebrazioni, i pii esercizi e le processioni” distribuita dal nostro Vescovo per la Diocesi: una “guida” per i riti della settimana santa che si presenta come una indicazione capillare del significato terminologico e liturgico di ogni “momento”, esattamente con un contenuto già presente nei documenti dei vescovi che si sono succeduti alla guida della nostra Diocesi. Cosa è cambiato adesso, dopo il “forte gesto di cautela e riflessione”… non l’ho percepito.
Per quanto riguarda Galatro, i riti della settimana santa (soprattutto la via crucis) sono stati sempre vissuti in maniera per niente “folkloristica” ricercando sempre l’essenziale. Qualche “ritocco” che si è voluto aggiungere da poco, penso che sia l’unico “richiamo” che ci può riguardare da vicino: “E’ da evitare l’inserimento della processione del Cristo morto nell’ambito della solenne Azione Liturgica del venerdì santo, perché ciò costituirebbe un distorto ibridismo celebrativo”.
Per il resto, a voler ritornare con la mente a quanto è successo nei mesi scorsi, forse è il caso di concludere e con Shakespeare ripetere… “tanto rumore per nulla”!





Nelle foto: due momenti della Via Crucis 2014 a Galatro.


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(28.3.15) CI SEDEMMO DALLA PARTE DEL TORTO (Pasquale Cannatà) - Su un quotidiano toscano del 22/3 u.s. si legge:
«Le Sentinelle in piedi sono tornate a vegliare a Firenze, nella centrale piazza Strozzi, in difesa della famiglia naturale e della libertà di opinione. Una manifestazione che ha indotto alcune decine di giovani a organizzare una contro manifestazione, nell'attigua via Strozzi-via Pescioni, opponendo al silenzio delle Sentinelle, ferme in piedi, la musica e gli slogan contro l'omofobia e a favore dei diritti dei gay. Striscioni e cartelli colorati con scritte tipo "Ricordate: Gesù aveva due padri". A presidiare le forze dell'ordine: nessun problema di ordine pubblico».
Dispiace dover constatare ancora una volta che alcuni così detti ‘democratici’ e strenui difensori della libertà di espressione delle proprie idee diventano intolleranti verso quelli che esprimono opinioni in contrasto con il proprio credo, così che chi la pensa diversamente debba essere protetto per poter esprimere il suo pensiero: il culmine di questa violenza ideologica si era raggiunto quando è stato impedito a Benedetto XVI di parlare all’università “La Sapienza“ di Roma, ma la discriminazione verso chi usa altri parametri per misurare la realtà delle cose non è mai cessata in tutti questi anni.
Qualche settimana fa, per esempio, lo stilista Dolce ha spiegato in una intervista che «non l’abbiamo inventata mica noi la famiglia. L’ha resa icona la Sacra famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a questi bambini chi è la madre».
Come reazione a queste dichiarazioni è scattata subito da parte del cantante Elton John e di altri dell’associazione Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali) la proposta di boicottare i prodotti degli stilisti D&G: interrogato a questo proposito, il suo collega e compagno (i due sono dichiaratamente gay) Stefano Gabbana ha risposto: «Non me l’aspettavo. Non me l’aspettavo da una persona che ritenevo — sottolineo: ritenevo — intelligente come Elton John. Ma come? Predichi comprensione, predichi tolleranza, e poi aggredisci? Tutto perché qualcun altro la pensa in modo diverso da te? E questo sarebbe un modo democratico di ragionare? Illuminato? È un ignorante, nel senso che ignora che esistono pensieri diversi dal suo ugualmente degni di rispetto».
Giulio Meotti ha rincarato la dose, constatando che quegli ipocriti perbenisti dell’Lgbt demonizzano D&G ma restano in silenzio sui gay uccisi dall’Is (islamic state), cioè dai terroristi del sedicente califfato islamico: sfido io, quelli non porgono l’altra guancia, ma tagliano le gole!
