Niente vittimismi, è solo la realtà
di Angelo Cannatà
La casa editrice Rubbettino ha pubblicato Aspra Calabria, di Giorgio Bocca, con prefazione di Eugenio Scalfari. E’ un ottimo testo, intrigante dal punto di vista stilistico e letterario. Non esistono libri morali o immorali - diceva Oscar Wilde -. I libri sono scritti bene o sono scritti male. Lode alla Rubbettino, dunque, per la sua scelta editoriale. Quanto al dibattito suscitato dal libro devo ammetterlo è interessante e pieno di pathos (e propone molteplici punti di vista), ma sfugge, a mio avviso, il dato essenziale: si rimprovera Bocca di descrivere senza risalire alle cause del degrado della Calabria (la storia, il dato sociologico, l’unità d’Italia, la questione meridionale). Anche Scalfari sarebbe responsabile di una scarsa conoscenza della cause storiche e sociologiche che affliggono il Sud. Non è così. Mi dispiace dirlo, ma è troppo superficiale il giudizio di qualche testo che si presenta come profondo.
Si ignora, per fare un esempio, che il fondatore di Repubblica, già nel secondo dopoguerra, ha pubblicato sulla Nuova Antologia un saggio sulla Destra storica e poi, dire a chi ha dialogato più volte con Ralf Dahrendorf, di trascurare la sociologia mi sembra davvero troppo. La verità è un’altra: non si vuol comprendere che Scalfari ama Bocca proprio perchè sa descrivere: Poche parole, l’incipit, e da lettore sei catturato da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo e ti sembra di leggere un romanzo con uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, tutto fantasia, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece... Invece stai leggendo il reportage di un giornalista che si è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro dove questa guerra di mafia non finisce mai.
Scalfari paragona Bocca all’autore di Gomorra. Ieri leggevate Bocca - dice - oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndrangheta e camorra sono sempre lì da un secolo e mezzo. Solo che oggi, da Platì e dagli altri borghi-rifugio, gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kossovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. E’ lo stile di Bocca che cattura Scalfari.
Ecco il punto: sono intellettuali che danno per acquisito il dato storico e d-e-s-c-r-i-v-o-n-o quello che vedono. Forse per questo sono molto amati. Niente storicismi, meridionalismi, vittimismi. Descrivono. E raccontano dure verità: lupi feroci o iene o faine i capi clan? Nell'aspra Calabria raccontata da Bocca queste tipologie zoologiche ci sono tutte, ma qualcosa è cambiato: il commercio della droga e il riciclaggio dei profitti ha trasformato i lupi in iene o serpenti o volpi, frequentano i partiti di governo e le banche, hanno amici potenti a Zurigo, alle Isole Vergini e nel Liechtenstein; i figli li mandano all'Università. La zoologia è cambiata ma i cuori sono sempre di tenebra. E’ la mafia imprenditrice che si lega alla politica. Mafia e politica.
Dai mali della Calabria ai mali d’Italia. Sembrano problemi diversi, ma tutto si tiene: vent’anni fa stava per arrivare un’altra tempesta - ricorda il fondatore di Repubblica - un altro Tsunami sulla democrazia di questo paese. Arrivò appena due anni dopo quella inchiesta di Bocca sulla Calabria dei primi Novanta, sembrò un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell’Utri, Previti, il partito dell’amore, il contratto con gli italiani, le escort. Ma i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca. “Money money money”, un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria “meno male che Silvio c’è”. Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà, che le cose cambieranno. Che altro potremmo fare se non coltivare questa speranza?
Sono stato con Scalfari tre giorni a Lecce, per presentare il suo ultimo libro. Abbiamo parlato di tante cose (è un grande affabulatore), anche della prefazione al testo di Bocca. “Pensi davvero - gli chiedo - che non ci resti altro da fare che coltivare la speranza?”. Mi guarda, se la ride sotto la barba bianca, “Ho capito - dice - a cosa stai pensando. La speranza deve essere accompagnata dall’azione. I calabresi devono trovare l’orgoglio e la forza per un riscatto civile che passi attraverso l’impegno e un’acquisizione di responsabilità.
Ma adesso andiamo, tra poche ore abbiamo il volo per Fiumicino”. Impegno e responsabilità, dice Scalfari. E’ un richiamo per tutti - nessuno escluso - ad uscire dall’apatia che rende complici dell’immenso degrado del Sud. Rubbettino e Cappelli, pubblicando questo libro - amaro, inquietante, forte, ma vero - hanno dato il loro decisivo contributo. I calabresi non perdano l’occasione per riflettere e liberarsi dal vittimismo, per cominciare ad agire. Qualcosa si comincia ad intravedere: la società civile è in fermento. La protesta e l’insofferenza aumentano. Bisogna continuare. Con Sartre: “L’uomo è ciò che fa, a partire dalle condizioni date”. Bocca e Scalfari ci hanno descritto “le condizioni date”. Prendersela con i giornalisti che descrivono e denunciano è peggio di un delitto. E’ un errore.
(8.8.11) ON SCREEN COMMUNICATION E MERCEDES-BENZ - ROMA - Annalisa Masi, dell'ufficio stampa di OnScreen Communication srl, società che ha in prima fila il galatrese Saverio Ceravolo, suo Creative Technology Director, ci segnala, dopo la collaborazione col cantante Luciano Ligabue, un altro importante progetto, sviluppato stavolta fra OnScreen e Mercedes-Benz.
La casa automobilistica ripercorre i 125 anni del suo storico marchio con la nuova brochure Accessori Originali e Collection e la Realtà Aumentata. Alcune pagine del depliant Summer 2011, contrassegnate dal logo AR, sono state implementate con quest’innovativa tecnologia, aprendo all’utente scenari virtuali che si mescolano a quelli reali.
Con l’applicazione, destinata al web, la copertina lascia spazio all’automobile, contestualizzata in tre epoche diverse: come su una quinta teatrale si posizionano gli elementi simbolo dell’estate degli Anni Venti-Trenta, Sessanta e della contemporaneità. Sulla stessa scia, la pagina successiva mostra l’evoluzione degli oggetti che hanno portato al Media Navigation Center, al Box da tetto e ai Seggiolini firmati Mercedes-Benz. Un semplice tocco sull’area dedicata è sufficiente per scegliere quale storia vivere.
Lo sfondo è quello fresco ed estivo di una spiaggia, toccata dall’eleganza di Mercedes-Benz. Una combinazione di elementi grafici su una scenografia tridimensionale, supportati da una colonna sonora vivace, le sue caratteristiche essenziali. Per vivere l’esperienza: www.mercedes-benz.it/accessori-summer
Il progetto è stato curato da OnScreen Communication, main partner italiano del network mondiale Total Immersion, con tl’agenzia creativa The Unknown Creation. Si tratta della seconda iniziativa in Realtà Aumentata per il comparto After Sales di Mercedes-Benz, che conferma così una particolare propensione ai nuovi linguaggi del marketing e della comunicazione.
Visualizza in basso il video dell’applicazione:
Più in basso vi proponiamo invece un articolo sull'argomento tratto dal blog di Roberto Raschellà, visualizzabile al seguente indirizzo: www.ilvicolopaoletto.com/blog
WE ARE OPEN
Written by Administrator
Wednesday, 10 August 2011 00:23
Mezzogiorno di un colorato martedi caldo e soleggiato, ancora testimone dello scempio compiuto solo poche ore prima, nella notte silenziosa.
Come zombie da un brutto film horror, giovani incappucciati si sono impossessati di quello che normalmente ci si guadagna lavorando.
Non e' un discorso di razza, eta', politica o sesso, ci saranno stati un po' tutti li dentro. Giovani accomunati dalla voglia di una "nuova esperienza", probabilmente una bravata nella loro concezione di vita, che non tiene nemmeno conto delle semplici regole del famoso buon senso, ormai dimenticato. E nemmeno delle conseguenze: un altro equilibrio e' stato rotto, con una nuova minaccia alla tranquillita', gia' precaria.
Dopo quello che e' successo in Norvegia, dopo quello che abbiamo osservato in questi giorni, sembra tutto cosi ancora piu' volubile: una cosa, comunque, improvvisa, ma non diciamoci inaspettata. Sinceramente, avrei capito di piu' se avessero rubato cibo invece che computers, ma siamo nella societa' dell'immagine e del successo, veloce e non sudato.
Non so come il governo inglese trattera' questi crimini: io li manderei a zappare e nelle stalle del rigoglioso country side. Mi auguro solo che la Carlucci non commenti sulla falsa riga della morte di Amy Winehouse, che "con la sinistra, il caso non sarebbe isolato". O peggio ancora, la Santanche', probabilmente ancora impressionata all’idea che Paola Concia possa essersi unita davanti alla legge con la sua compagna: «Io mi impressiono, voglio impressionarmi, accidenti! Non voglio abituarmi a certe robe…». Leggo che dell'Italia c'e' sempre da preoccuparsi.
Mi piacciono gli inglesi: oggi erano per strada in molti, chi a fare spesa, chi a riparare i danni, chi a tenere aperta l'attivita'. Anche questo un modo, silenzioso forse, per testimoniare che la vita va avanti.
Non mi piacciono le persone che parlano troppo, soprattutto se di moralita' dubbia o non competenti. Vorrei chiedere, comunque, a queste persone come potrei spiegare a un mio ipotetico figlio quello che sta succedendo in questi giorni, sarebbe gia' una conquista. Forse dicendogli che e' colpa dei Comunisti?
Anche il vicolo Paoletto e' aperto e con le pulizie estive fatte, pronto per ospitare il prossimo evento.
Ringrazio Umberto per il contributo in inglese, tratto dal suo personale blog, che ho apprezzato molto.
In democratic countries the use of deadly force has to be necessary and proportionate and used as last resort by police forces. The difference between a riot like the ones we are seeing in London and a terrorist attack is that in the second instance the state of emergency would allow for a temporary suspension of Human Rights Law and the use of deadly force against a "war enemy".
After shops and buildings were burned down in some areas of London, many blamed the police for being helpless in stopping the violence and the looting. In my view, they wisely chose not to act instinctively as innocent people could have paid the price.