Le Sentinelle in piedi stanno cercando di lottare contro la teoria di genere, che è una costruzione artificiale, senza nessuna base scientifica o biologica, che ridurrebbe l’uomo ad una sorta di essere vivente asessuato, in grado di scegliere a quale genere appartenere: da che mondo è mondo la natura è sempre stata la sola a stabilire chi è maschio e chi è femmina, anche nel mondo vegetale. A volte può succedere che per uno squilibrio ormonale un essere vivente abbia in se caratteristiche e tendenza sessuali diverse da quelle che dovrebbero essere secondo il genere visibile esternamente (e per l’uomo questo squilibrio a volte è di tipo culturale più che ormonale): non bisogna farne un motivo di discriminazione e/o di condanna, ma non bisogna neanche portare questi casi come esempi da privilegiare. Camillo Langone ha affermato qualche tempo fa: “Più che l’omosessualità a me fa paura l’omosessualismo, l’ideologia che considera l’omosessualità cosa buona e giusta, anzi migliore dell’eterosessualità, da promuovere e sostenere con ogni mezzo, culturale, politico, economico, sottraendo risorse ai padri e alle madri colpevoli di aver messo al mondo dei figli”.
George Orwell ha scritto: «Dire la verità è un atto di coraggio. E noi dobbiamo avere questo coraggio». Le Sentinelle stanno dimostrando di avere questo coraggio, organizzando manifestazioni in ogni città d’Italia.
Al sit-in tenutosi a Padova all’inizio del mese ho partecipato anch’io, le forze dell’ordine hanno presidiato la zona dove si teneva la manifestazione e tutto si è svolto in maniera tranquilla. Tra le altre cose lette dal coordinatore mi è rimasta impressa questa citazione di Joseph De Maistre: «Le bugie sono come le monete false: coniate da qualche malvivente sono poi spese da persone oneste che perpetuano il crimine senza saperlo. Così la bugia, soprattutto se detta da persona autorevole o di successo, corre in tutte le direzioni e lentamente si trasforma in verità se non ci sottomettiamo alla fatica della verifica e della critica».
Purtroppo oggi molti personaggi noti del mondo dello spettacolo, della cultura, dello sport e altro ancora sostengono false teorie come quella del ‘gender’, e si citano a vicenda per rafforzare le loro idee, e citano i pensatori dei secoli scorsi per averne maggiore autorità, dando così alle persone semplici l’impressione che abbiano ragione per il solo fatto di essere in tanti a pensarla a quel modo.
Ricordiamoci dunque delle parole di De Maistre e di Orwell, e parafrasando il celebre aforisma di Bertolt Brecht “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati" noi poveri ignoranti non ancora toccati dai lumi della ragione e plagiati da quattro preti disponiamoci a lasciare volentieri i posti giusti agli intellettuali che sanno pensare, ed andiamo pure oltre affermando che siamo disposti a stare anche in piedi dalla parte che il pensiero dominante giudica essere quella del torto, purchè ci sia consentito di esprimere liberamente la nostra opinione.
Voltaire, uno dei padri dell’illuminismo che voleva cancellare da questa terra le religioni, ritenendo che fossero “l’oppio dei popoli” diceva "Non sono d'accordo con te, ma sono disposto a morire per difendere il tuo diritto di pensarla come vuoi": quelli che si dicono suoi discepoli siedono dalla parte della ragione, ma hanno tradito il suo insegnamento e sono diventati intolleranti.
Le “Sentinelle in piedi” stanno dalla parte che gli illuminati considerano del torto, ma vigilano sulla libertà di tutti!

Nelle foto: in alto Pasquale Cannatà, autore dell'articolo; in basso gli stilisti Dolce & Gabbana e il cantante Elton John.