The only way to prevent the events to happen would have been to arrest people pre-emptively or clash on rioters instantly as first signs of rebellion became evident. Yet, it is not possible to arrest someone before he commits a crime as there is a need for mens rea.
Largely these people are criminals, but there are also 11-12 years old kids involved. Deprivation and exclusion lead to such reactions. In this country politics is not setting a good example. We need a new political class and a different idea of society, which is inclusive rather than exclusive. It is disturbing that young people express their dissent by stealing an Ipod or an XboX.
Yet, deep social issues like this need to be addressed and not dismissed as mere criminality. Every time I see a police men searching someone in Tottenham, Woolwich or Brixton I can notice there is a clear discriminatory policy of stop&searching aimed at minority groups. As long as baby gangs stabbed one another, they were hardly an issue for wealthy Londoners. Today, after everyone’s security has been under attack, we are realizing there is an invisible part of the society we never cared about.
I was myself in Woolwich and witnessed shocking attacks to harmless and outnumbered police forces. Though it would have been easy to anticipate riots there, in the first hours there were no more than twenty police men. Thus, despite condemning violence and deeming arrests to be necessary, I would start working on marginalised young people so as to avoid the same tragedy in ten years time.
Posted by Umberto Tramontano.
(19.8.11) "ARTEINCENTRO" A MESSINA - L’Associazione Culturale Messinaweb.eu, indice la quinta Edizione della Manifestazione “Arteincentro 2011” quale concorso Internazionale finalizzato alla promozione e valorizzazione dell’Arte Contemporanea.
La partecipazione è aperta a tutti gli artisti - senza limiti di età, sesso, nazionalità o altra qualificazione - nelle sezioni riservate, rispettivamente, alla Pittura e alla Poesia.
La quota di iscrizione è di 20 € e la scadenza è fissata per il 15 Settembre 2011.
FENOMENOLOGIA DEL FUNZIONARIO INCORROTTO Domenico Distilo
Nella recensione su Galatro Terme News, alla quale rimando i gentili partecipanti, ho focalizzato gli aspetti filosofici del noir di Rocco Cosentino, che ho colto perché ci sono e non certo perché abbia soggiaciuto ad una deformazione professionale; ma c’è dell’altro, parecchio altro, meritevole di attenzione. In particolare m’ha intrigato la figura di Francescotti, il funzionario integerrimo alle prese con la corruzione del politico con cui non può non fare i conti, il sindaco di Tirrenia, comune di cui lui, Francescotti, è responsabile dell’ufficio tecnico.
Francescotti, la cui integrità è a tutta prova, non vive inconsapevolmente in un altro mondo, nel senso che non è la classica persona tutta d’un pezzo, che è ed appare fuori del tempo ed anche dello spazio, insomma, quel che si dice un pesce fuor d’acqua. Egli sa di vivere in un mondo in cui non ci sono semplicemente episodi di corruzione e di ingiustizia, ma in cui la corruzione e l’ingiustizia sono un fatto ontologico, strutturale, a cui egli si sa a priori inadattabile. Questo suo sapersi inadattabile non lo induce tuttavia a rivedere il proprio modo d’essere, a tentare il minimo sforzo di “realismo”, al punto che le sue obiezioni all’avvocato che si è scelto e che lo invita a non prendere troppo alla lettera gli orari del tribunale, perché gli orari reali non corrispondono mai a quelli formali, scritti sugli avvisi di convocazione, appaiono sofismi quasi degni del signor Veneranda, che per chi non lo ricordasse è una figura creata negli anni Cinquanta dall’umorista Carlo Manzoni. Francescotti corre il rischio di apparire sofista, appunto un signor Veneranda, perché in un mondo rovesciato è l’unico diritto – attenti: non dritto - che non vuole mettersi per rovescio, l’unico, o, se non vogliamo essere pessimisti, uno dei pochi, che pur sapendo “come vanno le cose del mondo” tuttavia non vuole andare come (e dove) esse vanno, rischiando seriamente di frantumarsi nell’impatto con la realtà. Infatti finisce in tribunale, essendo stato ingiustamente privato delle mansioni di capo dell’ufficio tecnico che svolgeva e che gli spettavano per avere, non si sa come visto il contesto, vinto un concorso.
Il funzionario integerrimo creato da Rocco Cosentino, dicevo, non è la classica persona tutta d’un pezzo. Non è neppure un moralista dall’indignazione facile. Non ci sono episodi nei quali appaia indignato. Schifato invece sì, di uno schifo silente, strozzato, mimetizzato, diplomatizzato ma mai cedevole, mai arrendevole, mai disposto a scendere a compromessi, semmai a piegarsi senza spezzarsi, come il giunco nella piena, giusta la nota espressione proverbiale calabrese.
Anche la vicenda di Francescotti, come tante altre nel romanzo, è lasciata in sospeso. Cosentino racconta la sua andata in tribunale, l’incontro col vecchio compagno di scuola, la meraviglia che gli suscita il giudice Bernardi – giovane e sportivo invece che anziano ed attempato -, le ipotesi faticose sulle tre donne avvenenti – tra i 35 e i 40 - che all’improvviso compaiono e scompaiono, definite senza perifrasi “puttane” dal suo interlocutore. Tutto questo modo di porsi e di essere di Francescotti è all’insegna di un sentimento che è forse l’esatto contrario della familiarità e della confidenza: la meraviglia, lo stupore che gli suscitano i particolari e che non dovrebbero suscitargli dal momento che egli mostra di conoscere bene il quadro –la corruzione e il malaffare endemici, pervasivi. Chiediamoci: cos’è questo stupore che si manifesta come finta ingenuità di fronte ai particolari, al quotidiano “mondo della vita” che il lettore non può non intuire, non vedere come “il mondo” di una vita intrinsecamente corrotta?
Ebbene, questo stupore è secondo me più che altro finzione, affettazione, un meccanismo di difesa, un rifugio esistenziale. Altrimenti il funzionario incorruttibile non sarebbe più tale, si omologherebbe divenendo uno dei tanti, uno tra tanti.
E’ attraverso la meraviglia e lo stupore, benché finti, benché affettati, o proprio perché finti ed affettati, che Francescotti resta se stesso, riaffermando la sua identità di uno in contrapposizione al tutto, ai tutti che si lasciano corrompere, che fanno “come fan tutti”. Lui invece non fa come fan tutti, non è uno dei tanti, è Francescotti, la cui personalità morale si staglia, unica, in un mondo di immoralità, di coazione all’immoralità, facendolo sembrare l’unico autentico in un mondo dominato dall’inautenticità, l’unico che fa il suo dovere in un mondo in cui nessuno lo fa.
Ci sono altri due personaggi nel romanzo che un po’, anzi molto, assomigliano a Francescotti. Sono i due coniugi che vanno in una caserma dei carabinieri a denunciare l’abuso edilizio commesso dall’avvocato Merlin – una delle due vittime eccellenti - il sindaco sodale della prima vittima, l’avvocato Cardamone.
Si trovano davanti un maresciallo che non presta loro attenzione, che va per le spicce, che non esamina la questione sottopostagli nella sua specificità ma la inquadra ben tosto – del resto deve sbrigarsi perché lo aspettano ad una manifestazione ufficiale - in uno schema generale, utilizzando il burocratese che in tanti anni ha imparato a parlare e a scrivere.
I due coniugi denuncianti, che si aspettavano altro, reagiscono con una meraviglia, uno stupore faticosamente trattenuti. Meraviglia e stupore che nascono dallo sconcerto per un modo di fare che non è assolutamente all’altezza della fiducia che essi avevano riposto nella Benemerita. Qui c’è un interrogativo che si potrebbe focalizzare e che è, diciamo così, riproposto da vari episodi del romanzo: le istituzioni, anche le più accreditate, le più blasonate, meritano o non meritano la fiducia che gli onesti cittadini si sforzano di riporre in esse?
Va da sé che, essendosi proposto di scrivere un noir, Rocco Cosentino le risposte non poteva darle, anzi, esulava dai suoi compiti perfino cercarle. L’essenza, la caratteristica peculiare del noir è il crudo realismo, la descrizione il più accentuatamente realistica dei fatti, delle situazioni, degli ambienti e dei personaggi. Non ci può essere in questo genere letterario una finalità edificatoria, non possono essere impiegate frasi parenetiche, di esortazione al buon vivere e alla bella morale, il compito dello scrittore essendo la rappresentazione della realtà soprattutto nella sua crudezza, il racconto della favola brutta.
Ora, questa favola brutta racconta di due cittadine di provincia, Tirrenia e Solaria, che a una lettura asettica o forse sprovveduta sembrano la forma universale della provincia L’autore ha però detto in un’altra occasione, quando ha presentato il libro ai ragazzi del Liceo Classico di Cittanova, che si tratta sì di nomi e luoghi fantastici ma non poi tanto, che Tirrenia e Solaria non sono l’idea platonica della cittadina di provincia ma due cittadine del Sud. Dunque, de te fabula narratur ci dice Cosentino sia pure in modo ellittico, siamo noi del Sud i protagonisti ed è il Sud lo sfondo, lo scenario del romanzo. Questo anche se non si trova nessun riferimento espresso alla mafia o ad altre organizzazioni criminali e ogni vicenda appare piuttosto imputabile a una corruzione e ad una immoralità endemiche, pervasive - sul cui carattere dialettico ho già detto nella citata recensione e non voglio ripetermi - che potrebbero essere sì di ogni dove ma le cui descrizioni lasciano intuire il riferimento alla “specificità culturale” meridionale. Ad esempio: il sindaco Merlin va al bar col suo complice – mentre Francescotti e la segretaria del sindaco rimangono, non poi tanto pazientemente, in ufficio ad aspettare - e l’avvocato Cardamone che si trova nel bar si offre di pagare le consumazioni con gran profusione, da ambo le parti, di attestazioni e assicurazioni di stima, rispetto, amicizia.