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(3.4.15) UMBERTO DI STILO: "LA VIA MATRIS NON C'ENTRA NULLA CON LA SETTIMANA SANTA" (Michele Scozzarra) - Il Venerdì Santo esprime per la Chiesa uno dei momenti più forti dell’anno; cioè il desiderio di seguire Gesù, di mettersi nei suoi passi, di dare spazio e significato alla Croce, che in questo giorno si “esalta” come segno di salvezza: “Ti adoriamo o Cristo, e ti benediciamo, perché con la Tua santa Croce hai redento il mondo”.
Tradizione assai radicata della Settimana Santa a Galatro, pur nella sua essenzialità liturgica, è sempre stata la via crucis, alla quale era indissolubilmente legata la visita ai “sepolcri” che, ormai da molti anni, è scomparsa.
Momento forte di partecipazione popolare, dicevo, è sempre stata la via crucis, quest’anno (per la prima volta a Galatro, ma non solo a Galatro) sostituita dalla via matris: abbiamo parlato di questo “cambiamento” con l’amico Umberto di Stilo, proprio per andare al “cuore” della questione e interrogarci come, in una realtà come la nostra, è importante mantenere vive le espressioni religiose e culturali che ci hanno visto crescere nella Chiesa, e hanno segnato, nei secoli, la storia dei nostri piccoli centri.
Dal dialogo con Umberto di Stilo viene fuori una bella testimonianza, dalla quale scaturisce un lavoro culturale sulle nostre origini storiche, che stanno a testimonianza di una “distrazione” che oggi avvolge non solo Galatro (anche nei gesti liturgici più significativi dove, a voler ben vedere, lo scandalo più grande non è solo lo scenario di un rituale “mondano” che ammanta tanti sacri riti!), ma ci porta, sempre più frequentemente, a vivere delle contraddizioni così forti, nelle quali rischiamo di lasciarci sfuggire il contenuto profondo dei gesti che compiamo.
La “sostituzione” della via crucis con la via matris, nei riti della settimana santa a Galatro, ha dato il via all’intervista fatta a Umberto di Stilo.

Ho avuto modo di costatare come, a seguito della pubblicazione, da parte del Vescovo della nostra Diocesi, della “Guida per le celebrazioni, i pii esercizi e le processioni della settimana santa” e, nonostante in essa è chiarito che, “sono permessi le manifestazioni di devozione e di pietà, dove questi erano già esistenti e che a nessuno è concesso di inserire processioni nuove”, in tanti paesi della Diocesi, alla “via crucis” ha sempre rappresentato il centro delle celebrazioni della settimana santa, è stata sostituita la “via matris”. Vogliamo vedere le differenze tra questi due riti?
La differenza sostanziale, cioè quella che si rivela immediatamente, è che le 14 stazioni della “via crucis” sono ridotte a 7 nella “via matris”. La differenza “liturgica”, invece, è che la “via crucis” è il “rivivere” proprio il venerdì santo… cioè il ripercorrere la strada, la via che ha percorso il Cristo per andare al Calvario. Noi, come galatresi, abbiamo una cosa che non ha nessun paese… fisicamente, geograficamente abbiamo il Calvario posto in cima a una collina, abbiamo le viuzze del rione Montebello che equivalgono, più o meno, a quelle che ha percorso Gesù il venerdì santo: tutta salita, tutta fatica (non a caso il percorso è stato chiamato via Monte Calvario), per cui avevamo questa caratteristica unica, soggettiva, diciamo intimamente nostra, galatrese! Chi faceva “la via del Calvario” per partecipare il venerdì santo alla “via crucis” lo faceva con fede, quasi rivivendo lo stesso percorso del Cristo. Io ricordo la gente che piangeva in silenzio durante il percorso. Anche io l’ho fatto per tutta una vita, perché ci si immedesimava veramente nell’essenza della “via crucis”. La “via matris” (che poi la dizione esatta è “via matris dolorosae”) è invece la “via della Madre Addolorata”: sette stazioni (dall’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele, fino alla morte di Gesù in Croce) nelle quali è ricordato il cammino di Maria, nel suo pellegrinaggio di fede al fianco del Figlio.

E’ mai esistito il culto, negli anni passati, verso la Madonna Addolorata a Galatro?
Intanto diciamo che a Galatro, fino al 1783, il culto della Madonna Addolorata anzi, della “Madonna dei sette dolori” c’era ed era anche molto diffuso, al punto che esisteva anche un “altare-cappella o una cappella-altare” nella Chiesa della Trinità, dove venivano celebrate regolarmente le funzioni religiose. Possiamo anche dire che, in parte, il culto era già diffuso alla fine del 1700, dopo la ricostruzione di Galatro, quando era stato chiesto che l’attuale Chiesa della Montagna venisse dedicata alla Madonna dell’Addolorata.