Già, l’amicizia, declinata nella versione, nella specificità meridionale dell’ammiccamento – che come si sa è un sottinteso - mediante dialoghi che uno scrittore del Nord non avrebbe potuto usare perché per usarli è necessario non tanto vivere, quanto essere cresciuti al Sud, averne respirato a lungo l’aria, nella quale, lo sappiamo, si addensano grande trasporto, grande generosità e un altrettanto grande ipocrisia, un altrettanto grande inautenticità esistenziale.
E vengo a un ultimo punto: ho scritto nella citata recensione che Cosentino ha adottato la tecnica del distanziamento ironico dai fatti che racconta, distanziamento che presuppone l’ esserci o l’esserci stato dentro, la partecipazione personale alla vicenda. Ma Cosentino non è autobiografico soltanto quando racconta fatti – casualmente e solo casualmente somiglianti a quelli reali, diciamo sennò magari si arrabbia - ai quali avrebbe potuto partecipare come magistrato requirente. In Niente da cui pentirsi c’è tutta la restante biografia dell’autore: dello studente del liceo scientifico, dell’appassionato di sport che frequenta eventi sportivi ecc, per cui chi già lo conosce finisce per riconoscerlo nelle pagine del romanzo, scritto con una tecnica che non è una “mera tecnica”, indipendente dalla materia trattata, ma il vissuto dell’autore che prende forma di scrittura, di racconto che non è solo noir ma penetrazione psicologica e, talvolta, analisi sociologica che si fa valere soprattutto nella costruzione dei dialoghi, come nel caso, che non è l’unico,dei due carabinieri che spaccano le vetrine della gioielleria per rubare i gioielli che vi si trovavano.
Ora però basta! Poiché il parlare del libro non potrà mai compensare il gusto di leggerlo, sarà soltanto leggendolo che tutto questo – e altro, parecchio altro – potrete scoprirlo.
rancore antico, già esploso nel brigantaggio dopo l'Unità: «Li sudditi su tutti immiseriti - vui jiti a caccia, fumate e durmiti - ministri, senatori e deputati fanno communa e sono intisi uniti - e vui padre Vittorio non guardate - vui jiti a caccia, fumati e durmiti». E leggendo questa vecchia ballata in una libreria di Locri vedevo le case di caccia di Sua Maestà il re Vittorio in Val Grisanche o a S. Giacomo di Entracque, i guardacaccia che spingevano camosci e stambecchi al punto fatale dello «spari maestà», le veglie scaldate dalle botticelle di Barolo e dalle vivandiere.
Non è certo la prima volta che versi di Martino sono citati in volumi di vario genere. Poco tempo fa abbiamo rilevato la loro presenza anche nel fortunato libro di Pino Aprile intitolato Terroni.
Anche un'importante opera in tre volumi su La poesia in dialetto, a cura di Franco Brevini (Mondadori, 1999), pure questa da noi già segnalata, parla dell'opera di Antonio Martino e riporta alcune sue poesie.
(11.9.11) LA FEDE, LA RAGIONE E... IL NULLA: UN LIBRO DI PASQUALE CANNATA' (Domenico Distilo) - Pasquale Cannatà, uno dei tantissimi della diaspora galatrese, i nostri lettori lo conoscono perché ormai da anni scrive di teologia sul nostro giornale, con piglio e lessico da addetto ai lavori anche se conserva, molto opportunamente, uno stile da dilettante che ne rende la lettura agevole anche a chi non ne mastica granché.
Per intenderci, Pasquale dà (secondo me volutamente) l’impressione di essere teologo per caso mentre non lo è affatto, coltivando la riflessione e lo studio sulle questioni al centro dei suoi interventi e del suo recente Conquistadores… del nulla (Edizioni d’autore, pp. 186, € 10,00) si può dire da una vita. Non a caso intesse la trattazione con un racconto che per chi ne conosce, anche solo superficialmente, la storia personale e familiare non può che essere autobiografico, non può che essere la sua stessa vicenda esistenziale che si dipana avendo al centro quella che teologi e uomini di chiesa chiamano “la dimensione verticale”, l’interesse (preponderante) per le cose trascendenti.
La fede, si sa, è “certezza delle cose che non si vedono” che, proprio perché non si vedono, non possono non suscitare il dubbio, interrogando incessantemente il credente e costringendolo, giocoforza, a man mano abbandonare il terreno della fede per quello della ragione, anche se questa, come nel caso di Pasquale, assolve manifestamente alla funzione di ancilla fidei. Quando il corpo a corpo tra le due si sarà completamente consumato sarà stata la ragione, quali che ne siano gli esiti, ad avere avuto partita vinta, non potendo, la fede, opporre alla sua avversaria altro che argomenti… razionali.
E’ questa fede in toto razionalizzata il punto d’arrivo della ricerca di Pasquale Cannatà, la cui preoccupazione fondamentale è di dimostrare che tra la fede e la moderna ragione scientifica non c’è incompatibilità e neppure dissonanza ma pieno accordo, sì che non è possibile, se non si è… in malafede o dominati da un pregiudizio ateistico o antiteistico, addurre argomenti razionali contro la fede. La vecchia formula di Tertulliano, credo quia absurdum, risulta così, alla fine del percorso, completamente rovesciata: si crede perché, alla luce dei fatti e della interpretazione razionale di essi, è assurdo non tanto credere quanto non credere e sarà l’ateo a pronunciare, debitamente parafrasandola, la formula tertullianesca, non potendo altro dire che non credoquia absurdum (non credo, anche se questa mia non credenza è assurda).
Pasquale così abbandona, o dà mostra di abbandonare, l’esprit de finesse per l’esprit de geometrie, per la dimostrazione razionale, insofferente della raccomandazione dantesca di “star contento al quia”. Non si tratta però di uno sviluppo programmaticamente cercato e raggiunto, ma dell’implicazione della polemica nella quale l’autore si lascia trascinare, sostenendola peraltro con armi molto affilate che derivano proprio, paradossalmente, dalla certezza della fede, dal fatto di trovarsi, lui galatrese nato e cresciuto all’ombra del campanile (della Chiesa della Madonna della Montagna), da sempre nella fede.
La fiducia (ir)razionale nelle ragioni della fede lo porta, nel titolo e nei sottotitoli di copertina, a scherzare con i suoi avversari – i razionalisti atei, dei quali adotta il metodo - definendoli “Conquistatori… del nulla”, con i puntini sospensivi che sottendono non solo che il nulla, in quanto nulla, non si può conquistare, ma che tutta la filosofia laica, non solo quella dichiaratamente contro la fede, ma anche quella che esplicitamente o implicitamente ne prescinde, abbia e non possa non avere il nulla come proprio orizzonte.
Col nulla, invero, le cose si complicherebbero alquanto, anche se la concezione che ne ha Cannatà non è di difficile decifrazione. Per lui il nulla è il vuoto esistenziale, la mancanza di senso – intesa letteralmente come insensatezza - che deriva dal pensare l’uomo, heideggerianamente, come mero “essere per la morte” e non invece come “essere per l’eternità” come, a seguirlo, dimostrerebbero la ragione teologica e quella scientifica.
Concludo con una provocazione che essendo lui cattolico ortodosso – di un’ortodossia che ha malintese e infelici implicazioni politiche - non gli piacerà: ho colto molte assonanze con quanto si legge nei libri di Vito Mancuso, un teologo che col magistero ufficiale non ha certo un rapporto idilliaco.
L'autore comunica che due copie del libro sono a disposizione dei galatresi essendo state da lui donate alla biblioteca comunale, una terza copia è stata data invece alla biblioteca della scuola media.
In alto: la copertina del libro di Pasquale Cannatà.
Salìci - Contrada montuosa nel territorio del Comune. E' un terreno pianeggiante dove si coltivano grano, granoturco, patate, ecc. La zona ha preso questo nome per l'abbondanza di salici che venivano fatti crescere per fare da frangivento, dal momento che la zona è molto esposta ai venti.
Càmmara - E' una zona tutta coltivata a vite. Il vino della Càmmara è un vino ricercato in quanto viene coltivata uva speciale.
Tri Vadhuna (Tre Valloni) - Zona di montagna del Comune di Galatro. Il terreno è pianeggiante e coltivato a grano, granone, patate con la presenza di pascoli. E' una zona molto abitata anche attualmente, in particolare da famiglie dedite all'agricoltura e all'allevamento. In tale contrada sono presenti scuole, ambulatorio, negozi di alimentari e bar. E' congiunta a Galatro e alla contrada Salìci da una strada che si inerpica fra le montagne.
Livaràtu - Il nome di questa contrada, Livaratu, deriva dalle molte piante di ulivo esistenti nella zona. Il terreno è in parte pianeggiante e in parte montuoso. E' collocata sulla sponda destra del fiume Métramo. Nella parte alta prevale la coltivazione dell'ulivo, nella parte bassa vi sono estensioni di agrumi.
La Monaca - Questa contrada nei pressi di Galatro, prese il nome dall'antica proprietaria che era detta 'a monaca. Si trattava infatti della suora De Felice Protopapa.
Cuvalùta - Il nome deriva da Cùvalu, che vuol dire incavo. Cuvalùta significa quindi incavata. E' costituita infatti da un terreno incavato fra due montagne. E' coltivata a bosco che è di proprietà del Comune di Galatro.
(13.10.11) RESOCONTO DELLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "NIENTE DI CUI PENTIRSI" - Il libro di Rocco Cosentino, Niente di cui pentirsi, è stato presentato a Galatro in un incontro dibattito al quale è intervenuto, oltre all'autore, anche il presidente dell'Amministrazione Provinciale dottor Giuseppe Raffa.
Pubblichiamo la relazione con cui l'assessore comunale, avv. Pasquale Simari, ha presentato il volume al numeroso pubblico convenuto presso la sala convegni comunale di Piazza Matteotti.
L'incontro è iniziato con il saluto del sindaco Carmelo Panetta, subito dopo Domenico Distilo ha tratteggiato la personalità dell'autore, suo alunno nei primi anni Novanta al Liceo scientifico di Cittanova. Nel dibattito sono intervenuti anche l'avvocato Michele Scozzarra e il maresciallo Francesco Distilo.