La tradizione della “via matris dolorosae” come è arrivata ai nostri paesi, da dove trae origine?
La via matris è di origine spagnola, così come tutte le tradizioni della settimana santa. E’ una tradizione importata dalla Spagna, solo che lì non la fanno il Venerdì Santo. Venerdì Santo si fanno le processioni, così come le abbiamo fatte sempre a Galatro e come si fanno ancora in tanti paesi della Sicilia, dove i riti della settimana santa sono unici, sono “spagnoleschi”, di origini spagnole. Si fa la via crucis e non la via matris che, in tanti centri è fatta nella settimana precedente la festa dell’Addolorata, (15 settembre) la cosiddetta “settina”, e il venerdì precedente la Domenica delle Palme. La via matris è un rito “accoppiato” al culto verso la Madonna Addolorata, e non ai riti della Settimana Santa.

Quindi la via matris non è una funzione religiosa tipica della settimana santa?
Assolutamente no! Non ha niente a che vedere con la settimana santa. Si fa in molti centri, dove viene mantenuto il culto dell’Addolorata il venerdì precedente la domenica delle palme. Io, che son l’ultimo che può parlare, non riesco a vedere il nesso logico tra il venerdì santo e la via matris, cioè tra la “via crucis” e la “via matris”.

A memoria vostra ricordate se c’è stata mai nella tradizione popolare religiosa galatrese una via matris?
No, no, per Galatro è completamente nuova. Io non riesco a capire se questa decisione è stata presa dal Consiglio Pastorale Parrocchiale per accondiscendere ad una volontà del Vescovo… anche se il Vescovo non l’ha imposta, in Vescovo nella Guida per le processioni “suggerisce” la via matris… ma dopo aver parlato della “via crucis”, in alternativa, se non si vuole fare la via crucis, si può fare la via matris. Ma io torno a ripetere non vedo il nesso logico tra la via matris ed il venerdì santo.

Nelle realtà ecclesiali a noi vicine vi risulta qualche notizia di qualche paese che, negli anni, ha inserito nei riti della settimana santa la via matris?
La via matris non esiste nella tradizione religiosa della Piana di Gioia Tauro, così come non esiste nella tradizione liturgica del Venerdì Santo… Se qualcuno mi indica dove è stata fatta, sarei felice di prenderne atto. E da quello che so in tanti paesi la Tradizione continua come sempre, certamente. Cito Laureana: a Laureana si faceva la “caduta” e la fanno ancora; a Giffone si rappresentava la via crucis e lo continuano a fare; lo stesso a San Giorgio Morgeto, mentre a Polistena mi risulta che fanno la via crucis di mattina.

E’ possibile che sia stata scelta la via matris e non la via crucis per una questione di tempi, per mantenere la processione nelle due ore stabilite dal Vescovo?
In effetti, l’unica cosa che potrebbe giustificare questa scelta è che la via matris avendo solamente 7 stazioni dura sicuramente meno della via crucis che ne ha 14. E quindi bisogna obbedire a quanto il vescovo ha “suggerito” (o ha imposto!, non ho capito se è una imposizione o un suggerimento) che le processioni non abbiano una durata superiore alle due ore. Può darsi che il nostro Parroco e il Consiglio pastorale parrocchiale (del quale io faccio parte, ma non ero presente quando si è discusso della via matris) abbiano deciso per la via matris nella speranza di contenere la processione in due ore. Però io questa scelta non la condivido per niente.

Ma, in questo modo, si sta dando il colpo di grazia ad una tradizione secolare del nostro paese?
Certamente. La Tradizione non esiste più… sta scomparendo tutto. A Galatro si faceva l’Affruntata e, piano piano, l’hanno cancellata. Io ricordo l’Affruntata nella nostra piazza cittadina. E chiedo a te se sai chi la organizzava? Non lo sai, eppure lo dovresti sapere? Ebbene, ti dico che uno dei maggiori protagonisti di questa Affruntata era mastro Salvatore Scozzarra, tuo padre. E forse partecipava anche tuo nonno. Mentre chi preparava il tutto era mastro Micuccio Albanese, che curava tutti i particolari in maniera impeccabile. Ma ormai è solo il ricordo di un tempo andato! Magari ne parleremo un’altra volta!


Il video con le foto di Diana Manduci (via crucis 2012)

Nelle foto, dall'alto: La statua dell'Addolorata durante una via crucis a Galatro; il Crocifisso; una via crucis di tanti anni fa a Galatro.

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