Relazione dell'avv. Pasquale Simari
Quando mi è stato chiesto di intervenire alla presentazione di Niente di cui pentirsi, ho pensato che ci si attendesse da me non tanto un giudizio estetico, che non ho certo i titoli per poter esprimere, quanto un’opinione per così dire “qualificata” sulla parte “tecnico-giuridica” del romanzo.
Infatti dopo aver letto le note biografiche sul risvolto di copertina, in cui si dice senza mezzi termini che una delle ragioni, se non la principale, per cui il magistrato Rocco Cosentino ha sentito l’esigenza di cimentarsi con la narrativa è stata l’insofferenza per le numerose imprecisioni che, in ambito letterario, costellano la descrizione delle indagini penali, credo che in chiunque nasca spontanea la curiosità di verificare se, messo alla prova, l’Autore ha saputo evitare gli errori o le incongruenze che mal sopporta di ritrovare altrove.
Devo dire, in tutta sincerità, che il risultato è stato assolutamente all’altezza delle attese: non solo per la precisione, la coerenza e la pertinenza di tutti i riferimenti alle procedure, alle competenze ed ai ruoli degli investigatori (intendendo con questo termine sia la polizia giudiziaria che il PM che la coordina) ma anche, e soprattutto, per la capacità, anzi l’abilità, di Rocco Cosentino di raccontare il reale svolgersi di una indagine, in tutte le sue sfumature, senza mai indulgere nella leziosità o nella saccenza.
In altri termini, l’Autore è riuscito nel difficile compito di fotografare, nel modo più fedele alla realtà, i momenti topici di una indagine penale mantenendo inalterato il ritmo narrativo che, ovviamente, in un romanzo noir deve sempre rimanere sul filo della tensione.
Anzi, in alcuni tratti, ho colto delle vere e proprie finezze, cioè dei particolari che agli occhi meno esperti appariranno probabilmente insignificanti ma che, per un addetto ai lavori, denotano l’assoluta padronanza dell’argomento da parte dell’Autore.
Faccio un esempio per farmi capire: nella prima parte del romanzo viene descritta con grande profusione di particolari tutta l’attività investigativa che caratterizza la scoperta di un delitto di omicidio, con gli ovvi riferimenti alla delimitazione della scena del crimine, ai rilievi della polizia scientifica, alla ricerca dei primi indizi. Tutte cose che, bene o male, si ritrovano anche in un banale sceneggiato televisivo e che, ormai, conoscono a memoria anche i bambini.
In questo caso, però, ad un certo punto viene raccontato il momento in cui un congiunto della vittima è chiamato a riconoscere il cadavere: ebbene, nella realtà, a differenza di quanto siamo abituati a leggere e vedere in tv, questa procedura richiede anche la stesura di un apposito verbale di constatazione che deve essere poi sottoscritto da chi ha effettuato l’identificazione.
La finezza a cui mi riferisco si manifesta proprio al momento della verbalizzazione, quando l’Autore riesce a coniugare in maniera mirabile il crudo realismo della scena, necessario ai fini narrativi, con la concretezza ed il pragmatismo del PM che, dall’espressione di sconforto del congiunto acquisisce comunque la conferma implicita delle effettive generalità della vittima e riesce così a venire a capo di uno dei passaggi burocratici più fastidiosi di un’indagine di omicidio.
A mio avviso, solo chi ha davvero avuto a che fare con momenti come questi poteva dare il giusto rilievo ad una tale sfumatura.
Allo stesso modo, non penso sia stata casuale, nella scena dell’irruzione nell’abitazione del ricercato, la precisazione sulla diversità del nostro ordinamento, che non vede di buon occhio l’uso delle armi, anche da parte della Polizia, e ne consente il ricorso solo nei casi in cui risulti assolutamente indispensabile, rispetto agli stereotipi americani, in cui non manca mai una porta abbattuta a revolverate o peggio.
E poi c’è la parte più stuzzicante, in cui l’Autore inserisce nel racconto delle vere e proprie chicche.
Così, qua e là vengono rivelati dei “segreti del mestiere”, come per esempio che esiste una regola non scritta per cui il primo corpo di polizia ad arrivare sul luogo del delitto trattiene per se le investigazioni o che spesso e volentieri le “casuali perquisizioni” che consentono il sequestro di droga o armi a bordo di autovetture poi tanto casuali non sono: si tratta infatti di operazioni frutto di intercettazioni e pedinamenti, che vengono eseguite con modalità tali da farle apparire del tutto fortuite solo per non compromettere il resto dell’indagine.
Ed ancora, credo sia davvero interessante per un profano sapere che un’ordinanza di custodia cautelare nella maggior parte dei casi è costituita all’80% dalla integrale trascrizione dell’informativa della Polizia Giudiziaria più un 10% di commento del PM richiedente ed un 10% (ad essere generosi) di valutazioni da parte del GIP.
E mi fermo qui per non togliere lo sfizio a chi ancora non l’ha letto: in definitiva, il romanzo è una miniera di informazioni per chi vuole scoprire come si svolge davvero un’indagine ma non ha la voglia o il tempo di mettersi a studiare un saggio specialistico: si può infatti capire come si conduce un interrogatorio, come sono strutturati i rapporti tra Polizia Giudiziaria e PM, come si formulano e si mettono in pratica le ipotesi investigative, quali sono le formalità che precedono l’esecuzione di una intercettazione telefonica, come si esegue un arresto, come opera un agente infiltrato, ecc.
Comunque, ribadisco, tutte queste descrizioni sono perfettamente coerenti con il contesto narrativo e lo arricchiscono senza appesantirne la struttura e la fluidità.
Perché, ed ora parlo da appassionato lettore di romanzi thriller e noir ormai da quasi 25 anni, Niente di cui pentirsi è un romanzo che si fa leggere con piacere e che coniuga sapientemente una molteplicità di registri: si trovano infatti momenti di ironia cui fanno seguito pagine di denuncia civile, parentesi di introspezione psicologica che poi lasciano spazio a picchi di adrenalina ed azione.
Insomma un libro che non lascia indifferenti, anche per il finale per così dire a sorpresa.
Del resto, la scelta del genere noir, che per definizione può anche non avere un finale chiarificatore, non credo sia stata casuale, ma abbia rappresentato il modo attraverso cui l’autore ha voluto indurre il lettore a non abbandonare il libro anche dopo essere arrivato all’ultima pagina, perché costretto a riflettere sui tanti fili del romanzo che alla fine arrivano a congiungersi, ed a cercare lui stesso la soluzione che preferisce.
Però… c’è sempre un però…
Dopo aver speso tante belle parole, vorrei difatti muovere un rimprovero al Dott. Cosentino: nel romanzo, agli avvocati non è riservato un trattamento generoso e, addirittura, gli avvocati – amministratori locali sono i protagonisti negativi della storia, cattivi che più cattivi non si può.
Dato che, guarda caso, mi trovo in questo momento a rivestire entrambi i ruoli, mi sembra doveroso precisare che si tratta di opera di pura fantasia e che, in realtà, salvo qualche inevitabile eccezione, in un paese democratico la classe forense, con tutti i suoi difetti, ha un ruolo importantissimo, che io reputo di valore assolutamente pari a quello della magistratura.
A questo punto, come riparazione, chiedo che il prossimo romanzo di Rocco Cosentino veda come protagonista un giovane avvocato di grandi ideali che lotta contro un magistrato senza scrupoli per salvare dal carcere un innocente.
A parte gli scherzi, sono sempre stato convinto che il buon giorno si vede dal mattino e, in questo caso, l’esordio non poteva essere più promettente: Niente di cui pentirsi è un romanzo che si sta piano piano facendo strada con il solo passaparola dei lettori e sono sicuro che ancora farà molto parlare di sé.
Da parte mia auguro a Rocco Cosentino di eguagliare e superare i suoi colleghi magistrati Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo che ormai sono entrati nel gotha della narrativa italiana facendo incetta di premi, vendendo milioni di copie e vedendo le proprie opera sistematicamente trasposte al cinema o in TV.
Quindi, speriamo di poterci presto rivedere alla presentazione del primo film tratto dalle opere di Rocco Cosentino.
Nelle immagini: in alto da sinistra a destra Domenico Distilo, il presidente Raffa, Rocco Cosentino, Carmelo Panetta e Pasquale Simari (foto Umberto Di Stilo); in basso la copertina del libro.
Ognuno di noi è, quindi, celebre per quello che fa, nel bene e nel male. Non occorre essere sulle copertine di un giornale per essere celebri.
La mostra parte da questo concetto e si sviluppa in una serie di fotografie che alternano personaggi conosciuti, come Madonna, Michael Jackson, le attrici di "Sex and the city" e la coppia reale, William e Kate, a persone di tutti i giorni.
Se la foto della persona celebre colpisce per il fatto di chi è e cosa rappresenta, a Roberto Raschellà piacerebbe che le altre colpissero per quello che esprimono.
La mostra scaturisce dall'iniziativa dei titolari della libreria "Un mondo di libri", che, anche dopo diciotto anni, credono ancora nella possibilità di lavorare per promuovere cultura e conoscenza. Di recente trasferita nel cuore di Seregno, hanno voluto coniugare antico e moderno in una connotazione avveniristica, creando angoli per la lettura e la conversazione anche multimediale, con la zona wi-fi, la zona bimbi con la grande lavagna di 4m, tutti da colorare, la sala per le mostre e gli incontri, dove sono già programmati eventi sino a dicembre. Celebrity, si è aperta Sabato 15 ottobre alle ore 17.30, presso "Un mondo di libri", a Seregno (Mi). Le foto di Roberto Raschellà saranno in esposizione la settimana successiva, da Lunedi 17 Ottobre pomeriggio, fino a Sabato 22, in orari di negozio.
Per raggiungere Seregno: superstrada Milano/Meda, poi seguire indicazioni per Seregno centro e, successivamente, le poste, dove si può parcheggiare. La libreria si trova nella zona pedonale. E', inoltre, situata sulla linea Milano–Chiasso, è capolinea della Seregno–Bergamo e della Novara–Seregno.
Per info 328.9519803